Slavoj Zizek: La storia dietro il sipario dell'apparenza

06 Settembre 2002
Si può comprendere l'impatto sconvolgente dell'assalto dell'11 settembre solamente ponendolo sullo sfondo della linea di confine che oggi separa il Primo mondo digitalizzato dal Terzo mondo "deserto del reale". E' la consapevolezza di vivere in un universo isolato artificialmente a generare l'idea che qualche agente infausto stia continuamente minacciando di distruggerci. Entro questa prospettiva paranoica i terroristi vengono trasformati in un ente astratto e irrazionale (astratto in senso hegeliano, cioè sottratto alla rete socio-ideologica concreta che l'ha generato). Qualunque spiegazione che chiami in causa circostanze di tipo sociale viene bandita come una velata giustificazione del terrorismo, e qualunque entità viene evocata solo in modo negativo: i terroristi tradiscono il vero spirito dell'islam, non esprimono gli interessi e le aspettative delle masse arabe diseredate, eccetera. Nei giorni successivi all'11 settembre i mezzi di comunicazione hanno segnalato l'impennata di vendite non solo per le traduzioni del Corano ma anche per i libri dedicati in generale all'islam e alla cultura araba. La gente voleva capire che cos'è l'islam, ed è facile supporre che la larga maggioranza di quanti si sono interessati a conoscere il mondo musulmano non fossero dei razzisti anti-arabi, ma gente desiderosa di offrire a questa cultura una possibilità, intenzionata a coglierne lo spirito, a sperimentarla dall'interno, e quindi a redimerla: il loro desiderio era quello di convincersi che l'islam è una grande forza spirituale che non può esser incolpata per i crimini del terrorismo. Per quanto questo atteggiamento possa esprimere comprensione (nel mezzo di una disputa violenta, cosa mai potrebbe essere più attraente dal punto di vista etico che cercare di collocarsi entro la prospettiva della parte avversa, relativizzando così il proprio punto di vista?) rimane tuttavia un atto di mistificazione ideologica al massimo grado. Sondare tradizioni culturali differenti è il modo esatto per non comprendere le dinamiche politiche che hanno condotto all'attacco dell'11 settembre. Il fatto che i leader occidentali (da Bush a Netanyahu a Sharon) ripetano ora come una litania che l'islam è una grande religione che non ha nulla a che fare con gli orribili crimini commessi in suo nome è evidentemente un chiaro segno che c'è qualcosa di stonato in questi elogi. Quando, nell'ottobre del 2001, il primo ministro Berlusconi fece il famoso "lapsus" e affermò - tra la costernazione dei progressisti occidentali - che i diritti umani e le libertà sono emerse proprio dalla tradizione cristiana, che è quindi chiaramente superiore all'islam, il suo atteggiamento è stato in qualche modo molto più realistico che non il rispetto progressista (insopportabilmente paternalista) per la profondità spirituale dell'"Altro".
In seguito i commenti del tipo "ecco la fine dell'epoca dell'ironia" hanno avuto largo spazio sui nostri mezzi di comunicazione, forzando la convinzione che l'era postmoderna dello slittamento decostruttivo del significato sia giunta alla fine e che abbiamo di nuovo bisogno di prese di posizione chiare e forti. Purtroppo anche Habermas si è unito al coro (nel suo discorso di ringraziamento per l'assegnazione del premio degli editori tedeschi nell'ottobre del 2001), affermando che è finito il tempo del relativismo postmoderno (in effetti, gli eventi dell'11 settembre hanno dimostrato come minimo la totale impotenza dell'etica habermasiana: o dovremmo forse ammettere che tra musulmani e Occidente progressista c'è stata una "comunicazione distorta"?).
Seguendo lo stesso filone, i commentatori di destra come George Will hanno immediatamente proclamato la fine della "vacanza americana dalla storia", dato che l'impatto della realtà avrebbe sconvolto la torre d'avorio del progressismo tollerante e la predilezione per la testualità degli studi culturali (Cultural studies): ora siamo costretti a reagire, a fare di conti con veri nemici nel mondo reale. Eppure, chi dovremmo colpire? Qualunque sia la risposta, non individueremo mai il giusto bersaglio, quello che ci darà piena soddisfazione. Non si può non restare storditi dall'aspetto ridicolo dell'attacco americano all'Afghanistan: se la maggior potenza del mondo bombarda uno dei paesi più poveri, in cui i contadini sopravvivono a fatica tra sterili colline, non siamo di fronte a un caso perfetto di azione impotente? Per un altro verso l'Afghanistan costituisce il bersaglio perfetto: già ridotto in macerie, senza infrastrutture, più volte distrutto dalla guerra negli ultimi vent'anni, non si può fare a meno di sospettare che la scelta di questo paese sia stata dettata anche da considerazioni di tipo economico.
E' senz'altro un'eccellente strategia veicolare la propria rabbia verso un bersaglio che non riscuote l'interesse di nessuno e dove non c'è nulla da distruggere. Purtroppo però la scelta dell'Afghanistan non può non ricordarci la barzelletta di quell'ubriaco che sotto un lampione cerca una chiave smarrita; quando una guardia notturna gli chiede come mai la cerchi lì, dato che aveva detto di averla smarrita più in là, in una zona buia, l'ubriaco risponde: "Ma è più facile cercarla qui, alla luce del lampione!". Non è del tutto paradossale che già prima dei bombardamenti americani tutta Kabul apparisse come il centro di Manhattan dopo l'11 settembre? La "guerra al terrorismo" serve così da gesto il cui vero scopo è cullarci nell'idea rassicurante che nulla è cambiato veramente.
E' ormai un luogo comune massmediale che stia prendendo piede un nuovo tipo di guerra: una guerra ad alta tecnologia, in cui le missioni vengono compiute tramite bombardamenti di precisione senza alcun intervento diretto delle forze di terra (se proprio è necessario, il lavoro viene lasciato agli "alleati locali"). Le antiche concezioni di combattimento corpo a corpo, di coraggio, eccetera, stanno diventando obsolete. Si dovrebbe notare l'omologia strutturale tra questa nuova guerra a distanza in cui il "soldato" (uno specialista di computer) pigia dei bottoni a centinaia di chilometri di distanza dall'obiettivo, e le decisioni dei gruppi dirigenti che influenzano milioni di persone (gli esperti del Fondo monetario internazionale che durante le loro riunioni dettano le condizioni che i paesi del Terzo mondo devono rispettare per meritarsi l'aiuto finanziario; i regolamenti dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto); i cartelli delle multinazionali che decidono le necessarie "ristrutturazioni"): in entrambi i casi l'astrazione viene inscritta direttamente nella situazione "reale". Si prendono decisioni che influenzeranno migliaia di persone, a volte provocando terribile scompiglio e confusione, ma il collegamento tra queste decisioni "strutturali" e la dolorosa realtà di milioni di esseri umani viene rescisso, dato che gli "esperti" sono incapaci di immaginarne le conseguenze, perché misurano gli effetti delle loro decisioni in termini esclusivamente astratti (un paese infatti può essere "finanziariamente sano" anche se milioni di persone vi muoiono di fame).
Il "terrorismo" dei nostri tempi è semplicemente la controparte di questo tipo di guerra. La vera minaccia a lungo termine è costituita da azioni terroristiche di enormi dimensioni in confronto alle quali si affievolirà perfino il ricordo del crollo delle torri gemelle, azioni meno spettacolari ma ben più spaventose. Come affrontare la guerra batteriologica, l'uso di gas letali, o la prospettiva del terrorismo genetico (veleni in grado di colpire solo quelle persone che condividono un determinato genoma)? Diversamente da Marx che si basava su un'idea di feticcio come oggetto concreto la cui presenza offusca le sue mediazioni sociali, si potrebbe dire che il feticismo raggiunge l'apice proprio quando il feticcio stesso viene "smaterializzato".
