
Per battere la povertà non basta il welfare. Intervista a Mohammad Yunus
Interrogando una donna che costruiva ceste di vimini, ne scoprì la condizione di schiavitù: acquistava a credito la materia prima da un commerciante usuraio, al quale era costretta a rivendere i suoi prodotti per un guadagno di pochi centesimi. Yunus capì che sarebbe stato necessario spezzare quella catena: sarebbe stato sufficiente prestare con un equo tasso di interesse qualche centesimo in più a quella donna, che avrebbe potuto acquistare il vimini e avrebbe potuto rivendere le sue ceste sul ‟mercato”, liberamente. Così è diventato il ‟banchiere dei poveri”.

‟Pochi dollari per cominciare”. Intervista a Muhammad Yunus
Era il 1974 e vagabondando per i villaggi nei dintorni di Chittagong, nel neonato Bangladesh indipendente funestato dalla carestia, il giovane economista Muhammad Yunus maturava un'intuizione che si sarebbe rivelata presto vincente: dare ai poveri la possibilità di un futuro dignitoso attraverso minuscoli crediti, garantiti solo dalla dignità e dalla forza di volontà dei contadini bengalesi collaudate in secoli di dura lotta per la sopravvivenza. Oggi il professor Yunus, 54 anni, è a capo di un ‟impero” di credito alternativo basato sulla Grameen Bank (la ‟Banca dei contadini”, appunto) e le iniziative ad essa collegate, che serve quasi due milioni e mezzo di suoi connazionali edè presente in ben 56 Paesi, in ogni continente e situazione socio-economica. A riprova che ogni realtà, per quanto ricca, ha i suoi poveri e che solo il difficile accesso al credito tradizionale costringe ben un miliardo e mezzo di persone a vivere in condizioni di pura sopravvivenza. Abbiamo intervistato Muhammad Yunus a pochi giorni dal suo arrivo in Italia, dove resterà dal 6 al 10 settembre su invito dell'editore Feltrinelli che ha pubblicato la traduzione della sua autobiografia dal titolo Il banchiere dei poveri.

Rana Dasgupta presenta Tokyo Cancelled
Tokyo Cancelled parla della globalizzazione, e dei nostri sentimenti nei suoi confronti. Quindi, è più incentrato sui riverberi delle vite vissute in posti diversi che sul tentativo di catturare il sapore unico, ‟esotico,” di un luogo particolare. Si tratta di una sorta di mitologia della città del Ventunesimo secolo, in cui le esperienze di un luogo si ripercuotono su quelle di un altro. L’idea del mondo come qualcosa di distante e remoto è subordinata a quella che lo vede come parte del nostro essere. Ed è un fatto che tutti questi luoghi sono parte di noi, del nostro immaginario, della nostra realtà quotidiana.
La globalizzazione che non c’è. Intervista al politologo americano Michael Walzer
‟In questo periodo storico non c’è nessun processo politico di globalizzazione, ma solo economico. Agli Stati rimangono ancora importanti doveri verso i propri cittadini e verso gli altri Stati, soprattutto quello della difesa dell’individuo”.