Pierre Bourdieu: Gli agguati del teleschermo

27 Maggio 2003
Nel numero dedicato all´"homo videns", la rivista "Reset" ripropone un significativo intervento di Pierre Bourdieu, il sociologo francese scomparso lo scorso anno, sul potere censorio esercitato dalla Tv. La riflessione nasce dall´agguato tesogli nel gennaio del 1996 dal conduttore di un programma della Tv pubblica, "Arrêt sur images", nel corso della quale lo studioso non aveva potuto esporre serenamente la sua analisi sui media. Un´analisi che si rivela oggi di straordinaria attualità.

La trasmissione Arrêt sur images ha illustrato perfettamente quello che avevo intenzione di dimostrare: l´impossibilità di tenere alla televisione un discorso coerente e critico sulla televisione. Prevedendo che non avrei potuto esporre la mia argomentazione, mi ero proposto di lasciare i giornalisti fare il loro gioco abituale (tagli, interruzioni, deviazioni) e di osservare, poi, che era la perfetta illustrazione della mia tesi.
Fin dalla prima conversazione (con Daniel Schneidermann, il conduttore, ndr), avevo chiesto espressamente che le mie prese di posizione durante gli scioperi di dicembre non fossero menzionate. Non era quello il punto, e quell´allusione poteva far apparire l´analisi sociologica come una critica per partito preso. Ora, fin dall´inizio della trasmissione, la giornalista, Pascale Clark, annuncia che io ho preso posizione in favore dello sciopero e che mi sono mostrato "molto critico circa la rappresentazione che i media (ne) hanno data", mentre non avevo fatto nessuna dichiarazione pubblica su questo.
Avevo espresso il desiderio che (i miei due contraddittori) non abusassero del vantaggio che in tal modo si dava loro. In realtà, trascinati dall´arroganza e dalla certezza del loro buon diritto, non hanno smesso di prendere la parola, di tagliarmela, pur ostentando rispetto: in quella trasmissione dove in teoria avrei dovuto presentare, come invitato principale, un´analisi sociologica di un talk show, credo di aver parlato al massimo venti minuti, meno per esporre idee che per battermi con interlocutori che rifiutavano in blocco il mio lavoro di analisi. (...) Conclusione (che avevo scritta prima della trasmissione): non si può criticare la televisione alla televisione, perché i dispositivi della televisione si impongono anche alle trasmissioni di critica del piccolo schermo.
La televisione, strumento di comunicazione, è uno strumento di censura (nasconde mostrando) sottomesso a una censura molto forte. Sarebbe bello servirsene per dire il monopolio della televisione, degli strumenti di diffusione (la televisione è lo strumento che permette di parlare al maggior numero di persone, uscendo dai limiti del campo specialistico). Ma, in questo tentativo, si può aver l´aria di servirsi della televisione, come gli intellettuali mediatici, per conquistare un potere simbolico nel campo intellettuale, illegittimo perché ottenuto grazie alla celebrità (male) acquisita presso il pubblico profano, cioè fuori dal campo intellettuale. Gli intellettuali dovrebbero verificare sempre che vanno alla televisione per (solo per) trarre partito dalla caratteristica specifica di questo mezzo: il fatto che permette di rivolgersi al maggior numero di persone; dunque bisognerebbe servirsene per dire cose che meritano di essere dette alla maggioranza delle persone: per esempio, che non si può dire nulla alla televisione. (...)
Il presentatore impone la problematica, in nome del rispetto delle regole formali a geometria variabile e in nome del pubblico, con intimazioni ("Cioè...", "Siamo precisi...", "Risponda alla mia domanda...", "Si spieghi...", "Lei non ha ancora risposto...", "Lei non ha ancora detto quale riforma auspica..."), vere ingiunzioni di comparire, che mettono l´interlocutore sul banco degli imputati. Per dare autorità alla sua parola, si fa portavoce degli uditori: "La domanda che tutti si pongono", "È importante per i francesi...". Può persino invocare il "servizio pubblico" per porsi dal punto di vista degli "utenti" nella descrizione dello sciopero.
Il presentatore distribuisce la parola e i segni d´importanza (tono rispettoso o sdegnoso, attento o impaziente, titoli, ordine di parola, per primo o per ultimo, ecc.). Crea l´urgenza (e se ne serve per imporre la censura), taglia la parola, non lascia parlare, (e questo in nome delle supposte attese del pubblico, cioè dell´idea che gli uditori non capiranno o, più semplicemente, del suo inconscio politico o sociale). [...]
La composizione della platea: è il risultato di tutto un lavoro preliminare di inviti selettivi (e di rifiuti). La peggior censura è l´assenza; le parole degli assenti sono escluse in modo invisibile. Da cui il dilemma: il rifiuto invisibile (virtuoso) o la trappola. Obbedisce a una preoccupazione di equilibrio formale (con, per esempio, la parità dei tempi di parola nei "faccia a faccia") che maschera disuguaglianze reali.