Paolo Rumiz: Gela, la sfida dei baby operai
15 Settembre 2002
Ti dicono: non andare a Gela, è un inferno. La città più
brutta d’Italia, il mostro-petrolchimico che muore. Un impasto perfetto di
mafia e cemento, lo scirocco al veleno, 80 mila abitanti e 20 mila disoccupati,
la disperazione in una casa su quattro. Città di orrendi segreti, dove si
diventa boss a 15 anni. Dove i cani girano in branco e dove il branco degli
adolescenti uccide chi sgarra come un cane. Perché qui i ragazzi non si
ammazzano, si bruciano vivi. Nessuno ti dirà mai di andare a Gela perché lì c’è
un miracolo che si ripete ogni giorno. Quello di una città salvata dai bambini.
Bambini anche di dieci anni che lavorano pur di non delinquere; lavorano come
cani, sottopagati e in nero, anche disertando la scuola, pur di sfuggire a una
macchina implacabile che li cattura, li recluta e li forma alla sopraffazione.
Piccoli eroi di un’altra Sicilia, di una società che cerca di opporsi alla violenza. Gela non è Napoli o il Nordest. Per trovare i piccoli schiavi del sistema non hai un termitaio di fabbrichette e scantinati dove cercare. Non hai le pieghe nascoste del contoterzismo. Gela è un deserto dove i bambini lavorano apertamente. Nei campi di pomodori, nei bar, negli angoli defilati delle strade a vendere meloni. A scaricare casse di frutta, a pulire scale di condomini e pavimenti di macellerie. Non sono albanesi, marocchini, curdi. Sono bambini italiani. Vengono da famiglie difficili, da case povere, dove si comunica a ceffoni. Conoscono la desolazione più allucinante, il fondo più nero dell’assenza di speranza. Sono ipercinetici, impauriti, incapaci di concentrarsi, chiusi nel silenzio. Ma hanno una rabbia in corpo, una voglia di riscatto e un’intelligenza che lascia stupiti gli operatori sociali. A dodici anni sono uomini fatti. Si lasciano sfruttare per salvare se stessi, la famiglia, l’anima stessa della loro città. Non è una storia, sono decine, forse centinaia di storie. Totò, tredici anni, vende meloni in un banchetto abusivo nel quartiere di San Giacomo. Non reggi al suo sguardo da adulto. Uno sguardo che vuol dire: "Ma che ne sai tu di me? Come fai a capire una società che mi addita come figlio di un poco di buono, ma mi rispetterebbe all’istante se entrassi in una banda di quartiere? Lo sai cosa vuol dire lavorare in un mondo dove il rispetto non nasce dal lavoro, ma solo dalla paura?" Racconta Luciana Carfì, in prima linea nel soccorso alle famiglie in difficoltà con l’associazione "Le nuvole": "Noi lavoriamo con quello che viene definito il peggio della società. Eppure, sono ragazzini con qualità incredibili. Spesso hanno una marcia in più. Avrebbero bisogno di un tutore capace di seguirli fino a inserimento completato. Altrimenti c’è sempre il rischio che si perdano". Tutto è contro di loro. Il risucchio della maledizione familiare, la salute precaria, il bisogno che li sbatte sulla strada, le istituzioni che li considerano disgraziati irrecuperabili, la gente che li etichetta, la mafia che li vuole manovalanza miserabile e obbediente. E poi la città che non ha lavoro, la Tv che smantella i valori civici, costruisce una voglia devastante di successo facile. Tutto è predisposto per rovinarli. Persino la gestualità dei coetanei. Li vedi da come camminano, i ragazzi vincenti, la sera nei rioni di Macchitella e Capo Soprano, o alla Rotonda sul lungomare. Testa alta, braccia larghe come per afferrare inesistenti pistole, gambe larghe pure loro, schiena goffamente inarcata all’indietro, occhi arroganti che non fissano l’interlocutore e dicono che l’innocenza è perduta. Già negli adolescenti ogni muscolo facciale, ogni movimento, ogni frase, tutto è teso a comunicare potere. Melchiorre ha dieci anni, fa il garzone di bottega quando capita, lo pagano quattro-cinque euro al giorno. Il padre dorme tutto il giorno, quando si sveglia lo mena. Lui non lavora solo per aiutare quel padre. Lavora anche per non diventare