Il feticismo del denaro giungerà al culmine con il passaggio alla sua forma elettronica, proprio quando spariranno le ultime vestigia della sua materialità. E' solo a quel punto che assumerà la forma di una presenza spettrale indistruttibile: ti devo mille dollari, e per quanto possa bruciare tutte le banconote che voglio, ti devo sempre mille dollari, il debito è inscritto in qualche parte nello spazio digitale virtuale. Non possiamo dire la stessa cosa per la guerra? Invece che indicare la direzione delle guerre del XXI secolo, le esplosioni e il crollo delle torri gemelle del Wtc del settembre 2001 sono state lo spettacolare canto del cigno del sistema della guerra del XX secolo. Quello che ci attende è qualcosa di assi più misterioso: lo spettro di una guerra "immateriale" in cui l'attacco è invisibile (virus, veleni che possono essere ovunque e in nessun luogo).
A livello della realtà materiale visibile non succede nulla, nessuna grande esplosione. Eppure sappiamo che l'universo inizia a crollare, la vita a disintegrarsi. Siamo alle soglie di una nuova epoca di guerra paranoica, il cui compito principale sarà costituito dall'individuazione del nemico e delle sue armi. Secondo questo nuovo stile di guerra i combattenti si faranno sempre meno carico delle loro azioni in pubblico: non solo gli stessi "terroristi" sono sempre meno intenzionati a dichiararsi responsabili delle loro azioni (anche la famigerata Al Qaeda non ha rivendicato in modo esplicito gli attacchi dell'11 settembre, per non parlare del mistero sull'origine delle lettere all'antrace), ma anche le misure statali "antiterroriste" sono circondate da un velo di segretezza. Questo duplice silenzio fornisce fertile terreno per lo sviluppo di teorie del complotto e di una diffusa paranoia sociale. Non possiamo inoltre dire che questa onnipresenza paranoide della guerra invisibile è compensata dalla sua opposta desustanziazione? Come beviamo birra senz'alcool e caffè senza caffeina, stiamo ora per avere la guerra spogliata della sua sostanza, una guerra virtuale combattuta dietro schermi di computer, una guerra vissuta dai suoi partecipanti come un videogioco, una guerra senza perdite (almeno sul nostro fronte).
Con il diffondersi del panico da antrace nell'ottobre 2001 l'Occidente ha avuto un primo assaggio di questo nuovo tipo di guerra "invisibile" in cui - un aspetto che dovremmo sempre ricordare - noi cittadini comuni, per quel che riguarda le informazioni su quel che accade, siamo completamente in balia delle autorità: non vediamo e non sentiamo nulla direttamente, tutto quel che sappiamo proviene dai mezzi ufficiali di comunicazione. Una superpotenza che combatte un misero paese deserto e che allo stesso tempo è ostaggio di batteri invisibili: questa, e non le esplosioni del Wtc, è la prima immagine della guerra del XXI secolo. Invece di una reazione immediata, dovremmo pensare a come affrontare queste difficili domande: cosa significherà "guerra" nel XXI secolo? Chi saranno "gli altri", se è chiaro che non saranno né stati né bande criminali?
E' difficile resistere alla tentazione di chiamare in causa l'opposizione freudiana tra la legge pubblica e il suo osceno doppio superegoico: secondo questa interpretazione le "organizzazioni terroriste internazionali" cos'altro sarebbero se non il doppio osceno delle grandi multinazionali, la perfetta macchina rizomatica, onnipresente anche se priva di una base territoriale definita? Non sono forse la forma con cui il "fondamentalismo" religioso o nazionalista si adatta al capitalismo globale? Non incarnano la contraddizione essenziale, con il loro contenuto particolare/esclusivista e il loro funzionamento globale e dinamico?

Slavoj Zizek

Definito dalla stampa statunitense "il gigante di Lubiana", Slavoj Zizek è un filosofo i cui interessi vanno dalla psicoanalisi alla filosofia alla politica. Sloveno, nato nel 1949, "clerico vagante" nelle …