Michele Serra: Le periferie dimenticate dalla società dei sapienti

26 Agosto 2003
Gli spari di Rozzano fanno da innesco, sui giornali, a una faticosa e circospetta discussione sulle condizioni di vita nelle periferie urbane. È una discussione che ci coglie alle spalle, come certe rimozioni di dolori e disagi passati e irrisolti che riemergono da uno strato (inutile) di dimenticanza.
Già "periferia" è un termine anacronistico, da evo dell´industria, da padri e nonni inurbati a affastellati ormai mezzo secolo fa, come pezzi da immagazzinare, in tragici palazzoni che erano e sono grattacieli senza vanità, tristi parodie involontarie del lucente orgoglio dei centri direzionali e delle sedi del potere aziendale. Ma anche "condizioni di vita", o peggio ancora "qualità della vita", è un concetto che ci suona decrepito, e che maneggiamo con imbarazzo: perché ci rimanda diritti a un evo scomparso, quello nel quale i modi del vivere, dell´abitare, del lavorare, vennero tutti radicalmente messi in forse, e rivoltati alla luce critica dell´ideologia e delle utopie sociali.
Finita malamente e amaramente quella stagione, è come se le risposte sbagliate (perché brusche, e presuntuose) avessero condannato all´oblio anche le domande giuste. Tra esse, quella fondamentale era se fosse non solo accettabile, ma perfino possibile vivere nello squallore smemorato degli alveari periferici, deportati dai propri luoghi d´origine, scissi dalle proprie radici e impossibilitati - fuori dalla fabbrica e dalla politica: entrambe quasi estinte - a farsene delle nuove. In quel brutto istituzionalizzato galleggia oramai la seconda o terza generazione postoperaia, che neppure in lustri e lustri di panni appesi, e tanto meno grazie all´addobbo delle antenne paraboliche, è riuscita a trasformare quei depositi umani, quelle rotonde d´asfalto, quegli affacci sul nulla in identità sociale, in spirito di comunità, insomma in solida vita collettiva e in prospettiva di futuro.
C´è una domanda semplice semplice che ogni persona di questo paese, se in regola con la propria coscienza o almeno con la propria intelligenza, dovrebbe porsi: ma io vivrei lì, in quel clima sociale, con quel paesaggio davanti alle finestre? Attenzione: pur essendo una domanda morale, oltre che logica, non è quasi più posta, perché in quanto morale (e in quanto logica) puzza di altruismo, di preoccupazione sociale e di altri vizi oggi molto malvisti, e radunati a mazzo nella malapianta del "buonismo" ipocrita. Cioè: chiedersi se siano tollerabili le condizioni di vita di milioni di italiani, e chiederselo a partire da una strage insieme occasionale e endemica, è diventato un esercizio retorico degno di spregio. Indicare la bruttezza massificata, e la massificazione abbruttita (nelle città, in televisione, nelle vacanze ingorgate, ovunque) come matrice, o almeno una delle matrici, dell´infelicità e della violenza, è diventato un esercizio snobistico, da pensatore satollo e viziato, con casa in Umbria o in Maremma. Viceversa il classismo definitivo e feroce di chi depone la questione tra quelle insolubili (si sa, la società di massa è questa, non tutti possono abitare in Umbria o in Maremma) passa per realistico, e non ipocrita, e politicamente sapiente.
Più sapiente (per fortuna e per disgrazia) è però la realtà delle cose. Che costringe a infilare le telecamere, come in un viaggio a ritroso nella sostanza originaria del nostro vivere, nel dedalo informe dei suburbi della inutilmente ricca Lombardia, che vista dall´alto, dal cielo sopra Milano, è una immensa gettata di stradoni e case, capannoni e villette che si arrampica fino alle Prealpi, con la stessa precaria e misera ostinazione di uno sterminato insediamento post-terremoto.
Il terremoto è quello dell´industrializzazione, che in cambio di un benessere minimo ha devastato l´anima dei luoghi e delle persone. Siamo ancora lì, dopotutto e nonostante tutto, siamo al paese contadino che ha dovuto concentrare in pochi decenni quasi due secoli di trasformazione industriale deportando mezzo Meridione (l´industrializzazione forzata è stato il nostro stalinismo), e lo ha fatto in fretta e malamente, stravolgendo il senso di un abitare antico e coeso, fatto di borghi, di piazze, di trattorie e caffè.
Gli stranieri stanno comperando gli ultimi lembi di Italia centrale, i più intatti e vivibili, perché il censo e la cultura fanno loro da bussola. Da noi è accaduto che il censo, e l´ansia di conquistarlo a passi veloci, abbia reso la cultura (e le radici, e la coscienza di vivere in un paese che fu il più bello del mondo) una zavorra. Piccole élites nazionali condividono con il ceto medio europeo colto e abbiente la ricerca della sobria bellezza italiana, arroccata nelle piccole città e nelle splendide campagne. Per le masse, che pure da quei borghi e da quelle campagne hanno preso l´abbrivio, ci sono, ieri e oggi e sempre, le periferie delle metropoli, quelle che già Pasolini (quarant´anni fa) batteva cercandone inutilmente il cuore, e il nerbo umano.
Ma il discorso su bellezza e bruttezza, in un paese come l´Italia, non dovrebbe essere pane quotidiano, anche in politica, perfino in politica? Anche adesso che la televisione ha finito di demolire per bene il discrimine tra i due concetti, non basta Rozzano, povera Rozzano, a farci capire che, quando ci si arrende al brutto, si smette di ragionare sulla propria vita quotidiana? Mica su Giotto o su Svevo: sulla propria vita quotidiana.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …