Edward W. Said: Una finestra sul mondo
26 Settembre 2003
Nove anni fa, nella primavera del 1994, ho scritto una
postfazione a Orientalismo in cui tentavo di chiarire quello che pensavo
di aver detto e non detto nel mio libro. In quella postfazione sottolineavo non
soltanto i molti dibattiti che si sono aperti a partire dal 1978, anno della
prima edizione del saggio, ma anche gli errori d’interpretazione sempre più
frequenti a cui si prestava quell’opera sulle rappresentazioni correnti
dell’‟Oriente”.
Il fatto che io oggi reagisca a queste interpretazioni con più ironia che irritazione rivela chiaramente fino a che punto sto cedendo all’incalzare dell’età. La recente scomparsa di due miei grandi mentori intellettuali, politici e personali gli scrittori e militanti Eqbal Ahmad e Ibrahim Abu-Lughod ha suscitato in me tristezza e senso di perdita, ma anche rassegnazione e una certa ostinata volontà di andare avanti.
Nel mio libro di memorie Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia (1999) descrivevo i mondi strani e contraddittori in cui sono cresciuto, e presentavo ai miei lettori e a me stesso una descrizione particolareggiata degli ambienti della Palestina, dell’Egitto e del Libano che hanno inciso sulla mia formazione. Ma quella era una descrizione molto personale, che si fermava prima degli anni del mio impegno politico, cominciato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.
Orientalismo è un libro molto legato alla dinamica tumultuosa della storia contemporanea. Nelle sue pagine sostengo che tanto il termine Oriente quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: entrambi sono opere dell’uomo, in parte come autoaffermazione, in parte come identificazione dell’Altro.
Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e all’organizzazione delle passioni collettive. Questo non è mai stato più evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell’odio, del disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza sentimenti che per la maggior parte hanno a che fare con l’islam e gli arabi da un lato, e ‟noi” occidentali dall’altro sono imprese su larga scala.
La prima pagina di Orientalismo si apre con una descrizione della guerra civile libanese. Quella guerra terminò nel 1990, ma le violenze e gli orrendi spargimenti di sangue proseguono tuttora. Abbiamo assistito al fallimento del processo di pace di Oslo, allo scoppio della seconda intifada e alle spaventose sofferenze inflitte ai palestinesi dalla nuova invasione della Cisgiordania e di Gaza.
Ha fatto la sua comparsa il fenomeno degli attentatori suicidi, con tutte le sue atroci manifestazioni, nessuna delle quali naturalmente è più ripugnante e apocalittica degli eventi dell’11 settembre 2001 con le loro conseguenze, le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. Mentre scrivo queste righe, prosegue l’occupazione illegale dell’Iraq da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, le cui conseguenze sono autenticamente preoccupanti. Tutto ciò fa parte di quello che viene definito uno scontro fra civiltà implacabile, irrimediabile, senza fine. Io invece non lo credo.
Il potere bruto
Vorrei poter affermare che negli Stati Uniti la comprensione generale del Medio Oriente, degli arabi e dell’islam è migliorata, ma purtroppo non è così. Per diverse ragioni in Europa la situazione sembra migliore. Negli Stati Uniti l’irrigidimento delle posizioni, la morsa sempre più stretta delle generalizzazioni svilenti e dei cliché trionfalistici, il dominio del potere bruto alleato con il disprezzo semplicistico per i dissidenti e gli ‟altri” ha trovato un degno correlativo nel saccheggio e nella distruzione delle biblioteche e dei musei iracheni.
I governanti americani e i loro lacchè intellettuali sembrano incapaci di capire che la storia non si può cancellare come una lavagna per permettere a ‟noi” di scrivere il nostro futuro, imporre le nostre forme di vita e pretendere che quei popoli inferiori le seguano. È abbastanza comune, a Washington e non solo, ascoltare importanti esponenti politici che parlano di ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente, come se antiche società e una miriade di popoli si potessero rimescolare come noccioline in un barattolo.
Ma questo è accaduto spesso con l’‟Oriente”, concetto semi-mitico che dopo l’invasione napoleonica dell’Egitto alla fine del diciottesimo secolo è stato fatto e rifatto innumerevoli volte dal potere che ha agito attraverso una forma di sapere, costruita appositamente, per affermare che questa è la natura dell’Oriente e che dobbiamo affrontarla di conseguenza. In questo processo gli innumerevoli sedimenti della storia una varietà vertiginosa di popoli, lingue, esperienze e culture vengono accantonati o ignorati, mandati al macero insieme ai tesori archeologici ridotti in frammenti e portati via dalle biblioteche e dai musei di Baghdad.
La mia tesi è che la storia è fatta da uomini e donne, e può essere disfatta e riscritta, sempre con omissioni e silenzi, sempre con forme imposte e distorsioni tollerate, in modo che il ‟nostro” est, il ‟nostro” Oriente diventi una cosa ‟nostra” che possiamo possedere e dirigere a piacimento. Nutro grande considerazione per la forza e il talento che i popoli di quella regione mostrano nel continuare a lottare per la loro idea di ciò che sono e vogliono essere.
L’attacco alle società arabe e musulmane contemporanee per la loro arretratezza, per la mancanza di democrazia e per la negazione dei diritti delle donne è stato talmente massiccio e aggressivo che abbiamo dimenticato una cosa semplice: i concetti di modernità, illuminismo e democrazia non sono così ovvi e condivisi. La disinvoltura sbalorditiva di certi giornalisti, i quali parlano in nome della politica estera senza avere la minima conoscenza della lingua realmente parlata dalla gente, ha creato dal nulla un paesaggio desertico su cui la potenza americana può costruire un finto modello di ‟democrazia” da libero mercato.
Ma c’è una differenza fra quella conoscenza di altri popoli e altri tempi che scaturisce dalla comprensione, dall’empatia, da uno studio e un’analisi attenti e condotti per amor di ricerca, e l’altra conoscenza, che s’inscrive in una campagna generale di autoaffermazione, belligeranza e guerra aperta.
Indubbiamente, una delle catastrofi intellettuali della storia è il fatto che un manipolo di politici americani non eletti abbia orchestrato una guerra imperialistica e l’abbia mossa contro una sconquassata dittatura da terzo mondo per motivi prettamente ideologici, legati al dominio del mondo, al controllo sulla sicurezza del pianeta e delle sue scarse risorse, ma mascherata nelle sue vere intenzioni, sollecitata e preparata da certi orientalisti che hanno tradito la propria vocazione di studiosi.
Gli esperti
Le persone che hanno più influito sul Pentagono e sul Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush sono stati personaggi come Bernard Lewis e Fouad Ajami, i due esperti del mondo arabo e islamico che hanno aiutato i falchi americani a pensare fenomeni ridicoli come la ‟mentalità araba” e l’ormai secolare declino dell’islam, che soltanto la potenza americana, secondo loro, può arrestare.
Oggi le librerie statunitensi sono piene di mediocri libercoli dai titoli allarmistici che parlano di islam e terrorismo, di minaccia araba e di pericolo musulmano, scritti da polemisti che fanno finta di avere una conoscenza mutuata da esperti che si spacciano per profondi conoscitori di quei bizzarri popoli orientali. La Cnn e la Fox tv, la miriade di commentatori evangelici e di destra ospitati da programmi radiofonici, innumerevoli tabloid e perfino riviste mediocri, hanno riciclato le stesse invenzioni non verificabili e le stesse grossolane generalizzazioni per aizzare l’‟America” contro il demone straniero.
Il nocciolo del dogma
La guerra contro l’Iraq non avrebbe avuto luogo se non fosse stata diffusa in modo organizzato l’idea che quelli laggiù non sono come ‟noi” e non condividono i ‟nostri” valori: insomma, senza il nocciolo stesso del dogma tradizionale dell’orientalismo.
I consiglieri americani del Pentagono e della Casa Bianca usano gli stessi cliché, gli stessi stereotipi denigratori, le stesse giustificazioni del potere e della violenza (in fin dei conti, dice il ritornello, l’unica cosa che quella gente capisce è il linguaggio della forza) che usavano gli studiosi reclutati dai conquistatori olandesi della Malesia e dell’Indonesia, dalle armate britanniche in India, in Mesopotamia, in Egitto e in Africa occidentale, dagli eserciti francesi in Indocina e in Nordafrica. Adesso, in Iraq, queste persone sono state affiancate da una schiera di ditte appaltatrici private e di zelanti imprenditori cui verrà affidato di tutto, dalla redazione dei libri di testo e della costituzione, alla riorganizzazione della vita politica dell’Iraq e alla privatizzazione della sua industria petrolifera.
Da sempre, nei discorsi ufficiali, ogni impero dichiara di non essere come gli altri, di nascere in condizioni particolari e di avere una missione: illuminare, civilizzare, portare ordine e democrazia. E da sempre sostiene di usare la forza soltanto come ultimo rimedio. Ma ancor più triste è vedere che c’è sempre un coro di volenterosi intellettuali pronti a presentare l’impero sotto una luce benevola o altruistica con parole tranquillizzanti.
Venticinque anni dopo la sua prima edizione, Orientalismo torna a sollevare la questione se l’imperialismo moderno sia mai finito, o se invece sia proseguito in Oriente dopo l’ingresso di Napoleone in Egitto due secoli fa. Arabi e musulmani si sono sentiti dire che fare le vittime e lagnarsi incessantemente delle depredazioni dell’impero non è che un modo per sottrarsi alle responsabilità del presente. ‟Avete sbagliato, avete fallito”, dice loro l’orientalista moderno. Sulla stessa linea si colloca il contributo letterario di V.S. Naipaul, il quale descrive le vittime dell’impero intente a lamentarsi mentre il loro paese va in malora.
Che superficialità nel valutare l’intrusione imperiale! E che scarso desiderio di tenere conto dell’interminabile successione di anni durante i quali l’impero continua a pesare sulla vita dei palestinesi, tanto per fare un esempio, oppure dei congolesi, degli algerini o degli iracheni.
Si pensi, invece, alla sequenza che ha inizio con Napoleone, continua con l’ascesa degli studi orientalistici e la conquista del Nordafrica, passa attraverso analoghe imprese in Vietnam, in Egitto, in Palestina e poi, per tutto il ventesimo secolo, prosegue nella lotta per il petrolio e il controllo strategico sul Golfo, l’Iraq, la Siria, la Palestina e l’Afghanistan. