Gianfranco Bettin: Il pericolo tra noi

29 Aprile 2003
Alla fine, su questa storia dell'Unabomber del Nordest, una cosa di buon senso, pratica e intelligente, l'ha detta il capo della procura di Venezia, Vittorio Borraccetti. Ha proposto, cioè, di unificare le indagini, oggi divise tra troppi referenti di polizia giudiziaria (in quattro procure di due regioni: Pordenone, Udine, Treviso e Venezia, tra Veneto e Friuli Venezia Giulia). Nei quasi dieci anni di attività (dal 21 agosto del '94, tubo esplosivo alla "Sagra degli osei" di Sacile), Unabomber ha seminato indizi e tracce che tuttavia non sono mai state accorpate in un solo fascicolo e in un'unica centrale operativa specializzata. L'ultimo attentato, lo scorso 25 aprile sul greto del Piave, col ferimento di due bambini, uno dei quali in modo molto grave, ha suscitato un clamore e una rabbia che stanno spingendo gli investigatori a cambiare strategia. E la strada indicata da Vittorio Borraccetti, finalmente, sembra quella più razionale. Sul piano della "lettura" più approfondita e delle ipotesi intorno a Unabomber sembrano invece prevalere ancora confusione ed emotività. Certo, il fatto che questa volta - oltre a essere l'ennesima volta: la diciassettesima - si siano colpiti dei bambini (era accaduto solo un'altra volta prima, nel settembre del 2002 a Pordenone), contribuisce ad aumentare l'indignazione e la paura. Così ora si insiste molto, nei commenti, sulla "vigliaccheria" dell'attentatore, come se questo non fosse un elemento o implicito nel gesto di chi colpisce a tradimento o comunque irrilevante e perfino fuorviante ai fini delle indagini.
Inoltre, si insiste sul fatto che le sue vittime sarebbero "casuali" e quindi imprevedibili. Ma questo è vero fino a un certo punto. Un filo conduttore sembra esserci, invece. Proviamo a chiederci infatti: questo semi-serial killer (non ha ancora ucciso nessuno, per fortuna) colpisce semplicemente dei luoghi dove va tanta gente (supermercati, sagre paesane, cimiteri, luoghi di picnic, chiese, spiagge...) oppure colpisce proprio la gente che va in quei luoghi? Cioè: il suo obiettivo è la folla indistinta oppure pensa che in quei luoghi ci vadano proprio determinate persone, proprio quelle che intende colpire? Che sono, nel caso, esponenti tipici della società prevalente, ordinaria: il vasto ceto medio legato alle consuetudini diffuse e alle tradizioni, quello che abita la normalità della realtà locale. Unabomber, insomma, ha tutta l'aria, stando alle sue vittime, di un nemico giurato non della "gente" presa a caso, non di un Altro indistinto, bensì di questa normalità e della sua "folla", dei suoi abitanti.
Perché la odia, questa società media? Ecco una domanda da cui partire. La odia perché se ne è sentito escluso? O perché viceversa vi è stato troppo dentro? Queste domande forse non aiutano a indagare in senso stretto. Però, dietro a Unabomber, ci riportano sulle tracce di altre vicende cupe avvenute in questi anni da queste parti, nel loro nesso inquietante, a volte sconvolgente, proprio con la "normalità" del contesto. Di fronte a quei fatti, dopo il clamore momentaneo, si è in genere preferito parlare d'altro, rimuovendoli. Unabomber, con la sua serie infernale, tanto ripetitiva quanto implacabile, ricorda a tutti che il pericolo - cioè la contraddizione - è ancora fra noi.

Gianfranco Bettin

Gianfranco Bettin è autore di diversi romanzi e saggi. Con Feltrinelli ha pubblicato, tra gli altri, Sarajevo, Maybe (1994), L’erede. Pietro Maso, una storia dal vero (1992; 2007), Nemmeno il destino (1997; 2004, da cui è …

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