come lui, abbruttito dall’assenza di domani. Disegna in due parole il mercato in cui si muove: "Non credere che per gli adulti sia tanto meglio. Qui una brava commessa prende 400 euro al mese". La città è migliorata, ti dicono. La società civile è cresciuta, c'è più associazionismo. La sera, il vecchio centro di quella che chiamano la città più brutta d’Italia diventa quasi affascinante, con le case spagnolesche, le stradine strette in selciato, il profumo di caponata, la gente che chiacchiera all’aperto. Il cancro è altrove, in una storia spezzata dall’Eni, in quella cattedrale d’acciaio tenuta in vita con accanimento terapeutico, ma che prima di entrare in agonia ha desertificato i campi - con la pacchia del posto fisso - spezzando la continuità culturale del paese. Leo ha quattordici anni e in casa non mangia. La mamma vive sola, non lavora, è diventata nevrastenica. Non fa più i letti, non cucina nemmeno più. Così, lui raccoglie pomodori a due euro l’ora. Dura solo qualche settimana e guai assentarsi: sei licenziato, il caporale trova subito un sostituto. Il suo sogno è andare al Nord, come il fratello, e per il lui il Nord vuol dire Germania ma anche Roma. E’ determinato: "Vado - dice - sennò finisco male". Le bande lo arpionano al bar, ai videogiochi, per strada. Dice: "La prima volta faccio lo scemo, la seconda faccio finta di non capire. La terza devo dire: vedremo. Ma dopo?". Leo ha paura di quei ragazzi. Cominciano bruciando automobili a scopo intimidatorio. In giugno ne hanno distrutte sette in una notte sola. Leo sa che a Gela la mafia non uccide più, ha imparato a muoversi con le mani pulite. Uccidono i giovani, per conquistarsi un posto nel giro che conta. C’è un nome che lo perseguita: Emanuele. L’amico di 15 anni, prima lapidato e poi bruciato vivo dal gruppo, una notte di ottobre dello scorso anno. Anche lui era carico di progetti, di voglia di fare. Aveva preso la terza media; era stato persino in Germania, ne era tornato entusiasta. Ma poi si era perduto. Il branco l’aveva catturato solo per condannarlo a morte. Nessuno saprà mai perché, forse una parola sbagliata, forse una carezza alla ragazza del capo. Le pietre, la benzina, un fiammifero. E poi il funerale, disertato dalle istituzioni. Tramonto rosso in un cielo color cenere, luna che affonda in mare. Anche don Luigi Petralìa, parroco di San Giacomo, ripete quel nome-simbolo: Emanuele.
Luigi vive in mezzo a tante storie come quella. "A Gela i ragazzi che sbagliano si mettono al rogo. La degenerazione è iniziata alla fine degli anni Ottanta. Allora è caduto l’ultimo diaframma di decenza. Il reclutamento ha innescato la corsa dei minori a diventare dei boss. In linea con i tempi, loro hanno scelto delitti feroci, per darsi una visibilità. E ci sono riusciti in pieno: l’eco della stampa ha finito per accreditarli. Screditando la città". La mafia, racconta il calabrese Antonio Marziale dell’Osservatorio per i diritti dei minori, coltiva i suoi picciotti da piccoli, già in famiglia. Ha una scuola di formazione professionale in piena regola. Li alleva, li seleziona, li mette in competizione, li fa ammazzare tra loro. "Ma tutto questo non funzionerebbe se non ci fosse un impianto globale di sfruttamento consumistico dei bambini. Il modello del potere, del fitness, del palestrato che vince sempre. Ovunque in Italia i piccoli sono crudelmente sfruttati. Dobbiamo avere le palle per dirlo". Luigi, 13 anni, ha lavorato per due settimane nelle serre e ha raccolto un bel gruzzolo, 20 euro al giorno. Lavoro bestiale in Sicilia; qui dopo le dieci la temperatura sale a 70 gradi sotto i teli plasticati. Il padre è in prigione per traffico di stupefacenti, e ha già fatto sapere che quell’indipendenza del figlio non gli piace per niente. Un figlio che lavora vuol dire un picciotto in meno, dunque niente "protezione". Ma Luigi ha già deciso. Tra una settimana c’è un bus che lo porterà al Nord. Clandestino italiano in Italia.
