Rossana Campo: La cattiva coscienza dei tolleranti

21 Luglio 2003
Quella che sto per raccontarvi è un’altra storia di ordinaria città. E’ quasi mezzogiorno e siamo su un autobus superaffollato e ovviamente fa caldo e siamo tutti nervosi e impazienti. A un certo punto una frenata brusca. Qualche secondo dopo una ragazza che urla, poi altre urla che si aggiungono, più una fila di insulti e domande ansiose. Ma cos’è successo? Le hanno rubato il portafoglio... Hanno rubato la borsa a quella ragazza. Dopo, comincia il teatrino solito di facce incarognite con corredo di scambi di frasi fatte. Del tipo: ‟Eh! Dove andremo a finire!” Oppure: ‟Mah! Con tutti questi immigrati!”
Una signora aggiunge: ‟Io lo dico sempre, ognuno a casa sua e Dio per tutti”. E poi inizia il ping pong di sguardi. Persone incattivite cercano sguardi d’intesa, facce di presunti italiani che confermino: sì sì ha ragione, è proprio così. Non se ne può più. Dovrebbero starsene a casa loro!
Io di sguardi che trasmettono questi messaggi non ne dò. Me ne resto lì seduta, vagamente intristita e depressa. Me ne resto lì a odiare tutti i luoghi comuni e le parole stupide di questo mondo. Poi un ragazzo con gli occhi azzurri e la faccia rossa seduto vicino a me dice (con la voce che trema): ‟Perchè, di italiani ladri non ne esistono, vero signora?” A questo punto drizzo le orecchie. Un’altra donna dai capelli grigi aggiunge: ‟Giusto! ladri e immigrati, ecco cosa siamo noi italiani. A volte nella vita ci starebbe bene un po’ di tolleranza!”.
Rivolgo un sorriso riconoscente alla signora coi capelli grigi. Dopo, c’è questa parola che mi rimane in testa. Tolleranza. Anche se ho capito quello che la donna voleva dire mi dico che non basta. Mi dico che in fondo, finchè diciamo tolleranza e tollerare non possiamo fare davvero un grosso passo in avanti. La parola tolleranza porta con sé un senso di superiorità, come il sopportare il peso dell’altro, sopportare quello che ha di diverso da te facendo finta che non ti dia fastidio. Che non ti siano odiosi i suoi gusti diversi dai tuoi, la sua lingua e i suoi vestiti. Il colore della sua pelle. Anche se non sei simile a me io mi sforzo e ti tollero. In fondo, vuol dire che non mi piaci anzi mi infastidisci, ma invece che insultarti e aggredirti io mi giro dall’altra parte. Faccio finta di non vederti. Magari mi sforzo di essere buona, può darsi anche che mi piace pensarmi buona.
Quale parola mi piacerebbe allora, mi chiedo. Mi dico che forse empatia è più bella. Un po’ astratta forse, ma va già meglio. Accoglienza, allora. Perchè nell’accogliere non c’entra più il sentirmi buona né superiore. Nell’atto di apertura che la parola accogliere fa nascere io comprendo e rispetto davvero l’altro, l’altra. Mi metto in ascolto della sua storia, dei suoi disagi, delle ragioni per le quali qualcuno abbandona tutto, tenta di cambiare il corso della propria vita, di riprovarci. Forse, accogliere il dolore e la vita di qualcuno significa prestare ascolto anche al nostro disagio. E può darsi che il difficile da fare è proprio questo. Perchè ci viene più facile voltare le spalle alle nostre paure, alle incertezze e alle nostre ansie. Ci viene più facile fare finta che non ci siano, e tirare avanti così. E ogni tanto, quando se ne presenta l’occasione, l’acciuffiamo al volo per raccontarci che tutto sarebbe diverso, che tutto sarebbe migliore e più ordinato, e che noi potremmo percorrere la nostra vita con passo leggero, se solo non ci fosse lui, l’altro, quello che è la causa di tutti i nostri problemi.

Rossana Campo

Rossana Campo (Genova 1963) vive tra Roma e Parigi. Con Feltrinelli ha pubblicato: In principio erano le mutande (1992), da cui il film omonimo di Anna Negri (1999), alcuni racconti …