Giulietto Chiesa: La colossale truffa della nuova Russia

29 Maggio 2003
Per avere un'idea delle proporzioni della più colossale truffa del XX secolo, forse la più grande truffa mai compiuta da un gruppo di persone nei confronti di un popolo, di una nazione intera, credo basti un semplice confronto tra due cifre, che emerge in tutta la sua portata solo adesso, a undici anni di distanza. Qui si tratta della "vendita del secolo" - appunto così fu chiamata fin d'allora - che Boris Eltsin, tramite Anatolij Ciubais e Egor Gaidar, e tutto il gruppo di giovanotti russi eteroguidati da Harvard, realizzarono nel 1992. Le cifre sono queste. L'operazione voucher fu realizzata valutando in 5 (cinque) miliardi di dollari dell'epoca l'intero patrimonio dello Stato sovietico. Chi fece questo calcolo furono proprio quei giovanotti, ben consigliati da esperti come Jeffrey Sachs e Anders Aslund. Sulla base di quali valutazioni non ci hanno mai spiegato. Ma quanto quel calcolo fosse attendibile ce lo dice lo stato della borsa, della finanza e dell'economia russa nel 2003. Puntualmente confermato dal presidente Putin nel suo recente discorso alle camere riunite. Secondo uno studio di Alfa Bank (cui dobbiamo dare credito, essendo Piotr Aven uno dei suoi padroni, quello stesso Aven che partecipò ai suddetti calcoli), il mercato borsistico russo vale oggi 134 miliardi di dollari. Vedremo tra poco a chi appartengono. Ma la differenza tra 5 e 134 è evidente, e non si riduce di molto neppure attualizzando il valore del dollaro. Anzi si può dire il contrario: che la capitalizzazione complessiva del mercato russo è sicuramente inferiore, e di molto, al valore globale del patrimonio russo. Significa questa differenza che il paese è cresciuto così impetuosamente? Tutti sanno che non è così: dall'uomo della strada fino all'ultimo banchiere, dal presidente alla casalinga. Non solo il paese non è cresciuto, come dimostra il livello degl'investimenti, rimasto penosamente basso in tutti questi undici anni, come conferma il tenore di vita della gran parte della popolazione (di gran lunga al di sotto di quello del 1980), l'invecchiamento degl'impianti, il crollo dell'apparato industriale, il ritardo della ricerca nei settori fondamentali ecc. Non solo tutto ciò. Risulta inoltre che tutta questa ricchezza, che non era stata calcolata nel 1992, è l'effetto dello sfruttamento dell'apparato industriale e delle infrastrutture dell'epoca sovietica, più la dilapidazione delle risorse naturali del paese. Che fu dunque "venduto", anzi svenduto, per 5 miliardi di dollari, mentre ne valeva almeno 120 in termini reali. La causa - una delle cause, ma tra le principali - di tutti i disastri successivi, sta in queste due cifre. So bene che i difensori di quella privatizzazione possono ora invocare delle scusanti. Possono dire che l'intenzione era buona e che l'obiettivo era quello di distribuire le proprietà statali, equamente, tra i cittadini russi. Che importanza aveva il valore assoluto di ciò che si voleva distribuire? Se fosse stato di più dei 5 miliardi, avrebbe voluto dire, semplicemente, che tutti ne avrebbero ricavato di più. Santa ingenuità! Che direbbe (se fosse vera) quale fosse il livello di competenza e di conoscenza del mercato capitalistico di cui disponevano quei giovanotti. Ma non fu vera ingenuità. Non potevano non sapere che il mercato non è il luogo dove prosperano le anime belle, e che subito ci sarebbe stato chi avrebbe approfittato della svendita. E chi poteva essere a farlo se non coloro che il denaro lo avevano già, i ceffi da galera delle mafie sovietiche, i livelli inferiori degli apparati dello stato e del partito, che erano a diretto contatto con quella grande fetta del mercato nero che integrava il mercato socialista della pianificazione? Gli uni e gli altri erano contigui e fecero la parte del leone. Insieme ai capitali stranieri che, con grande facilità, comprarono i prestanome russi e, attraverso questi, una bella fetta della svendita. Chi rimase fuori fu esattamente la grande parte della popolazione, quella cui la privatizzazione era, a parole, destinata. Impoverita dal crollo dello Stato sovietico, la grande massa (che non sapeva neppure di che si stesse parlando, che non aveva la minima esperienza in materia) si limitò a vendere i suoi vouchers per qualche copeko ai managers dell'era sovietica (che invece avevano ben compreso). I managers non avevano i capitali, ma fecero alleanza con i criminali e li trovarono subito, in uno sposalizio perfetto con il sottobosco sovietico burocratico-mafioso: soldi più know-how industriale. Soldi più know-how energetico, petrolifero, gasifero. L'iperinflazione che seguì, a sua volta, fu alimentata artificialmente e spregiudicatamente. Più la gente semplice era a terra, vedeva bruciare i suoi risparmi, più i voucher potevano essere acquistati a basso prezzo e velocemente da accaparratori bene organizzati. La raccolta la facevano gli studenti, pagati tre lire, alle fermate del metrò, così vennero accumulati in poche mani quei cinque miliardi di vouchers di carta . Cioè smisurate proprietà reali.
Fu così che accaddero due cose importanti per la storia successiva, della Russia e del mondo intero: la proprietà dello Stato sovietico venne consegnata, per una cifra irrisoria, interamente nelle mani di una classe criminale, senza scrupoli, incapace di intepretare un ruolo imprenditoriale (che per altro non poteva conoscere). Una classe che, essendo strutturalmente criminale, non poteva che agire come un gruppo parassitario, incapace di produrre ricchezza, e dedito soltanto al consumo di una ricchezza che era stata ricevuta in regalo dalla sorte, al più dalla destrezza. E, come conseguenza, si creò una barriera insormontabile alla formazione di un ceto medio imprenditoriale diffuso, unica possibilità per una rinascita economica. Undici anni dopo il quadro non solo viene confermato, ma si sta aggravando. Gli oligarchi hanno avuto il tempo per maturare, ma non sono maturati. E, del resto, poverini, non si poteva aspettare da loro un tale salto di qualità in così poco tempo. Un tagliagole non diventa un raffinato statista in pochi anni. Ecco perché la distanza tra ricchi e poveri in Russia aumenta a ritmi che sono perfino più travolgenti di quelli americani, il che è tutto dire. Al punto che perfino gli analisti d'oltre oceano cominciano a essere preoccupati. Anche loro non sono anime belle, ma adesso scoprono che gli oligarchi russi cominciano a sbarrare loro il passo, non paghi della straordinaria ricchezza che è capitata nelle loro mani. "La struttura di mercato della Russia - dichiara il direttore di un hedge fund basato a New York, ma che è interamente dedicato al mercato russo - non è normale, è estrema". Non piace agl'investitori esteri il fatto che le azioni delle compagnie russe disponibili sul mercato, cioè la quota "flottante" che può essere comprata o venduta, si vada riducendo e stia ora scendendo dal 30% (già basso) al 27%, con tendenza a scendere ancora. E che ne è della proprietà dei 134 miliardi? Il 46% è nelle mani dei managers e degli "insiders" (oligarchi e prestanome), l'11,5% è nelle mani degl'"investitori strategici" (leggi banche straniere), il 15% è di proprietà del governo federale d di quelli regionali. I piccoli risparmiatori non esistono, nemmeno i piccoli imprenditori, e non potranno esistere nemmeno domani in queste condizioni.
E l'intera economia russa è sostanzialmente composta di tre settori fondamentali: petrolio e gas, elettricità, compagnie di telecomunicazione rappresentano il 90% del mercato. Il 71% del quale è materie prime energetiche. Nulla di nuovo è stato creato in questi undici anni, come volevasi dimostrare. Ma gli oligarchi - che non pagano le tasse a nessuno - hanno una immensa quantità di denaro fresco e comprano, comprano ancora, anche le azioni delle proprie compagnie, scalano se stessi prima che altri possano arrivare a comprarli, costruiscono fortezze nella speranza che diventino inattaccabili. Finchè il prezzo delle materie prime energetiche resta alto (hanno paura che scenda, con l'Impero che comincia a rivedere i cuoi calcoli) usano il potere del denaro e il Potere di cui dispongono, avendo privatizzato anche lo Stato e il governo, per diversificare la loro area d'influenza. Nessuno può competere con quei flussi di capitale, nemmeno grossi fondi d'investimento statunitensi, che sono in anticamera per entrare e scoprono che non c'è più niente da comprare, o che i prezzi sono troppo alti. Quanto può durare? Non molto. Ma è sufficiente per spiegare perché Vladimir Putin appare così stranamente irresoluto, così incapace di fare scelte chiare, così distratto quando si tratta di individuare e difendere gl'interessi russi. Il problema è che gl'interessi russi, in questo contesto, sono soltanto gl'interessi delle 500 famiglie che hanno comprato la Russia nel saldo di stagione del 1992.

Giulietto Chiesa

Giulietto Chiesa (1940) è giornalista e politico. Corrispondente per “La Stampa” da Mosca per molti anni, ha sempre unito nei suoi reportage una forte tensione civile e un rigoroso scrupolo …