Marco D'Eramo: E' necessario l'hamburger post-moderno

26 Novembre 2002
La McDonald's ha il mal di pancia. E non perché i suoi clienti divorano troppi BigMac, ma perché ne mangiano pochi. I segni della crisi sono ovunque. Il corso delle azioni è crollato da 50 a 17 dollari in soli due anni. I profitti, pur pingui, sono in calo rapido. Le avvisaglie si avvertirono nel 1997 quando il nuovo menu Arch DeLuxe fu un tonfo clamoroso malgrado una pubblicità martellante. Fino a oggi, per compensare le vendite stagnanti la ditta del Doppio arco moltiplicava le aperture di nuovi locali. Il massimo fu toccato nel 1996 con 2.000 McDonald's aperti (in proprietà o in franchising). Quest'anno ne sono stati inaugurati 1.300, e l'anno prossimo saranno solo 600. E quest'ottobre, la multinazionale di Chicago ha annunciato la chiusura di 175 locali in 10 nazioni e l'uscita totale da quattro paesi (oggi la regina degli hamburger è presente in più di 120 paesi con più di 30.000 locali - di cui 13.000 negli Stati uniti). E ha annunciato il licenziamento di 600 dipendenti: una goccia nel mare dei 400.000 addetti che lavorano nelle friggitorie che possiede in tutto il mondo, e del milione e passa di addetti, se si includono i locali in franchising. Il fatto è che, come le altre grandi catene di fast food (Burger King, Wendy's, Taco Bell, Pizza Hut), McDonald's - che controlla il 40% del mercato degli hamburgers -perde clienti negli Stati uniti, la sua roccaforte.
Per contrastare la tendenza negativa, la corporation delle patatine fritte ha tentato di tutto. Ha comprato altre catene di fast-food e di sandwiches (non di hamburger) come Chipotle, Donato's Pizza, Boston Market e l'inglese Pret A Manger. Ha innescato una sanguinosa guerra dei prezzi contro le sue concorrenti, in particolare Burger King, lanciando nove prodotti, ognuno al prezzo di un dollaro. La Burger King ha risposto con 11 piatti a 99 centesimi, ma ha perso lo stesso clienti. E la guerra dei prezzi sta mandando in rovina le franchising perché i margini di profitto si riducono sempre più.

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Pensando che i suoi clienti siano ormai stufi del BigMac, di Filet-O-Fish, McChicken, la McDonald's ha poi cercato di diversificarsi paese per paese. In Francia vende hamburgers al rocquefort, in Italia insalate capresi e di mare, in Giappone hamburgers con uova fritte, in Thailandia Samurai Pork Burgers, in India sandwichs vegetariani e BigMac al montone, Maharaja Mac, e al pollo, Chicken Maharaja Mac, per evitare il bue (tabù per gli hindu) e il maiale (tabù per i musulmani). Nei paesi arabi, come in Egitto, ha lanciato il McFalafel (usando come testimonial della campagna promozionale il cantante Shaaban Abdel Rahim che era divenuto famoso per la canzone Io odio Israele, infuriando così la comunità ebraica americana: Oipaz se ne è occupato il 5 febbraio di quest'anno). Ma a nulla è servito questo attivismo.
A settembre il New York Times aveva chiamato al capezzale della McDonald's specialisti della ristorazione di massa. Ma, come in ogni consulto che si rispetti, le opinioni degli eminenti luminari divergevano. Per uno, la ditta del Doppio arco deve migliorare la qualità del suo prodotto guida, l'hamburger, e dedicare meno energia a rinnovare il menu. Per un altro il prodotto va benissimo, va solo pubblicizzato come cibo salutare. Per un terzo è la diversificazione che va perseguita. Insomma, nessuno sa cosa pesci pigliare. Ma da che dipende questo disamoramento degli americani per il loro simbolo nazionale?