Piccoli eroi di un’altra Sicilia, di una società che cerca di opporsi alla violenza. Gela non è Napoli o il Nordest. Per trovare i piccoli schiavi del sistema non hai un termitaio di fabbrichette e scantinati dove cercare. Non hai le pieghe nascoste del contoterzismo. Gela è un deserto dove i bambini lavorano apertamente. Nei campi di pomodori, nei bar, negli angoli defilati delle strade a vendere meloni. A scaricare casse di frutta, a pulire scale di condomini e pavimenti di macellerie. Non sono albanesi, marocchini, curdi. Sono bambini italiani. Vengono da famiglie difficili, da case povere, dove si comunica a ceffoni. Conoscono la desolazione più allucinante, il fondo più nero dell’assenza di speranza. Sono ipercinetici, impauriti, incapaci di concentrarsi, chiusi nel silenzio. Ma hanno una rabbia in corpo, una voglia di riscatto e un’intelligenza che lascia stupiti gli operatori sociali. A dodici anni sono uomini fatti. Si lasciano sfruttare per salvare se stessi, la famiglia, l’anima stessa della loro città. Non è una storia, sono decine, forse centinaia di storie. Totò, tredici anni, vende meloni in un banchetto abusivo nel quartiere di San Giacomo. Non reggi al suo sguardo da adulto. Uno sguardo che vuol dire: "Ma che ne sai tu di me? Come fai a capire una società che mi addita come figlio di un poco di buono, ma mi rispetterebbe all’istante se entrassi in una banda di quartiere? Lo sai cosa vuol dire lavorare in un mondo dove il rispetto non nasce dal lavoro, ma solo dalla paura?" Racconta Luciana Carfì, in prima linea nel soccorso alle famiglie in difficoltà con l’associazione "Le nuvole": "Noi lavoriamo con quello che viene definito il peggio della società. Eppure, sono ragazzini con qualità incredibili. Spesso hanno una marcia in più. Avrebbero bisogno di un tutore capace di seguirli fino a inserimento completato. Altrimenti c’è sempre il rischio che si perdano". Tutto è contro di loro. Il risucchio della maledizione familiare, la salute precaria, il bisogno che li sbatte sulla strada, le istituzioni che li considerano disgraziati irrecuperabili, la gente che li etichetta, la mafia che li vuole manovalanza miserabile e obbediente. E poi la città che non ha lavoro, la Tv che smantella i valori civici, costruisce una voglia devastante di successo facile. Tutto è predisposto per rovinarli. Persino la gestualità dei coetanei. Li vedi da come camminano, i ragazzi vincenti, la sera nei rioni di Macchitella e Capo Soprano, o alla Rotonda sul lungomare. Testa alta, braccia larghe come per afferrare inesistenti pistole, gambe larghe pure loro, schiena goffamente inarcata all’indietro, occhi arroganti che non fissano l’interlocutore e dicono che l’innocenza è perduta. Già negli adolescenti ogni muscolo facciale, ogni movimento, ogni frase, tutto è teso a comunicare potere. Melchiorre ha dieci anni, fa il garzone di bottega quando capita, lo pagano quattro-cinque euro al giorno. Il padre dorme tutto il giorno, quando si sveglia lo mena. Lui non lavora solo per aiutare quel padre. Lavora anche per non diventare come lui, abbruttito dall’assenza di domani. Disegna in due parole il mercato in cui si muove: "Non credere che per gli adulti sia tanto meglio. Qui una brava commessa prende 400 euro al mese". La città è migliorata, ti dicono. La società civile è cresciuta, c'è più associazionismo. La sera, il vecchio centro di quella che chiamano la città più brutta d’Italia diventa quasi affascinante, con le case spagnolesche, le stradine strette in selciato, il profumo di caponata, la gente che chiacchiera all’aperto. Il cancro è altrove, in una storia spezzata dall’Eni, in quella cattedrale d’acciaio tenuta in vita con accanimento terapeutico, ma che prima di entrare in agonia ha desertificato i campi - con la pacchia del posto fisso - spezzando la continuità culturale del paese. Leo ha quattordici anni e in casa non mangia. La mamma vive sola, non lavora, è diventata nevrastenica. Non fa più i letti, non cucina nemmeno più. Così, lui raccoglie pomodori a due euro l’ora. Dura solo qualche settimana e guai assentarsi: sei licenziato, il caporale trova subito un sostituto. Il suo sogno è andare al Nord, come il fratello, e per il lui il Nord vuol dire Germania ma anche Roma. E’ determinato: "Vado - dice - sennò finisco male". Le bande lo arpionano al bar, ai videogiochi, per strada. Dice: "La prima volta faccio lo scemo, la seconda faccio finta di non capire. La terza devo dire: vedremo. Ma dopo?". Leo ha paura di quei ragazzi. Cominciano bruciando automobili a scopo intimidatorio. In giugno ne hanno distrutte sette in una notte sola. Leo sa che a Gela la mafia non uccide più, ha imparato a muoversi con le mani pulite. Uccidono i giovani, per conquistarsi un posto nel giro che conta. C’è un nome che lo perseguita: Emanuele. L’amico di 15 anni, prima lapidato e poi bruciato vivo dal gruppo, una notte di ottobre dello scorso anno. Anche lui era carico di progetti, di voglia di fare. Aveva preso la terza media; era stato persino in Germania, ne era tornato entusiasta. Ma poi si era perduto. Il branco l’aveva catturato solo per condannarlo a morte. Nessuno saprà mai perché, forse una parola sbagliata, forse una carezza alla ragazza del capo. Le pietre, la benzina, un fiammifero. E poi il funerale, disertato dalle istituzioni. Tramonto rosso in un cielo color cenere, luna che affonda in mare. Anche don Luigi Petralìa, parroco di San Giacomo, ripete quel nome-simbolo: Emanuele.
Luigi vive in mezzo a tante storie come quella. "A Gela i ragazzi che sbagliano si mettono al rogo. La degenerazione è iniziata alla fine degli anni Ottanta. Allora è caduto l’ultimo diaframma di decenza. Il reclutamento ha innescato la corsa dei minori a diventare dei boss. In linea con i tempi, loro hanno scelto delitti feroci, per darsi una visibilità. E ci sono riusciti in pieno: l’eco della stampa ha finito per accreditarli. Screditando la città". La mafia, racconta il calabrese Antonio Marziale dell’Osservatorio per i diritti dei minori, coltiva i suoi picciotti da piccoli, già in famiglia. Ha una scuola di formazione professionale in piena regola. Li alleva, li seleziona, li mette in competizione, li fa ammazzare tra loro. "Ma tutto questo non funzionerebbe se non ci fosse un impianto globale di sfruttamento consumistico dei bambini. Il modello del potere, del fitness, del palestrato che vince sempre. Ovunque in Italia i piccoli sono crudelmente sfruttati. Dobbiamo avere le palle per dirlo". Luigi, 13 anni, ha lavorato per due settimane nelle serre e ha raccolto un bel gruzzolo, 20 euro al giorno. Lavoro bestiale in Sicilia; qui dopo le dieci la temperatura sale a 70 gradi sotto i teli plasticati. Il padre è in prigione per traffico di stupefacenti, e ha già fatto sapere che quell’indipendenza del figlio non gli piace per niente. Un figlio che lavora vuol dire un picciotto in meno, dunque niente "protezione". Ma Luigi ha già deciso. Tra una settimana c’è un bus che lo porterà al Nord. Clandestino italiano in Italia.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …