Giulietto Chiesa: La guerra che Putin non potrà vincere mai
31 Dicembre 2002
A poco meno di due mesi dalla tragedia del Teatro Na Dubrovke,
Vladimir Putin è costretto a incassare un'altra, pesante sconfitta. I 42 morti
(bilancio provvisorio) di Grozny ribadiscono che la seconda guerra cecena non
solo non è ancora stata vinta, ma molto difficilmente potrà esserlo in un
futuro prevedibile.
Un attentato così possente, la sua dinamica, dicono che l'esercito e i servizi segreti militari russi non possono controllare nemmeno una capitale ridotta in rovine. Ci si può figurare come Mosca possa controllare il resto della minuscola repubblica ribelle, che tiene testa alla Russia intera da quell'autunno del 1994 in cui Boris Eltsin giocò la carta della guerra contro Dudaev più per vincere le elezioni presidenziali che non per ricondurre all'ovile la Cecenia proclamatasi indipendente. Dopo 120 mila morti tra civili e combattenti guerriglieri, dopo almeno 20 mila morti tra i militari russi (più che nei dieci anni di Afghanistan), Putin si ritrova con lo stesso pugno di mosche che costrinsero il buonanima generale Aleksandr Lebed a siglare la resa di fatto della Russia nell'autunno del 1995. Boris Eltsin fu rieletto, truccando le carte, e la Cecenia rimase separata, anche se non indipendente. Poi toccò a Vladimir Putin di essere rieletto attraverso una nuova guerra cecena.
Altri morti, altri odi inestinguibili. Altre sconfitte mascherate da vittorie. Fino alla Dubrovka, che ha convinto Putin a commettere un altro errore: quello di favorire i disegni di coloro che vogliono gettare la Cecenia nelle mani del Grande Demone Islamico. Chi siano non è ancora chiaro. L'unica cosa certa è che hanno alleati a Mosca, non troppo lontani dal Cremlino, e - molto probabilmente - hanno alleati anche molto lontani da Mosca: tutti interessati a colpire la Russia e a farla cadere in pezzi, prima che la grande partita asiatica cominci a dipanarsi molto più a est, ai confini cinesi. Per l'immediato, voltare pagina appare sempre più difficile. Una soluzione, per via di un referendum costituzionale che escluda Aslan Maskhadov - come voleva fare Putin nel prossimo marzo - è palesemente impraticabile.
Una soluzione militare è sbarrata, come l'attentato di ieri ha dimostrato. Vladimir Putin ha pensato fin dall'inizio della guerra cecena, fin dalla sua ascesa al potere, di poterla vincere. Ha chiesto e ottenuto dall'Occidente, in primo luogo dagli Stati Uniti (prima a Bill Clinton, poi a George W. Bush) di considerarla una "faccenda interna" alla Russia, cioè un problema di polizia. Ma faccenda interna, o faccenda esclusivamente interna, la Cecenia lo è stata solo all'inizio, quando a dominare gli eventi furono le stupidità congiunte di Eltsin e dei suoi pretoriani, Ghennadij Burbulis, Sergej Shakhrai, il generale Pavel Graciov - detto Pasha Mercedes a causa dei suoi traffici di automobili con la Germania da cui le truppe russe stavano ritirandosi. Subito dopo la Cecenia diventò formidabile occasione per numerosi servizi segreti, impegnati appunto a demolire la Russia: da Ankara a Washington, da Ryjad a Islamabad. Il "segreto" di tanto interesse stava un po' più a est della Cecenia e si chiama Mar Caspio, con le sue grandi, forse immense, riserve di petrolio. Con la fine dell'Urss il Caspio aveva cessato di essere un mare sovietico, e l'obiettivo americano fu subito di metterci sopra le mani. Non solo: ma di tagliare fuori la Russia dai proventi del trasporto petrolifero verso gli utilizzatori occidentali. L'unico oleodotto esistente all'epoca passava attraverso la Cecenia. Nulla di meglio che rendere quella regione abbastanza turbolenta da impedire di utilizzarla, in futuro, come zona di passaggio del petrolio. Una guerra d'indipendenza - com'è accaduto decine di volte nelle storie coloniali dei due secoli scorsi - si trasformava in occasione di dominio per i pesci più grossi, quelli imperiali. La Russia vi aveva preso parte, ora le toccava di subirla. Vladimir Putin avrebbe dovuto capirlo fin dall'inizio. Una vittoria militare sarebbe stata impossibile in un contesto internazionale così sfavorevole. A meno che la Russia non negoziasse esplicitamente e duramente la non ingerenza interna degli appetiti esterni. Non lo ha fatto. Vincere, in queste condizioni, non è possibile nemmeno sterminando tutti i ceceni. Per la semplice ragione che in tutto il Caucaso, del Nord e del Sud, c'è un esercito di almeno 400 mila giovani disoccupati che possono essere arruolati senza problemi con uno stipendio di cento dollari al mese. Cento dollari per morire di petrolio, ma avvolti nella bandiera verde dell'Islam. Gente che ha cifre sufficienti per mettere insieme eserciti del genere ce n'è in Russia e altrove. L'Amministrazione Clinton avviò, com'è noto, l'oleodotto Baku-Ceyhan, sbandierandolo di fronte all'esterrefatto e declinante Boris Eltsin nella riunione di Ankara. L'esperimento afghano era già fallito, nel 1999, ma l'Afghanistan era ancora lì, a dimostrare che un regime intero può essere artificialmente portato al potere con i soldi neri di alcune compagnie petrolifere e qualche servizio segreto opportunamente incentivato. Unocal e Delta Oil avevano "inventato", letteralmente (con l'aiuto dell'Isi, il servizio segreto pakistano), i taleban per tentare di far uscire il petrolio del Caspio attraverso l'Afghanistan. Un altro percorso per bypassare la Russia, alternativo a quello georgiano-turco. Come siano andate le cose adesso lo sappiamo. I taleban sono caduti, l'Asia Centrale ex sovietica è in mano agli Stati Uniti. L'unico perdente, in tutta questa storia, è stata la Russia. L'esplosione di Grozny sembra dire che che la ritirata asiatica del Cremlino non è ancora terminata e che Vladimir Putin dovrà portare la croce cecena sulle spalle fino al termine del suo primo mandato. E oltre, fino alla disfatta finale. Anche alla propria. Perché si può restare al potere anche se si perde una guerra, ma è difficile rimanerci se si perde il proprio paese.
Un attentato così possente, la sua dinamica, dicono che l'esercito e i servizi segreti militari russi non possono controllare nemmeno una capitale ridotta in rovine. Ci si può figurare come Mosca possa controllare il resto della minuscola repubblica ribelle, che tiene testa alla Russia intera da quell'autunno del 1994 in cui Boris Eltsin giocò la carta della guerra contro Dudaev più per vincere le elezioni presidenziali che non per ricondurre all'ovile la Cecenia proclamatasi indipendente. Dopo 120 mila morti tra civili e combattenti guerriglieri, dopo almeno 20 mila morti tra i militari russi (più che nei dieci anni di Afghanistan), Putin si ritrova con lo stesso pugno di mosche che costrinsero il buonanima generale Aleksandr Lebed a siglare la resa di fatto della Russia nell'autunno del 1995. Boris Eltsin fu rieletto, truccando le carte, e la Cecenia rimase separata, anche se non indipendente. Poi toccò a Vladimir Putin di essere rieletto attraverso una nuova guerra cecena.
Altri morti, altri odi inestinguibili. Altre sconfitte mascherate da vittorie. Fino alla Dubrovka, che ha convinto Putin a commettere un altro errore: quello di favorire i disegni di coloro che vogliono gettare la Cecenia nelle mani del Grande Demone Islamico. Chi siano non è ancora chiaro. L'unica cosa certa è che hanno alleati a Mosca, non troppo lontani dal Cremlino, e - molto probabilmente - hanno alleati anche molto lontani da Mosca: tutti interessati a colpire la Russia e a farla cadere in pezzi, prima che la grande partita asiatica cominci a dipanarsi molto più a est, ai confini cinesi. Per l'immediato, voltare pagina appare sempre più difficile. Una soluzione, per via di un referendum costituzionale che escluda Aslan Maskhadov - come voleva fare Putin nel prossimo marzo - è palesemente impraticabile.
Una soluzione militare è sbarrata, come l'attentato di ieri ha dimostrato. Vladimir Putin ha pensato fin dall'inizio della guerra cecena, fin dalla sua ascesa al potere, di poterla vincere. Ha chiesto e ottenuto dall'Occidente, in primo luogo dagli Stati Uniti (prima a Bill Clinton, poi a George W. Bush) di considerarla una "faccenda interna" alla Russia, cioè un problema di polizia. Ma faccenda interna, o faccenda esclusivamente interna, la Cecenia lo è stata solo all'inizio, quando a dominare gli eventi furono le stupidità congiunte di Eltsin e dei suoi pretoriani, Ghennadij Burbulis, Sergej Shakhrai, il generale Pavel Graciov - detto Pasha Mercedes a causa dei suoi traffici di automobili con la Germania da cui le truppe russe stavano ritirandosi. Subito dopo la Cecenia diventò formidabile occasione per numerosi servizi segreti, impegnati appunto a demolire la Russia: da Ankara a Washington, da Ryjad a Islamabad. Il "segreto" di tanto interesse stava un po' più a est della Cecenia e si chiama Mar Caspio, con le sue grandi, forse immense, riserve di petrolio. Con la fine dell'Urss il Caspio aveva cessato di essere un mare sovietico, e l'obiettivo americano fu subito di metterci sopra le mani. Non solo: ma di tagliare fuori la Russia dai proventi del trasporto petrolifero verso gli utilizzatori occidentali. L'unico oleodotto esistente all'epoca passava attraverso la Cecenia. Nulla di meglio che rendere quella regione abbastanza turbolenta da impedire di utilizzarla, in futuro, come zona di passaggio del petrolio. Una guerra d'indipendenza - com'è accaduto decine di volte nelle storie coloniali dei due secoli scorsi - si trasformava in occasione di dominio per i pesci più grossi, quelli imperiali. La Russia vi aveva preso parte, ora le toccava di subirla. Vladimir Putin avrebbe dovuto capirlo fin dall'inizio. Una vittoria militare sarebbe stata impossibile in un contesto internazionale così sfavorevole. A meno che la Russia non negoziasse esplicitamente e duramente la non ingerenza interna degli appetiti esterni. Non lo ha fatto. Vincere, in queste condizioni, non è possibile nemmeno sterminando tutti i ceceni. Per la semplice ragione che in tutto il Caucaso, del Nord e del Sud, c'è un esercito di almeno 400 mila giovani disoccupati che possono essere arruolati senza problemi con uno stipendio di cento dollari al mese. Cento dollari per morire di petrolio, ma avvolti nella bandiera verde dell'Islam. Gente che ha cifre sufficienti per mettere insieme eserciti del genere ce n'è in Russia e altrove. L'Amministrazione Clinton avviò, com'è noto, l'oleodotto Baku-Ceyhan, sbandierandolo di fronte all'esterrefatto e declinante Boris Eltsin nella riunione di Ankara. L'esperimento afghano era già fallito, nel 1999, ma l'Afghanistan era ancora lì, a dimostrare che un regime intero può essere artificialmente portato al potere con i soldi neri di alcune compagnie petrolifere e qualche servizio segreto opportunamente incentivato. Unocal e Delta Oil avevano "inventato", letteralmente (con l'aiuto dell'Isi, il servizio segreto pakistano), i taleban per tentare di far uscire il petrolio del Caspio attraverso l'Afghanistan. Un altro percorso per bypassare la Russia, alternativo a quello georgiano-turco. Come siano andate le cose adesso lo sappiamo. I taleban sono caduti, l'Asia Centrale ex sovietica è in mano agli Stati Uniti. L'unico perdente, in tutta questa storia, è stata la Russia. L'esplosione di Grozny sembra dire che che la ritirata asiatica del Cremlino non è ancora terminata e che Vladimir Putin dovrà portare la croce cecena sulle spalle fino al termine del suo primo mandato. E oltre, fino alla disfatta finale. Anche alla propria. Perché si può restare al potere anche se si perde una guerra, ma è difficile rimanerci se si perde il proprio paese.
Giulietto Chiesa
Giulietto Chiesa (1940) è giornalista e politico. Corrispondente per “La Stampa” da Mosca per molti anni, ha sempre unito nei suoi reportage una forte tensione civile e un rigoroso scrupolo …