Come sempre non c'è una ragione unica, ma un insieme di fattori. Il primo è l'immagine della casa, molto meno smagliante oggi di dieci anni fa. La McDonald's spende ogni anno 2 miliardi di dollari in pubblicità (l'ultimo suo testimonial è il miliardario edilizio Donald Trump), e una cifra segreta ma assai rilevante in cause legali contro i suoi detrattori. Non dimentichiamo che uno dei leaders della protesta no global, José Bové, è diventato famoso attaccando un McDonald's in Francia, e solo pochi giorni fa è stato bruciato a Grenoble un altro locale in costruzione. La contestazione iniziò la famosa causa per diffamazione (Libel in inglese) intentata nel 1990 dalla McDonald's in Inghilterra contro due militanti anarchici ed ecologisti. Il processo, denominato McLibel, è stato il più lungo e il più costoso della storia inglese, ha dato spunto a una mini-serie Tv, il relativo sito Internet registrava più di 1,5 milioni di accessi al mese, e l'editorialista ambientale del Guardian vi ha dedicato un libro, McLibel, appunto (MacMillan, 1997).
Tutto cominciò con un pamphlet. What's wrong with McDonald's?, "Cosa non va in McDonald's?" scritto da Helen Steel (31 anni, ex giardiniera e barista) e Dave Morris, (42 anni, ex postino), due militanti autodefinentisi anarchici di London Greenpeace (niente a che vedere con la grande associazione verde internazionale Greenpeace). Per il processo, la McDonald's assunse il più agguerrito e più costoso avvocato civilista inglese, Richard Rampton, che sembrava uscito da un romanzo di Grisham. E nel giugno 1997 il giudice inglese diede ragione al gigante dell'hamburger. Questa sentenza favorevole si rivelò però un boomerang perché indignò i no global di tutto il mondo (chi vuole aggiornarsi sulle campagne in corso può consultare il sito www.mcspotlight.org).
Un altro fattore è la crescente sensibilità salutista e ambientalista. Le multinazionali del fast-food americane rischiano di fare la fine dell'industria del tabacco ed essere costrette a pagare miglia di miliardi di vecchie lire per danni alla salute dei fumatori. Molti americani hanno infatti intentato cause ai vari McDonald's, Burger King, Taco Bell, Pizza Hut accusandoli di aver taciuto sugli effetti ingrassanti del loro cibo e di essere perciò responsabili dell'obesità dilagante negli Stati uniti: la settimana scorsa una causa è stata intentata da vari bambini newyorkesi, in nome dei milioni di loro coetanei obesi. (Altro bersaglio delle cause legali sono i produttori di merendine responsabili dell'obesità infantile. È verso i bambini infatti che le catene di fast food hanno compiuto i maggiori sforzi. Basti pensare che negli Stati uniti hanno aperto 70.000 spazi giochi nei propri ristoranti, per attirare le famiglie con bambini. E si sa che i sapori gustati da piccoli destano nostalgia per tutta la vita a venire). Ogni anno l'obesità provoca 300.000 morti ed esige una spesa sanitaria di 117 miliardi di dollari, 230.000 miliardi di vecchie lire.
Ma mentre negli Usa esistono solo quattro grandi produttori di sigarette, vi sono migliaia di catene di fast-food e che vendono 320.000 prodotti differenti. In più, ogni fumatore fuma solo una marca di sigarette, mentre una persona va di solito in diversi ristoranti fast-food. Perciò è molto difficile provare che una singola catena sia responsabile di una singola obesità. Quindi i salutisti americani hanno adottato un'altra tattica: accusano produttori e fast-food di mentire nella loro pubblicità. È noto per esempio che le patatine fritte di McDonalds erano così buone perché erano cotte nel grasso di bue. Dopo le proteste dei vegetariani, la compagnia ha smesso di usare grasso di bue. Però, nonostante la sua pubblicità dicesse il contrario, continuava a usare grassi di origine animale. Così ha accettato di pagare 10 milioni di dollari come donazioni a gruppi vegetariani.
Le preoccupazioni salutiste - scriveva il Wall Street Journal - fanno sì che la fascia di età tra i 18 ai 34 anni (la più assidua frequentatrice di fast food), si stia adesso spostando sui quick casuals, catene di panini di alta qualità , come Panera Bread, Corner Bakery, Pick Up Stix, Fazoli's, Chipotle Mexican Grill (quest'ultima controllata da McDonald's) che ormai attrae il 37% di quel gruppo di consumatori, disposti a spendere tra i 4 e i 7 dollari per un panino invece dei 3-4 dollari che costa un pasto da un fast-food. Per capire lo smarrimento salutista di cui è preda McDonald's, basti pensare che il mese scorso la sua filiale francese ha pubblicato sul periodico femminile Femme Actuelle una pagina di pubblicità titolata "McDonald's sta causando obesità ai bambini?", per rispondere a statistiche che mostrano che in 10 anni i bambini obesi sono raddoppiati in Francia passando dall'8 al 16%. In questa pagina, la nutrizionista indipendente Agnes Mignonac scriveva che finché un bambino faceva esercizio fisico e mangiava in modo sano, andare da McDonald's una sola volta alla settimana non sarebbe stato dannoso (implicando che andarci più volte è nocivo). Questa pubblicità ha sì scatenato i fulmini della casa madre americana contro la filiale europea, ma dimostra quanto questa corporation sia ormai nel mirino di tutti i dietologi.
Tutti i fattori su elencati contribuiscono alle difficoltà di McDonald's, però c'è qualcosa di più profondo nella fulmineità della traiettoria di questa multinazionale che sembra scandire da sempre i nostri paesaggi urbani, e invece risale solo a metà degli anni `50. Fu nel 1954 che il commerciante Ray Kroc ebbe l'idea di "clonare" (cfr. Walter Benjamin e "il problema della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte") il chiosco dei due fratelli McDonald's a San Bernardino in California. Il primo clone fu aperto nel 1955 a Des Plaines (nella periferia di Chicago), Illinois. La società fu costituita nel 1959 e da allora - come è giusto - la sede centrale della multinazionale dell'hamburger è rimasta a Chicago, la città che era diventata grande con i mattatoi. Nel 1965 Mc Donald's fu quotata a Wall Street. Nel 1968 Jim Delligatti, che gestiva una dozzina di franchising della McDonald's a Pittsburgh, inventò il BigMac. Nel 1973 un altro operatore in franchising creò il McMuffin all'uovo e nel 1979 fu lanciato l'Happy Meal per bambini (sono queste le date epocali che scandiscono la storia moderna). Nel 1984 un locale fu lanciato in Kuwait e infine il primo locale italiano aprì nel 1985 (sì, così tardi: oggi sono 250 i McDonald's nel nostro paese).

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Tra il 1959 e il 1990 l'ascesa della McDonald's è stata così fulminea che, secondo un sondaggio degli anni `90, il suo simbolo - il doppio arco - è il secondo più riconosciuto al mondo (il primo posto spetta ai cinque anelli olimpici), superando persino la croce del cristianesimo. Il libro The Mcdonaldization of society di George Ritzer sancì questo successo, facendo della multinazionale dell'hamburger il modello della civiltà americana.
McDonald's sta al cibo come il fordismo sta all'automobile. McDonald's realizza l'egualitarismo taylorista, reso possibile dalla standardizzazione portata all'estremo. C'è chi non sopporta McDonald's perché è identico ovunque. Ma è proprio la sua ubiquità, il suo essere sé medesimo a Johannesburg come a Rio de Janeiro, che ne fa il modello universale di "standardizzazione del gusto". McDonald's piace proprio perché è indistinguibile, infinitamente replicantesi: nell'ambito dell'alimentazione, ai suoi hamburgers potrebbero applicarsi tranquillamente le straordinarie pagine che Karl Marx scriveva sulla moneta come equivalente universale nell'economia generale. Non per nulla, di recente gli economisti hanno cercato di determinare il potere d'acquisto nei diversi paesi del mondo comparando i differenti prezzi del BigMac: il BigMac è un equivalente generale.
In questo senso, i tentativi di McDonald's di camuffarsi, a seconda dei paesi nel McFalaffel o nel Maharaja Mc, sono destinati al fallimento perché contraddicono l'idea stessa che è stata alla base della fulminea espansione di McDonald's nel mondo. Anche se la casa di Des Plaines cerca di giocare queste specialità locali nello stesso modo in cui l'industria discografica mondiale sfrutta le musiche etniche (la musica celtica per esempio; che è l'identità resa fruibile fuori dal proprio contesto identitario).
Il problema è che la fase attuale è caratterizzata dalla crisi del fordismo e del taylorismo, non solo perché le fabbriche non usano più quei modelli organizzativi, ma perché gli individui non trovano più appetibili quei modelli di consumo sociale. Ecco perché McDonald's si trova davanti a un compito impossibile, quella d'inventare l'hamburger post-moderno.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …