Danilo Manera: Lettere dall'Avana

05 Giugno 2003
Carlos Fuentes scrive che Castro ha bisogno dell'orco statunitense per giustificare i propri fallimenti come Bush ha bisogno del cattivo barbuto per la sua crociata. Gabriel García Márquez, messo alle corde da Susan Sontag per il suo silenzio complice, ammette di aver ottenuto in passato la scarcerazione di prigionieri politici. José Saramago dichiara d'essere al capolinea del suo appoggio alla rivoluzione cubana perché dissentire è un atto irrinunciabile di coscienza. Eduardo Galeano, in una pagina sofferta, pur rilevando il basso profilo della sedicente opposizione, addita i segni visibili della decadenza e sfinimento di un modello di potere centralizzato e burocratico, che non permette critica né garantisce libertà. E auspica un'apertura democratica costruita dall'interno, dai cubani. La recente ondata repressiva a Cuba ha destato ripudio, indignazione, distacchi, in modo particolare fra gli scrittori (anche perché i dissidenti incarcerati erano soprattutto giornalisti). E le proteste e gli abbandoni più sonori e dolenti sono stati forse quelli degli intellettuali di sinistra, comprese voci in passato benevole verso il regime castrista. Tra i firmatari di lettere di riprovazione figurano fior di scrittori in lingua spagnola, da Fernando Savater a Juan Goytisolo, da Javier Marías ad Antonio Muñoz Molina, da Marcio Veloz Maggiolo a Juan Villoro, da Almudena Grandes a Manuel Rivas, Tomás Eloy Martínez, Jorge Castañeda. Per non dire dei popolarissimi Pedro Almodóvar, Joan Manuel Serrat e Joaquín Sabina. Più una nutrita lista di esponenti di altre culture, da Magris a Tabucchi, da Grass a Enzensberger. L'immagine dell'ufficialità cubana tracolla, si sbriciola. Un gruppo di scrittori e artisti dell'isola (con assenze di rilievo) ha reso pubblico un Messaggio dall'Avana agli amici lontani, nel quale si trattano gli ex compagni devianti, che "in buona fede possono essere confusi", come scioccherelli suggestionabili e strumentalizzati, giacché le loro posizioni sarebbero "nate dalla distanza, dalla disinformazione, dai traumi di esperienze socialiste fallite", e i loro testi verrebbero utilizzati in una campagna che prepara l'invasione Usa. In calce ci sono firme di meschini funzionari, ma anche altre di grande rilievo, da Senel Paz a Pablo Armando Fernández, da Roberto Fabelo a Silvio Rodríguez. Difficile pensare che siano lì per opportunismo o disciplina di partito. I cubani dell'esilio, da Eliseo Alberto a Emilio García Montiel, da Zoe Valdés a Willy Chirino, si sono invece espressi contro quella che reputano una barbarie a prova della definitiva sclerosi del tiranno e l'ennesima occasione perduta sulla via di una transizione al pluralismo. Da Cuba giunge notizia di un clima di timore, un accentuarsi della paranoia di sorveglianza e delazione. Se da un lato non si fa fatica a credere che l'ufficio diplomatico Usa all'Avana sia dedito a ingerenza e destabilizzazione, e che la questione migratoria sia usata per creare disperazione, dall'altro inorridisce vedere retate poliziesche contro biblioteche indipendenti, radioline, internet. Tanti sogni di una società migliore per arrivare a questo tipo di censura? Ma quel che più sgomenta nella consunta retorica del governo cubano e degli organismi culturali che controlla è la chiusura alla discussione. Avvilisce l'uso sistematico dell'insulto, che sottointende la presunzione di essere detentori della verità unica, incarnata dal líder máximo. Qualunque suggerimento, osservazione o discrepanza è visto come un cedimento al "progetto fascista internazionale" che vuole ricolonizzare l'isola (come se non bastassero la corruzione diffusa e il triste turismo). Perché qualunque irregolare o distonico deve diventare subito un "traditore, mercenario, servo della Cia, scoria, pervertito, lurida spia", anche se è un poveraccio che scappa dalla fame o un creatore che cerca condizioni meno soffocanti? Come antimilitarista, respingo il dilemma delle due trincee tra cui scegliere e l'alibi del contesto generale dominato dal mostro Usa per giustificare metodi disumani. Difendo il diritto dei cittadini del mondo intero di pronunciarsi contro la politica di qualunque governo (statunitense, cubano, italiano...), ma non confondo affatto i popoli coi loro presidenti. Per questo continuo ad amare la straordinaria gente di Cuba e a essere affascinato dalla sua cultura. Ho tradotto, presentato e commentato vari volumi di scrittori cubani. Il contributo che mi sembra di poter dare in questo frangente è chiedere il loro parere. Sei amici, quattro residenti a Cuba e due fuori, mi hanno risposto. Il mosaico che formano le loro parole mostra inquietudini in comune ed è già una base di dialogo e di riflessione. Danilo Manera Eduardo Del Llano autore di romanzi come Obstáculo e Tres (in italiano sono tradotti La clessidra di Nicanor, Giunti - Zanzibar, '97 e un racconto nell'antologia La terra delle mille danze, Ibiskos '99), attore, umorista, sceneggiatore di film come Alicia en el pueblo de Maravillas e Kleine Tropikana. Sono nato nei giorni della crisi dei missili del 1962. Da allora mi dicono che il momento esige dei sacrifici. Non credo nella pena di morte. Non mi piace nemmeno una situazione in cui l'unica cosa che si può fare con un'opinione critica è tenersela. Ma, se devo proprio elencare le cose che non mi stanno bene, non mi piace nemmeno che il mondo piazzi un microscopio su Cuba. Così si proteggeranno dal virus, ma volteranno le spalle alla tigre. Luis Manuel García (L'Avana, '54), geologo, giornalista, autore di romanzi (tra cui El restaurador de almas e Habanecer), racconti, poesie (alcune in L'isola che canta. Giovani poeti cubani, Feltrinelli '98). È caporedattore della rivista Encuentro de la cultura cubana che si pubblica a Madrid, dove vive. Collabora al sito d'informazione cubaencuentro.com Cronaca di una repressione annunciata. L'assassinio paralegale e sommario di tre giovani sequestratori, non per il reato commesso, ma come misura di "profilassi sociale", così come la distribuzione di 1475 anni di carcere tra 75 dissidenti, hanno provocato una reazione internazionale immediata e unanime. Quasi tutti gli intellettuali progressisti e numerosi partiti di sinistra hanno condannato i fatti e si sono dissociati dall'Avana. Quello di Fidel è stato un grave errore politico e inoltre un delitto. Le autorità cubane invocano l'autodifesa di fronte alla presunta imminente aggressione degli Usa, di cui i detenuti sarebbero agenti. Meticolose perquisizioni hanno rinvenuto però solo alcuni computer, un pugno di articoli e libri proibiti sull'isola e molte copie della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Nemmeno una pistola, una foto di installazioni militari, un piano d'attacco, un codice cifrato per comunicare con i "padroni". Li si accusa di essere al servizio di James Cason, responsabile dell'Ufficio d'Interessi Usa sull'isola, il cui comportamento poco compatibile con la funzione diplomatica è certo da biasimare. Ma risulta strano che Cason non sia stato considerato persona non grata e che la principale attività svolta dalla dissidenza nel suo domicilio, un seminario di etica giornalistica, sia stata organizzata proprio da uno degli infiltrati dei servizi segreti cubani. Cason è stato il pretesto per una punizione tesa a spaventare l'incipiente società civile cubana, capace di raccogliere oltre 11 mila firme (in un Paese dove firmare costituiva un serio rischio e senza mezzi di propaganda) a sostegno del Progetto Varela, che propone un'apertura nell'ambito della Costituzione vigente. Il governo ha risposto con un referendum farsa per proclamare il "socialismo irrevocabile", in franca discordanza col materialismo dialettico che dice di professare. Negli ultimi 44 anni, gli Stati Uniti hanno mantenuto un embargo irragionevole e inefficace e incoraggiato azioni di sabotaggio contro l'isola. Ma il governo castrista ha silurato qualunque tentativo di distensione (nell'80, '94, '96, 2003), perché il suo potere assoluto richiede uno stato di belligeranza perpetua, come scusa per i disastri economici, il mantenimento di un ordine da caserma e la soppressione delle libertà, oltre che per attirare la solidarietà internazionale di fronte all'"impari lotta tra Davide e Golia". L'attuale repressione non è un fatto nuovo. La legislazione cubana punisce ogni tipo di dissidenza, sicché decine di migliaia di persone sono finite dietro le sbarre per ragioni politiche e circa 15 mila sono state giustiziate. Il rigetto internazionale si verifica ora perché il mondo è cambiato, ma Cuba no. È cambiato anche l'esilio cubano. La stragrande maggioranza dei due milioni di cubani sparsi nel mondo è favorevole al passaggio pacifico a una democrazia che conservi le conquiste sociali. Persino a Miami, ex roccaforte dell'intolleranza, il 79% degli intervistati vuole una transizione ordinata e la riconciliazione fra tutti i cubani. A non essere cambiato, in 44 anni, è il monopolio del potere di Castro, che concede ai suoi sudditi la sola opzione di applaudire la dittatura più vecchia del pianeta. E le dittature non si giudicano per il loro segno, ma per le loro azioni. Amir Valle (Santiago de Cuba, 1967), poliedrico saggista, critico letterario, giornalista, narratore con varie raccolte di racconti, alcuni e-book e il fortunato romanzo Las puertas de la noche, uscito in vari Paesi. Ho detto fuori e dentro Cuba che sono contrario a qualsiasi violenza, su qualunque ideologia si basi. Credo che solo Dio possa dare e togliere la vita e pertanto non approvo queste pene di morte, né posso condividere misure restrittive delle libertà individuali e sociali universalmente riconosciute. Ho firmato, però, i documenti Dichiarazione degli intellettuali e artisti cubani contro il fascismo e il Messaggio dall'Avana agli amici lontani, chiarendo alle autorità che lo facevo pur con riserve religiose e morali contro le condanne e ritenendo che il processo ai dissidenti presentasse asprezze discutibili persino nella prospettiva della difesa del Paese, rischiando di favorire le mire degli Usa, dai quali né noi né il mondo possiamo attenderci nulla di buono. Ho deciso di restare a Cuba, pur avendo la possibilità di andarmene, perché le mie critiche ai gravi problemi della nostra società non servirebbero a nulla se me ne stessi comodamente altrove. L'intolleranza presente su entrambi i fronti della questione cubana mi ha reso vittima di attacchi dall'estero, con l'accusa di essere un gendarme, e all'interno ho dovuto pagare le conseguenze della mia indipendenza, per esempio con la soppressione del bollettino telematico Letras en Cuba, che per più di un anno ha trasmesso 30 numeri. La stessa sorte è toccata al servizio informativo A título personal, dopo due numeri. Sogno di poter un giorno fondare qui una rivista o una casa editrice, avere accesso senza limitazioni all'informazione che le tecnologie consentono, uscire da Cuba e rientrarvi senza dover richiedere permessi assurdi. Ma credo fermamente di poter dare il miglior contributo come ho fatto finora: prospettando le mie opinioni, anche quando sono scomode e pericolose, e difendendo le conquiste di un sistema imperfetto come qualunque altro, ma dalla mia terra. E chiedo il rispetto di tale decisione. Jesús Vega (L'Avana, 1954), critico cinematografico autore dei saggi Zavattini en La Habana e El cartel cubano de cine, traduttore e narratore, ha pubblicato a Cuba la raccolta di racconti Wunderbar, uno dei quali apre il volume A labbra nude (Feltrinelli '95). Vive negli Stati Uniti, a Miami. Quel che oggi accade è solo un nuovo giro di vite nel processo storico in cui la serpe comunista si morde la coda. Più o meno ogni dieci anni, questa balena centenaria, stretta tra i ghiacci che restano della rivoluzione cubana, ha bisogno di nuova aria per risolvere i suoi conflitti interni. Lo sbuffo zittisce il sempre minacciato settore degli intellettuali e dei dissidenti (parola peraltro proibita) e semina un'ansia che ha per unica via d'uscita la fuga, la smania di emigrare dove che sia. Ho amici progressisti che ancora credono nella possibilità di apertura all'interno del castrismo. Ogni volta che mi chiamano per darmi la "buona notizia" di qualche segnale di speranza, come prova che "Cuba avanza", ascolto con scetticismo. Solo chi ha vissuto in un regime come quello che devasta l'isola da oltre 40 anni può comprendere che, per ogni passo in avanti, arriveranno i "due passi indietro" di cui parlava Lenin. Finché dura il castrismo, non ci sarà libertà di creazione, né di espressione, né di culto, e ogni cubano porterà il proprio poliziotto infilato nell'anima, lesto a censurare ogni parola, ogni sguardo, persino ogni pensiero. Vorrei vedere in questa serie di vergognosi accadimenti i rantoli finali dell'Innominabile e della sua dittatura, ma fino a quel giorno di giubilo dureranno la frustrazione, lo spavento e il bavaglio. Reinaldo Montero (Ciego Montero, 1952) è poeta, autore di opere teatrali (tra cui Los equívocos morales, e Fausto e Medea, Petrilli, L'Aquila '98, rappresentata anche in Italia), varie raccolte di racconti e il poderoso romanzo Misiones, di 800 pagine, al quale ricorre, citando questo frammento: "Sedersi giorno dopo giorno, molto presto, davanti allo spaccio ancora chiuso, in attesa che arrivi il sacco di pagnotte rotonde, e che la panetteria apra i battenti con calma, e che il commesso dica "avanti, il primo della fila", e che tu ti avvicini, allungandogli la tessera dov'è annotata la razione che ti spetta. E il commesso la prende guardandoti con aria complice, segna una croce e ti restituisce la tessera e ti dà il pane, e tu con la tessera in una mano e il pane nell'altra avanzi di qualche passo, mentre tutti sanno già cosa stai per fare, ansiosi di osservare di nuovo l'atto ripetuto giorno dopo giorno, e getti il pane al suolo, come a voler colpire il Paese di Cuccagna, e giù a calpestare il pane nostro quotidiano, a spiaccicarlo sfregandolo contro la terra imperturbabile. Poi, ritorneresti nella tua stanza ad aspettare la prossima alba, il nuovo pane spappolabile, e così via". Yoss (L'Avana, 1969), biologo e scrittore di fantascienza (Los pecios y los náufragos), ha pubblicato in Italia I sette peccati nazionali (cubani) e due racconti erotici nell'antologia La baia delle gocce notturne (entrambi editi da Besa, '96 e '99). Con Danilo Manera ha scritto il testo conclusivo di Vedi Cuba e poi muori (Feltrinelli '97). Forse esecuzioni e condanne sono un altro dei classici "segnali muti" inviati di tanto in tanto a Washington dall'Avana, per ribadire che l'isola non ha paura. Tanto più ora che Bush si sente onnipotente e pronto a occuparsi dopo l'Iraq di altri stati canaglia, tra cui Cuba. A grandi problemi, grandi soluzioni, dicono. Ma l'avvertimento risulta sproporzionato. E soprattutto, denigrare come traditori e venduti gli intellettuali di Cuba e del mondo che osino deplorare tale scelta è di una prepotenza assurda. Qualcuno prova già la stessa angoscia che espresse Virgilio Piñera quando Castro lanciò per artisti e scrittori la parola d'ordine "Dentro la rivoluzione tutto, fuori dalla rivoluzione niente". Racconta una barzelletta che una chioccia, quando uno dei suoi pulcini si ammalò, ne uccise un altro per preparargli un brodo di pollo ristoratore. Mi chiedo che cos'abbia pensato della faccenda il pulcino sacrificato, e anche se la gallina abbia poi tacciato di traditore e venduto alla malattia chi considerava il suo modo di procedere illogico, ingiusto e crudele.

Danilo Manera

Danilo Manera (Alba, 1957) insegna Letteratura spagnola all’Università di Milano. È traduttore, critico letterario e narratore. Ha curato numerose edizioni italiane di prosatori spagnoli, tra cui Rafael Sánchez Ferlosio, Álvaro …