Umberto Galimberti: L´educazione dell´anima obbligatoria a scuola

27 Maggio 2002
Una madre mette in lavatrice la sua bambina che aveva partorito sette mesi prima, un´altra mamma si accanisce con un coltello da cucina sul corpo indifeso della sua bambina di sette anni per poi suicidarsi: queste tragedie non possono essere sbrigativamente liquidate come «casi psichiatrici» e qui relegati e rimossi. La ricorrenza di storie come queste, ormai troppo frequenti, obbliga tutti noi a una riflessione più seria.
Disponiamo ancora di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a questa elaborazione, in grado di trattenerci dal gesto? Esiste nella nostra cultura e nelle nostre pratiche di vita un´educazione psicologica che ci consenta di mettere in contatto e quindi di conoscere i nostri sentimenti, le nostre pulsioni, la qualità della nostra sessualità e i moti della nostra aggressività? Oppure il mondo emotivo vive dentro di noi a nostra insaputa, come un ospite sconosciuto a cui non sappiamo dare neppure un nome? Se così fosse di fatti simili a quelli di Sondrio o a quelli di Imola aspettiamocene molti, perché è difficile pensare di poter governare la propria vita senza un´adeguata conoscenza di sé.
E qui non alludo alla conoscenza postuma che in età adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo psicoterapeuta a cercar l´anima o direttamente in farmacia nel tentativo di sedarla, qui faccio riferimento a quella cura della psiche che prende avvio il primo giorno della nascita, quando il neonato si attacca al seno materno e, insieme al latte, assapora l´accoglienza, l´indifferenza o il rifiuto. Moti impercettibili che sfuggono all´osservazione esterna, ma decisivi per la formazione nel neonato di quel nucleo caldo, o «fiducia di base» come dicono gli psicologi, che è la prima condizione per essere al mondo, senza essere soverchiati dall´angoscia.
Poi si cresce e nell´educazione della prima infanzia vedo padri e madri che promuovono un´educazione fisica e un´educazione intellettuale, ma non un´educazione psicologica, che è poi l´educazione dei sentimenti, delle emozioni, degli entusiasmi, delle paure. Tutte queste cose il bambino se le organizza da sé con gli strumenti che non ha.
Tra una palestra e un corso di nuoto perché bisogna crescere con un bel corpo, tra una spiegazione ora sbrigativa, ora articolata, ora un po´ imbrogliata perché bisogna diventare intelligenti, quanto passa tra genitori e figli di quella comunicazione indiretta per cui si sente nella pancia, prima che nella testa, che del padre e della madre ci si può fidare, perché li si avverte al nostro fianco nei primi movimenti un po´ impacciati della vita? Cura del corpo, cura dell´intelligenza, ma quanta cura dell´anima?
Qui gli adulti annaspano un po´. E veicolano l´amore attraverso le cose che in abbondanza acquistano per soddisfare quei desideri infantili che vanno a occupare il vuoto di comunicazione che già manifesta i suoi primi segni nella svogliatezza, nell´indolenza, nella pigrizia, nella ribellione e, nei casi più gravi anche se meno eclatanti, nella rassegnazione depressiva.
Quel che si può avvertire in questo periodo, caratterizzato da sovrabbondanza di stimoli esterni e carenza di comunicazione sono i primi segnali di «psicopatia», che è poi quell´indifferenza emotiva, oggi sempre più diffusa nei giovani, per effetto della quale non si ha risonanza emotiva di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono.
Ciò è dovuto al fatto che se a suo tempo non disponevo di adeguate capacità di contenimento rispetto all´eccesso di stimoli che ricevevo, per evitare l´angoscia non mi restava che alzare la soglia della mia sensibilità, fino ad anestetizzarmi emotivamente e smarrire così la differenza tra bene e male, giusto e ingiusto, lecito e illecito che hanno la loro prima radice nella nostra base sentimentale.
E allora tutto si fa buio, indecifrabile, incomprensibile, e tutto può accadere, anche la cosa più terribile, senza che un segno, un sintomo, un indizio possa far presagire alcunché. E questo non per un raptus improvviso che non esiste, e neppure per uno stato depressivo che, quando è serio, non consente, a chi ne è afflitto, neppure di alzarsi dalla sedia, ma perché, per effetto della mancata educazione della psiche, ormai non corre più una grande differenza tra aggredire la madre o aggredire il figlio e bere un caffè al bar.
Qui non possiamo parlare di «psicosi» perché la personalità psicopatica non è destrutturata, come ci hanno detto le perizie psichiatriche condotte su Erika e Omar e come ci diranno quelle che si condurranno sulle madri di Sondrio e di Imola, e neppure di «nevrosi» perché il disturbo non nasce da un conflitto, ma da quella «immaturità affettiva» che è una conseguenza della mancata educazione della sensibilità, quando in età infantile e adolescenziale ci si occupava solo dell´educazione del corpo e della mente.
Gli effetti di questa «immaturità affettiva» che sfiora l´analfabetismo emotivo sono l´incapacità a esprimere sentimenti positivi come simpatia e gratitudine, abbozzi sessuali impersonali e non coinvolgenti, apatia morale con mancanza di sensi di rimorso o sensi di colpa, condotta antisociale, non episodica o impulsiva, ma costante, anche se ben mascherata, che mette capo a comportamenti delittuosi realizzati, come ci dicono le cronache dei nostri giorni, con freddezza e indifferenza.
E questo accade perché, come ci ricorda Paul Valery: «Quelle del cuore non sono 'ragioni´, sono ben altro, sono 'forze´» che, quando non sono educate, o esplodono, o vengono raffreddate attraverso quei comportamenti che i giovani mettono in atto, quasi una difesa inconscia, e che approdano: o allo «stordimento emotivo» attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi dell´alcol e della droga, o il «disinteresse per tutto» messo in atto per assopire le emozioni, attraverso i percorsi dell´ignavia e della non partecipazione che portano all´atteggiamento opaco dell´indifferenza.
La scuola a questo punto può fare qualcosa in quella stagione dell´adolescenza quando i ragazzi sono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia, per effetto delle carenze comunicative accumulate, non svolge più alcuna funzione e la società alcun richiamo? Certamente. A patto che i professori non si limitino a «istruire», ma incomincino a «educare», cioè a prendersi cura della crescita emotiva dei loro studenti. Per questo non serve l´inserimento degli psicologi nella scuola, perché non è detto che, per il fatto di aver studiato psicologia, essi abbiano una maturità emotiva superiore a quella degli attuali insegnanti, a cui peraltro non mi vien da chiedere di farsi carico della condizione sentimentale ed emotiva dei giovani che hanno sotto i loro occhi tutti i giorni. Non possono, avrebbero dovuto avere un´altra formazione ed essere stati educati ad altra sensibilità.
Resta il fatto, e chiedo a questo punto a tutti gli insegnanti di riflettere che, come tutti noi abbiamo sperimentato, non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva, e l´incuria dell´emotività, o la sua cura a livelli così sbrigativi da essere controproducenti, è il massimo rischio che oggi uno studente, andando a scuola, corre.
Se la scuola fallisce nel compito dell´educazione psicologica, che prevede, oltre ad una maturazione intellettuale anche una maturazione affettiva - e che dovrebbe essere l´unica vera materia obbligatoria dell´istruzione - l´ultima chance potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo business, successo, denaro, immagine e tutela della privacy, ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco che possano temperare il carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza sempre di più il nucleo familiare.
Oggi infatti quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato, e quel che succede fuori è trattato con quelle maschere che ogni giorno indossiamo per non lasciar trasparire proprio nulla dei drammi delle gioie e dei dolori che si vivono dentro le mura di casa ben protette. Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non ci è arrivata, da adolescenti non abbiamo incontrato, e da adulti ci hanno insegnato a controllare, fa la sua comparsa il gesto, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che non abbiamo scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con noi stessi per afasia emotiva.
E allora prima del lettino dello psicoterapeuta dove le parole si scambiano, come è noto, a pagamento, prima dei farmaci che soffocano tutte le parole con cui potremmo imparare a nominare e a conoscere i nostri moti d´anima, prima degli Osservatori sulla salute mentale e gli «sportelli» di assistenza psichiatrica quartiere per quartiere, o dell´assistenza domiciliare, opportunamente proposti, in mancanza d´altro, dal ministro della Sanità, dobbiamo convincerci della necessità e dell´urgenza di un´educazione emotiva preventiva, di cui scarsissime sono le occasioni in famiglia, a scuola e nella società.
E questo soprattutto nella nostra società che ha sviluppato un individualismo esasperato e una possibilità di scelta e di libertà che le società che ci hanno preceduto non hanno mai conosciuto, arginate com´erano dalle ristrettezze della povertà e dall´inquadramento offerto dalla tradizione religiosa condivisa, che fungevano da strutture di contenimento. Oggi questi argini, grazie a Dio sono saltati, ma la nuova individualità che si va affermando ha la forza per reggere lo spazio di libertà e di solitudine che le è stato concesso? Io credo di no.
Per questo c´è un gran lavoro da fare nell´educazione preventiva dell´anima (e non solo del corpo e dell´intelligenza) per essere all´altezza del nostro tempo, costellato da delitti così esecrandi, che solo per effetto di una mancata riflessione collettiva sull´immaturità affettiva della nostra cultura, possono ancora sorprenderci e stupirci.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …