Slavoj Zizek: Salvo incidenti previsti

11 Febbraio 2003
In Minority Report, il film di Steven Spielberg basato su un racconto di Philip Dick, i criminali vengono arrestati prima di commettere il reato poiché tre umani - che, attraverso mostruosi esperimenti scientifici, hanno acquisito la capacità di prevedere il futuro - riescono a predire esattamente le loro azioni (il "rapporto di minoranza" del titolo si riferisce a quei rari casi in cui uno dei tre medium utilizzati dalla polizia è in disaccordo con gli altri due su un crimine che sta per essere commesso)... Se trasferiamo questa idea alle relazioni internazionali, non otteniamo forse la nuova "dottrina Bush (o, piuttosto, Cheney)", annunciata ormai pubblicamente come "filosofia" ufficiale degli Usa in politica internazionale (nel documento di 31 pagine intitolato The National Security Strategy, diffuso dalla Casa Bianca il 20 settembre 2002)? I suoi punti principali sono: nel prossimo futuro la potenza militare americana deve restare "indiscussa"; poiché oggi il nemico principale è un fondamentalista "irrazionale" che, al contrario dei comunisti, manca persino del più elementare senso della sopravvivenza e del rispetto per la sua stessa gente, l'America ha diritto ad attacchi preventivi, ossia ad aggredire i paesi che non costituiscono ancora una chiara minaccia per gli Usa, ma potrebbero costituirla in futuro; pur ricercando coalizioni internazionali ad hoc per tali attacchi, gli Usa si riservano il diritto di agire indipendentemente se non otterranno sufficiente appoggio internazionale. Così, mentre presentano la loro dominazione su altri stati sovrani come fondata su un benevolo paternalismo che tiene in considerazione gli interessi degli altri stati, gli Stati Uniti riservano a se stessi il diritto ultimo di definire i "veri" interessi dei loro alleati. La logica è formulata chiaramente: persino la pretesa di un diritto internazionale neutro è abbandonata poiché, quando percepiscono una potenziale minaccia, gli Usa chiedono formalmente ai loro alleati di sostenerli, ma l'adesione di questi ultimi è un optional. Il messaggio sottostante è sempre "noi lo faremo, con o senza di voi", cioè voi siete liberi di essere d'accordo, ma non liberi di dissentire. Qui viene riproposto il vecchio paradosso della scelta forzata, la libertà di compiere una scelta a condizione che sia la scelta giusta.
Lo scontento degli Usa nei confronti di Gerhard Schröder nel settembre 2002, quando questi ha vinto le elezioni con la sua ferma presa di posizione contro l'intervento militare americano in Iraq, era dovuto al fatto che Schröder si è comportato così come si comporterebbe un normale politico in una democrazia funzionante e il leader di uno stato sovrano. Pur concordando sul fatto che il regime iracheno costituisce una minaccia, egli ha semplicemente espresso il suo disaccordo sul modo in cui il governo Usa propone di trattare tale minaccia, esprimendo così un'opinione condivisa non solo da molti altri stati, ma anche da una percentuale considerevole di americani e di parlamentari americani. Schröder è stato così il primo ad assaporare appieno la dottrina Bush. E, per spingere ancora più in là l'analogia, il suo disaccordo rispetto al piano statunitense di attaccare preventivamente l'Iraq non è stato forse, precisamente, una sorta di "rapporto di minoranza" nella vita reale indicante il suo disaccordo verso il modo in cui altri vedono il futuro?
Noi tutti ricordiamo la logica della "distruzione reciprocamente assicurata" ("mutually assured destruction") elaborata nel pieno della Guerra Fredda. Dal nostro punto di vista retrospettivo, in confronto alla dottrina Bush, oggi tale logica non può che apparire relativamente razionale. Negli anni `70 Bernard Brodie ha spiegato come questa logica funzionasse effettivamente: "È uno strano paradosso del nostro tempo che uno dei fattori cruciali che fanno effettivamente funzionare, e funzionare così bene, la dissuasione nucleare è il timore sottostante che, in una crisi veramente grave, essa possa fallire. In tali circostanze, non si gioca con il destino. Se fossimo assolutamente certi che la dissuasione nucleare è efficiente al cento per cento nella sua funzione di proteggerci contro un attacco nucleare, allora il suo valore dissuasivo contro una guerra convenzionale scenderebbe praticamente a zero".
In breve, la strategia della "distruzione reciprocamente assicurata" funzionava non perché fosse perfetta, ma per la sua stessa imperfezione. La strategia perfetta (se una parte sferrerà un attacco nucleare, l'altra risponderà automaticamente e così saranno entrambe distrutte) aveva un difetto fatale. Che cosa accadrebbe se la parte attaccante contasse sul fatto che, anche dopo il primo attacco, il nemico continui a comportarsi da soggetto razionale? Ora le sue opzioni sarebbero le seguenti: con il suo paese in gran parte distrutto, potrebbe o attaccare a sua volta, causando così la catastrofe totale, la fine dell'umanità, oppure non rispondere, consentendo così la sopravvivenza dell'umanità e dunque almeno la possibilità di una rinascita del suo paese in futuro. Un soggetto razionale sceglierebbe la seconda opzione... Ciò che rende efficiente la strategia è il fatto stesso che non possiamo mai essere sicuri che funzionerà perfettamente: che cosa succederebbe se una situazione sfuggisse al controllo per una quantità di motivi facilmente immaginabili (dall'aggressività "irrazionale" di una parte ai semplici guasti tecnologici o errori di comunicazione)? È per via di questa minaccia permanente che entrambe le parti non vogliono neanche avvicinarsi troppo alla prospettiva della "distruzione reciprocamente assicurata", perciò evitano anche la guerra convenzionale; se la strategia fosse perfetta, al contrario, essa consentirebbe l'atteggiamento "Combattiamo una guerra convenzionale totale, poiché sappiamo entrambi che nessuna delle due parti rischierà il passo fatale verso un attacco nucleare!". Così l'effettiva costellazione della logica della deterrenza nucleare non è: "Se seguiremo la logica della deterrenza nucleare, la catastrofe nucleare non avverrà", ma: "Se seguiremo la logica della deterrenza nucleare, la catastrofe nucleare non avverrà, salvo incidenti imprevisti". (E lo stesso vale oggi per la prospettiva della catastrofe ecologica: se non facciamo niente, succederà, e se facciamo tutto il possibile, non succederà salvo incidenti imprevisti.)
Il problema dell'attuale "dottrina Bush" è che con essa il cerchio si chiude. Non c'è più spazio neanche per la "realistica" apertura all'imprevedibile che sosteneva la dottrina della "distruzione reciprocamente assicurata": la "dottrina Bush" poggia sull'affermazione violenta della logica paranoica del controllo totale sulla minaccia futura e sugli attacchi preventivi contro tale minaccia. L'inadeguatezza di un tale approccio per l'universo di oggi, in cui la conoscenza circola liberamente, è evidente. Così il cerchio tra presente e futuro si chiude: la prospettiva mozzafiato dell'attentato terroristico è ora evocata allo scopo di giustificare incessanti attacchi preventivi. Lo stato in cui oggi viviamo, nella "guerra al terrore", è quello della minaccia terroristica continuamente sospesa: la Catastrofe (il nuovo attentato terroristico) è data per scontata, tuttavia infinitamente posticipata - qualunque cosa accadrà effettivamente, anche se sarà un attacco molto più orribile di quello dell'11 settembre, non sarà tuttavia "quello". Ed è cruciale qui afferrare come la vera catastrofe sia già questa vita sotto l'ombra della minaccia permanente di una catastrofe.
Recentemente Terry Eagleton ha richiamato l'attenzione sulle due modalità opposte della tragedia: l'Evento catastrofico grande e spettacolare, l'irruzione improvvisa da qualche altro mondo, e il cupo persistere di una condizione senza speranza, la triste esistenza che va avanti indefinitamente, la vita come una lunga emergenza. Questa è la differenza tra le grandi catastrofi del Primo Mondo come l'11 settembre e la cupa catastrofe permanente, diciamo, dei palestinesi in Cisgiordania. La prima modalità di tragedia, una figura con uno sfondo "normale", è caratteristica del Primo Mondo, mentre in gran parte del Terzo Mondo la catastrofe designa lo stesso, onnipresente sfondo.
Ed è così che la catastrofe dell'11 settembre ha in effetti funzionato: come una figura catastrofica che ha reso noi, in Occidente, consapevoli del beato sfondo della nostra felicità e della necessità di difenderlo contro l'attacco feroce degli stranieri... in breve, ha funzionato esattamente secondo il principio di Chesterton della gioia condizionata: alla domanda "Perché questa catastrofe? Perché non possiamo essere sempre felici?", la risposta è: "E perché dovremmo essere felici tutto il tempo rimanente?" L'11 settembre ha dimostrato che noi siamo felici e che gli altri ci invidiano questa felicità. Seguendo questa riflessione, dovremmo arrischiare la tesi che, lungi dall'aver scosso gli Usa dal loro sonno ideologico, l'11 settembre è stato usato come un sedativo che ha permesso all'ideologia egemonica di "rinormalizzarsi": per l'ideologia egemonica il periodo successivo alla guerra del Vietnam è stato un lungo trauma sospeso. Essa doveva difendersi da dubbi critici, il tarlo era continuamente al lavoro e non poteva essere semplicemente soppresso, ogni ritorno all'innocenza veniva immediatamente sentito come falso... fino all'11 settembre, quando gli Usa sono diventati la vittima. Questo ha permesso loro di riaffermare l'innocenza della propria missione. In breve, lungi dall'averci risvegliati, l'11 settembre è servito a rimetterci a dormire, per proseguire il nostro sogno dopo l'incubo degli ultimi decenni.
Qui l'ironia finale è che, per riaffermare l'innocenza del patriottismo americano, l'establishment conservatore statunitense è ricorso all'ingrediente chiave dell'ideologia del politicamente corretto che ufficialmente disprezza: la logica della vittimizzazione. Facendo leva sull'idea che abbia legittimità (solo) chi parla dalla posizione di vittima, esso è ricorso al ragionamento implicito: "Ora le vittime siamo noi, e questo ci legittima a parlare (e agire) da una posizione di autorità". Così quando, oggi, sentiamo slogan secondo i quali il sogno liberale degli anni `90 sarebbe finito, con gli attacchi al World Trade Center saremmo stati rigettati violentemente nel mondo reale, e i facili giochi intellettuali sarebbero finiti, dobbiamo ricordare che tale richiamo ad affrontare la dura realtà è pura ideologia. L'invito attuale "Americani, svegliatevi!" richiama lontanamente il "Deutschland, erwache!" di Hitler che, come scrisse molto tempo fa Adorno, significava esattamente il contrario.
Per che cosa, allora, veniamo accecati quando sogniamo il sogno della "guerra al terrore"? Forse la prima osservazione da fare qui è la profonda soddisfazione dei commentatori americani nel constatare come, dopo l'11 settembre, il movimento anti-globalizzazione abbia perso la sua raison. E se questa soddisfazione dicesse più di quanto non intendesse dire? E se la Guerra al Terrore fosse non tanto una risposta agli attacchi terroristici stessi, quanto una risposta alla crescita del movimento anti-globalizzazione, un modo per contenerlo e deviare l'attenzione da esso? E se questo "danno collaterale" della Guerra al Terrore fosse il suo vero obbiettivo? Si è tentati di dire che qui stiamo trattando un caso (ideologico) di ciò che Stephen Jay Gould avrebbe chiamato "ex-aptation" (eterogenesi dei fini, ndt): l'apparente profitto o effetto secondario (il fatto che ora anche la protesta anti-globalizzazione sia finita nell'elenco dei sostenitori "del terrorismo") è cruciale.

(Traduzione di Marina Impallomeni)

Slavoj Zizek

Definito dalla stampa statunitense "il gigante di Lubiana", Slavoj Zizek è un filosofo i cui interessi vanno dalla psicoanalisi alla filosofia alla politica. Sloveno, nato nel 1949, "clerico vagante" nelle …