Giulietto Chiesa: Cecenia, la più infiltrata delle guerre
29 Ottobre 2002
A Kabul, nel lontanissimo febbraio dell'anno scorso, c'era una
fila di palazzine, a due piani, non molto distanti dall'ambasciata bulgara
abbandonata, da quella della Germania dell'Est, abbandonata anch'essa, che
attirarono la mia attenzione. Erano le ex residenze dei dignitari di corte del
re Zahir, poi divenute quelle dei funzionari di Daud, e poi di quelli di Tarakki
e di Amin e di Babrak Karmal. Sempre gli stessi, che cambiavano casacca, sempre
benestanti, magari parenti del re in esilio, ma riciclati come membri del
Partito Democratico del Popolo Afghano, come si chiamava l'allora partito
comunista. Poi erano arrivati i mujaheddin e le avevano prese i loro capi. I
quartieri residenziali restavano sempre tali. Dove stavano loro, i padroni di
turno, i razzi non cadevano mai, se non per sbaglio. Mutati gli occupanti, quel
discreto quartiere residenziale l'avevo visto nel 1983, e rivisto - pressochè
intatto - nel 1987, nel 1991, nel 1996. Adesso i taleban erano al potere e
quella fila di palazzine avevano assunto un aspetto strano. Le case afghane,
anche quelle all'occidentale, non brillano per apertura verso l'esterno.
Finestre poche e sempre sbarrate, muri di protezione a chiudere sguardi
indiscreti, cortiletti interni nascosti. Ma quella fila di case sembrava deserta
proprio durante il giorno. Si sentivano le grida dei bambini, ma pochi movimenti
in entrata e uscita. Solo la sera arrivavano e partivano auto veloci e
silenziose. Le scarse finestre non lasciavano filtrare nemmeno ombre, fasciate
com'erano da tendaggi colorati e pesanti. Le gole profonde di Kabul, prudenti,
facevano sapere che quelli erano gli "stranieri".
Allora il nome Al Qaeda non lo sapeva nessuno, non esisteva ancora, ma in quella viuzza cieca, sbarrata dal muro di cinta di una villa deserta, c'erano le "legazioni diplomatiche" dei movimenti islamici fratelli. Alcune, certo, non tutte. A guardar meglio si notava che non erano afghani. Diversi i vestiti e le barbe. Le gole profonde aiutavano a discernere ciò che agli occhi occidentali non è facile capire. Uzbeki dell'Uzbekistan, tagiki del Tagikistan, quelli si riconoscevano più facilmente: l'Afghanistan è pieno di uzbeki e tagiki, ma non c'erano uzbeki e tagiki a Kabul al tempo dei taleban. E, se c'erano, non potevano abitare in case come quelle. I ceceni erano i più visibili. Più disinvolti, più "europei". Ma sebbene i vestiti fossero rigorosamente pashtun, le barbe erano troppo curate, nonostante tutti gli sforzi mimetici, per essere simili a quelle ispide e ascetiche dei taleban. I "diplomatici" erano in apparenza pochi.
Quanti fossero i giovanotti che si addestravano nei campi a Sud di Kabul non lo si poteva certo sapere stando in Afghanistan. Le cifre mi vennero azzardate a Mosca, qualche mese dopo, da un conoscente dell'Fsb che aveva fatto più d'una campagna a Grozny e dintorni. "Duecento o trecento per volta", mi disse. Per periodi di addestramento di sei mesi, o un anno. Arrivare a Kabul dalla Cecenia, negli anni tra il 1996 e il 2000, era la più facile delle imprese. I confini dell'area non potevano essere più porosi. Si poteva uscire via Daghestan e Azerbajgian e, da Baku, in aereo, alla volta di Islamabad. Oppure via Georgia e Turchia e, di nuovo, in aereo a Islamabad. Il Pakistan era il grande fratello amico dei taleban e tutto passava da lì. Ma a Islamabad si poteva arrivare comodamente anche da Mosca, con qualche sosta intermedia a Dushanbè o a Tashkent. La via del ritorno poteva essere identica. Quando uscii dall'Afghanistan, durante la guerra post-11 settembre, dovetti prestare più volte il mio satellitare a autisti e viandanti afghani che chiedevano di poter chiamare amici e conoscenti in Pakistan. Le armi percorrevano e percorrono vie marittime piuttosto che aeree. La Russia è un colabrodo dove passa di tutto, uomini e merci e droga. Eserciti interi l'attraversano alla spicciolata. Basta pagare. Come pagò Shamil Basaev con la sua colonna di camion militari per arrivare a Budionnovsk. Pagò i poliziotti ingushi, e quelli russi di Kislovordsk. Tempi che sembrano lontani, ma le cose non sono cambiate di molto neanche ai tempi di Putin, se è vero - e credo sia vero - che addirittura aerei militari russi sono stati noleggiati appena qualche mese fa per portare combattenti ceceni feriti a curarsi - s'intende segretamente - in qualche ospedale privato per ricchi di Mosca. Ancora basta pagare. E l'intrico inestricabile impedisce a chiunque di controllare chiunque. I due "microautobus", uno rosso e l'altro bianco, che hanno portato il commando terrorista fino all'ingresso del teatro di Mosca sono passati indenni attraverso decine di posti di blocco. Miracolo del denaro. Le armi erano arrivate prima, i vestiti anche, i veli neri delle donne altrettanto, come l'esplosivo. Basta pagare. E per giovanotti che hanno fatto i soldi a milioni di dollari, vendendo petrolio esentasse ad Amsterdam, comprare un intero ristorante russo, cameriere incluse, per il solo gusto di sputare in faccia ai russi, è un passatempo neanche troppo costoso. Solo si deve avere l'accortezza di tenere presente che le "brigate cecene di Al Qaeda" non fanno capo, necessariamente, ai comandi ceceni. Questa guerra sporchissima è divenuta, da tempo, la più infiltrata delle guerre. I gruppi, le bande, si comprano - più o meno come i signori della guerra afghani - a colpi di milioni di dollari. Li compravano anche i russi. E se la ritirata del generale Gromov, nel 1989, riuscì quasi senza perdite, non fu perché a nemico che fugge si fanno ponti d'oro, ma perchè i russi coprirono d'oro i comandanti mujaheddin che li guardarono passare attraverso il Passo di Salang senza sparare un solo colpo di mortaio. Chi li compra adesso è cosa tutta da vedere. Ma è certo che c'è chi li compra. E' un mercato vero, in cui vigono le leggi del mercato, e dove dunque chi ha più denaro compra. E Putin ha ragione a dire che è un complotto internazionale contro la Russia. Ma il generale Maskhadov non ne sa più di lui. Adesso il presidente russo annuncia un'offensiva, intensificherà i posti di guardia agli acquedotti, alle centrali nucleari, ai ponti, ai grattacieli. Ma i buchi del colabrodo sono troppi. E non ha i denari per coprire d'oro un nemico che ne ha più di lui. E non ci sono più idee che convincano i suoi uomini a non accettare le mance dei nemici.
Allora il nome Al Qaeda non lo sapeva nessuno, non esisteva ancora, ma in quella viuzza cieca, sbarrata dal muro di cinta di una villa deserta, c'erano le "legazioni diplomatiche" dei movimenti islamici fratelli. Alcune, certo, non tutte. A guardar meglio si notava che non erano afghani. Diversi i vestiti e le barbe. Le gole profonde aiutavano a discernere ciò che agli occhi occidentali non è facile capire. Uzbeki dell'Uzbekistan, tagiki del Tagikistan, quelli si riconoscevano più facilmente: l'Afghanistan è pieno di uzbeki e tagiki, ma non c'erano uzbeki e tagiki a Kabul al tempo dei taleban. E, se c'erano, non potevano abitare in case come quelle. I ceceni erano i più visibili. Più disinvolti, più "europei". Ma sebbene i vestiti fossero rigorosamente pashtun, le barbe erano troppo curate, nonostante tutti gli sforzi mimetici, per essere simili a quelle ispide e ascetiche dei taleban. I "diplomatici" erano in apparenza pochi.
Quanti fossero i giovanotti che si addestravano nei campi a Sud di Kabul non lo si poteva certo sapere stando in Afghanistan. Le cifre mi vennero azzardate a Mosca, qualche mese dopo, da un conoscente dell'Fsb che aveva fatto più d'una campagna a Grozny e dintorni. "Duecento o trecento per volta", mi disse. Per periodi di addestramento di sei mesi, o un anno. Arrivare a Kabul dalla Cecenia, negli anni tra il 1996 e il 2000, era la più facile delle imprese. I confini dell'area non potevano essere più porosi. Si poteva uscire via Daghestan e Azerbajgian e, da Baku, in aereo, alla volta di Islamabad. Oppure via Georgia e Turchia e, di nuovo, in aereo a Islamabad. Il Pakistan era il grande fratello amico dei taleban e tutto passava da lì. Ma a Islamabad si poteva arrivare comodamente anche da Mosca, con qualche sosta intermedia a Dushanbè o a Tashkent. La via del ritorno poteva essere identica. Quando uscii dall'Afghanistan, durante la guerra post-11 settembre, dovetti prestare più volte il mio satellitare a autisti e viandanti afghani che chiedevano di poter chiamare amici e conoscenti in Pakistan. Le armi percorrevano e percorrono vie marittime piuttosto che aeree. La Russia è un colabrodo dove passa di tutto, uomini e merci e droga. Eserciti interi l'attraversano alla spicciolata. Basta pagare. Come pagò Shamil Basaev con la sua colonna di camion militari per arrivare a Budionnovsk. Pagò i poliziotti ingushi, e quelli russi di Kislovordsk. Tempi che sembrano lontani, ma le cose non sono cambiate di molto neanche ai tempi di Putin, se è vero - e credo sia vero - che addirittura aerei militari russi sono stati noleggiati appena qualche mese fa per portare combattenti ceceni feriti a curarsi - s'intende segretamente - in qualche ospedale privato per ricchi di Mosca. Ancora basta pagare. E l'intrico inestricabile impedisce a chiunque di controllare chiunque. I due "microautobus", uno rosso e l'altro bianco, che hanno portato il commando terrorista fino all'ingresso del teatro di Mosca sono passati indenni attraverso decine di posti di blocco. Miracolo del denaro. Le armi erano arrivate prima, i vestiti anche, i veli neri delle donne altrettanto, come l'esplosivo. Basta pagare. E per giovanotti che hanno fatto i soldi a milioni di dollari, vendendo petrolio esentasse ad Amsterdam, comprare un intero ristorante russo, cameriere incluse, per il solo gusto di sputare in faccia ai russi, è un passatempo neanche troppo costoso. Solo si deve avere l'accortezza di tenere presente che le "brigate cecene di Al Qaeda" non fanno capo, necessariamente, ai comandi ceceni. Questa guerra sporchissima è divenuta, da tempo, la più infiltrata delle guerre. I gruppi, le bande, si comprano - più o meno come i signori della guerra afghani - a colpi di milioni di dollari. Li compravano anche i russi. E se la ritirata del generale Gromov, nel 1989, riuscì quasi senza perdite, non fu perché a nemico che fugge si fanno ponti d'oro, ma perchè i russi coprirono d'oro i comandanti mujaheddin che li guardarono passare attraverso il Passo di Salang senza sparare un solo colpo di mortaio. Chi li compra adesso è cosa tutta da vedere. Ma è certo che c'è chi li compra. E' un mercato vero, in cui vigono le leggi del mercato, e dove dunque chi ha più denaro compra. E Putin ha ragione a dire che è un complotto internazionale contro la Russia. Ma il generale Maskhadov non ne sa più di lui. Adesso il presidente russo annuncia un'offensiva, intensificherà i posti di guardia agli acquedotti, alle centrali nucleari, ai ponti, ai grattacieli. Ma i buchi del colabrodo sono troppi. E non ha i denari per coprire d'oro un nemico che ne ha più di lui. E non ci sono più idee che convincano i suoi uomini a non accettare le mance dei nemici.
Giulietto Chiesa
Giulietto Chiesa (1940) è giornalista e politico. Corrispondente per “La Stampa” da Mosca per molti anni, ha sempre unito nei suoi reportage una forte tensione civile e un rigoroso scrupolo …