Umberto Galimberti: Madri divise tra amore e odio verso i figli

28 Giugno 2002
Il ritmo inquietante con cui, nel nostro tempo, si succedono i casi di infanticidio non ci consente più di relegare queste tragedie nella «casistica psichiatrica» e qui liquidarle nel perfetto stile della rimozione. La ricorrenza di simili eventi, ormai così frequente, obbliga tutti noi a una riflessione più seria, che forse può prendere le mosse da questa semplice domanda: è cambiato qualcosa nel rapporto madri e figli che la retorica dei buoni sentimenti custodisce e difende come la forma più sacra e indubitabile delle relazioni d´amore?
La risposta è: in parte no e in parte sì, ma entrambe le parti vanno esplorate, per scoprire e per rendersi conto, là dove nulla è cambiato, che l´amore materno non è mai solo amore perché ogni madre è attraversata dall´amore per i figli ma anche dal rifiuto dei figli, e là dove qualcosa è cambiato nel modo odierno di fare famiglia, si tratta di capire perché il rifiuto assume così di frequente la forma del gesto omicida.

1. Là dove nulla è cambiato. Incontriamo l´eterna ambivalenza del sentimento materno che solo il nostro terrore di sfiorare qualcosa che appartiene alla sfera del sacro non ci fa riconoscere. E così finiamo con il sapere troppo poco di noi e della potenza dei nostri moti inconsci. La retorica dei buoni sentimenti è una spessa coltre che stendiamo sull´ambivalenza della nostra anima, dove l´amore si incatena con l´odio, il piacere con il dolore, la benedizione con la maledizione, la luce del giorno con il buio della notte.
Perché nel profondo tutte le cose sono incatenate e intrecciate in un´invisibile disarmonia. E scrutare l´abisso che queste cose sottende è compito ormai trascurato della nostra cultura che con troppa semplicità distingue il bene e il male come se i due non si fossero mai incontrati e affratellati.
Condannare queste madri per i loro gesti è già nelle cose stesse, nel parere di tutti, e rasenta i limiti dell´ovvio. Ma in ogni condanna che rivolgiamo agli altri c´è un volgare rigurgito di innocenza per noi stessi guadagnato a poco prezzo. Con la condanna, infatti, vogliamo soprattutto evitare di vedere in noi stessi, a livelli più sfumati senz´altro, non così tragici, la stessa ambivalenza che da sempre accompagna i nostri sentimenti per i figli, figli d´amore certo, ma anche di fastidio e in alcuni casi di odio. Non ci sarebbero tanti disperati nella vita se tutti, da bambini, fossero stati davvero amati e solo amati.
E invece così non è, e non lo è soprattutto per la donna che, con la possibilità di generare e di abortire, sente dentro di sé, nel sottosuolo mai esplorato della sua coscienza, di essere depositaria di quello che l´umanità ha sempre identificato come «potere assoluto» : il potere di vita e di morte.
Nella donna, infatti, molto più marcatamente che nel maschio, si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell´altra. Una soggettività che dice «Io» e una soggettività che fa sentire la donna depositaria della «specie» .
Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell´amore materno, ma anche dell´odio materno, perché il figlio, ogni figlio vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall´amore per il figlio.
Questa ambivalenza del sentimento materno generato dalla doppia soggettività che è in ciascuno di noi, e che il mondo delle madri conosce meglio del mondo dei padri, va riconosciuto e accettato come cosa naturale e non con il senso di colpa che può nascere dall´interpretare come incompiutezza o inautenticità del sentimento quello che è la sua naturale ambivalenza. Qui da Medea, che, come vuole la tragedia di Euripide, uccide i figli che ha generato esercitando il potere di vita e di morte che ogni madre sente dentro di sé, alle madri di oggi che uccidono i figli da loro stesse nati, nulla è cambiato. Perché questa è la natura del sentimento materno, e, piaccia o non piaccia, come tale va riconosciuto e accettato.

2. Là dove qualcosa è cambiato. E´ la forma della famiglia: troppo nucleare, troppo isolata, troppo racchiusa nelle pareti di casa che, divenute troppo spesse, la recingono e la secretano, creando l´ambiente adatto alla disperazione, che non è la depressione. Nel chiuso di quelle pareti ogni problema si ingigantisce perché non c´è un altro punto di vista, un termine di confronto che possa relativizzare il problema, o che consenta di diluirlo nella comunicazione, quando non di attutirlo nell´aiuto e nel confronto che dagli altri può venire.
Il nucleo familiare è diventato oggi un nucleo asociale. Quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato. Quando si esce di casa, ciascuno indossa una maschera, quella convenuta, il cui compito è di non lasciar trasparire proprio nulla dei drammi, delle gioie o dei dolori che si vivono dentro quelle mura ben protette.
La tutela della privacy ha proprio nella famiglia il suo cono d´ombra. La non ingerenza nel privato, se da un lato è il fondamento della nostra libertà personale, è anche un fattore di disinteressamento reciproco, e quindi una macchina formidabile che crea solitudine e, nella solitudine quell´ingigantimento dei problemi che la comunicazione sa ricondurre nella loro giusta dimensione, mentre l´isolamento rende di proporzioni tali da farli apparire ingestibili. Fino a quel limite dove l´unica via d´uscita sembra quella della soppressione violenta del problema, non importa in quale modo.
L´incapacità di gestire un regime familiare, dove le difficoltà oggettive possono mescolarsi con i fantasmi della mente e con le speranze deluse, produce una tragedia che forse poteva essere evitata se quel nucleo familiare si fosse aperto e reso permeabile allo scambio sociale, come accadeva presso i primitivi dove i figli erano figli di tutte le donne del villaggio, come accadeva fino a un paio di generazioni fa anche da noi, dove la povertà facilitava la socializzazione e l´aiuto reciproco in quell´incessante andare e vieni tra vicini di casa che rendeva impossibile quando non addirittura innaturale l´isolamento della famiglia.
L´isolamento riduce, e per via della riduzione, potenzia gli oggetti d´amore che per la donna, relegata nella clausura della famiglia, sono i figli e il marito. Qui le dinamiche, oggi, si sono complicate terribilmente, perché l´uomo ha perso il potere che una volta aveva come autorità riconosciuta in famiglia. Bene o male che fosse, forse più male che bene, ma così era, oggi l´uomo, dimessa l´autorità, stenta a trovare un ruolo in famiglia che non sia quello un po´ estrinseco di chi porta i soldi a casa. Per il resto lavora fuori casa e, stante la liceità dell´odierno costume, tende a erotizzare anche fuori casa. All´interno della casa resta solo l´amore incondizionato per i figli, più come idea, più come sentimento che come pratica quotidiana, di solito relegata alla moglie o all´esercito delle baby-sitter. La moglie è lì, spesso solo come anello che chiude il nucleo isolato del sistema famiglia.
E’ a quel punto che i figli diventano armi di ricatto. Dai ricatti che ogni giudice preposto alle separazioni conosce nei minimi e orrendi particolari, al ricatto estremo che solo il potere di vita e di morte, che è alla base del sentimento materno, conosce nella atroce radicalità che Euripide così descrive: «Uccidere le tue creature: ne avrai il coraggio?», chiede il Coro a Medea. E Medea risponde: «È il modo più sicuro per spezzare il cuore di mio marito» .
Scenari paurosi dell´animo umano che vanno riconosciuti e accettati, perché se non sono portati alla coscienza, si traducono facilmente in gesto, in gesto omicida. Non perché improvvisamente si è impazziti, ma perché da sempre si è vissuto con dei sentimenti che erano ignoti a noi stessi, e nell´isolamento impenetrabile in cui oggi vivono le famiglie, non si è avuto modo di comunicarli e, nella comunicazione, portarli alla coscienza e così diluirli, come sempre è avvenuto da che mondo è mondo e come oggi non avviene più.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …