Boris Biancheri: La sorte del petrolio iracheno
24 Giugno 2003
L'Annuncio dato da Paul Bremer, il funzionario americano responsabile
dell'amministrazione civile in Iraq secondo cui una parte dei ricavati del
petrolio iracheno potrebbe essere destinata ai cittadini sotto forma di
dividendi, quasi che gli iracheni fossero azionisti di una nuova grande impresa
commerciale chiamata Iraq, non manca di abilità né di immaginazione. Si presta
anche a più di una interpretazione.
L'obiettivo prioritario è stato evidentemente di dare un po' di speranza a un popolo che, se si trovava male sotto Saddam Hussein, non sta meglio adesso, in un paese dalle infrastrutture di base distrutte, afflitto da una paralisi amministrativa persistente e con una produzione petrolifera che solo ieri ha ripreso a esportare. Molti si erano già chiesti, d'altronde, come mai le sanzioni dell'Onu avessero tanto tardato a essere abolite visto che Saddam non c'è più e che l'Iraq non costituisce un pericolo se non per se stesso. La realtà è che il regime di sanzioni Onu "petrolio contro cibo" ha generato una serie di contratti assai vantaggiosi per alcuni paesi - Francia, Germania e Russia non a caso sono tra questi - che comunque vogliono ora essere pagati.
Il quesito principale è dunque: chi deciderà cosa fare dei ricavati del petrolio iracheno? L'esigenze sono molte: occorre sfamare gli iracheni, sia per ovvie ragioni umanitarie sia per altrettanto ovvie ragioni politiche. Poi occorre ricostruire quello che la guerra ha distrutto. Poi c'è il costo della guerra, che gli Stati Uniti hanno per così dire anticipato. La prima Guerra del Golfo fu in gran parte ripagata dall'Arabia Saudita ma difficilmente stavolta accadrà lo stesso. Poi ci sono i debiti fatti da Saddam nell'ultimo decennio: il conto non è facile, si parla di cento miliardi di dollari ma forse anche di più. E infine c'è la richiesta del Kuwait di indennizzo per la guerra del 1991 che ammonta a circa duecento miliardi di dollari.
Come si vede occorre estrarre molto petrolio per ripagare tutto questo. Vero è che le riserve sono grandi e che il petrolio dei pozzi iracheni è poco costoso. Ma allora si torna al quesito di partenza: chi ne deciderà l'utilizzo? E sarebbe opportuna intanto, una decisione di condonare i debiti? Com'è facile immaginare, i paesi che hanno meno crediti sono quelli che si mostrano più generosi.
In questo intrigo d'interessi i recenti atti di sabotaggio contro alcuni oleodotti sollevano nuovi interrogativi. Chi, e con quali obiettivi, li ha compiuti? L'annuncio di Bremer, oltre a costituire un gesto politico, indica una direttiva americana: per grandi che siano i debiti, dovranno essere gli iracheni stessi a gestire il loro petrolio e a ricavarne in parte i frutti. Tanto più che dire "gli iracheni" significa per qualche tempo ancora dire "gli americani".
L'obiettivo prioritario è stato evidentemente di dare un po' di speranza a un popolo che, se si trovava male sotto Saddam Hussein, non sta meglio adesso, in un paese dalle infrastrutture di base distrutte, afflitto da una paralisi amministrativa persistente e con una produzione petrolifera che solo ieri ha ripreso a esportare. Molti si erano già chiesti, d'altronde, come mai le sanzioni dell'Onu avessero tanto tardato a essere abolite visto che Saddam non c'è più e che l'Iraq non costituisce un pericolo se non per se stesso. La realtà è che il regime di sanzioni Onu "petrolio contro cibo" ha generato una serie di contratti assai vantaggiosi per alcuni paesi - Francia, Germania e Russia non a caso sono tra questi - che comunque vogliono ora essere pagati.
Il quesito principale è dunque: chi deciderà cosa fare dei ricavati del petrolio iracheno? L'esigenze sono molte: occorre sfamare gli iracheni, sia per ovvie ragioni umanitarie sia per altrettanto ovvie ragioni politiche. Poi occorre ricostruire quello che la guerra ha distrutto. Poi c'è il costo della guerra, che gli Stati Uniti hanno per così dire anticipato. La prima Guerra del Golfo fu in gran parte ripagata dall'Arabia Saudita ma difficilmente stavolta accadrà lo stesso. Poi ci sono i debiti fatti da Saddam nell'ultimo decennio: il conto non è facile, si parla di cento miliardi di dollari ma forse anche di più. E infine c'è la richiesta del Kuwait di indennizzo per la guerra del 1991 che ammonta a circa duecento miliardi di dollari.
Come si vede occorre estrarre molto petrolio per ripagare tutto questo. Vero è che le riserve sono grandi e che il petrolio dei pozzi iracheni è poco costoso. Ma allora si torna al quesito di partenza: chi ne deciderà l'utilizzo? E sarebbe opportuna intanto, una decisione di condonare i debiti? Com'è facile immaginare, i paesi che hanno meno crediti sono quelli che si mostrano più generosi.
In questo intrigo d'interessi i recenti atti di sabotaggio contro alcuni oleodotti sollevano nuovi interrogativi. Chi, e con quali obiettivi, li ha compiuti? L'annuncio di Bremer, oltre a costituire un gesto politico, indica una direttiva americana: per grandi che siano i debiti, dovranno essere gli iracheni stessi a gestire il loro petrolio e a ricavarne in parte i frutti. Tanto più che dire "gli iracheni" significa per qualche tempo ancora dire "gli americani".
Boris Biancheri
Boris Biancheri (1930-2011) è nato in Italia da padre ligure e da madre di origine russa. Ha girato il mondo e ha trascorso parte della vita in Grecia, Francia, Giappone, …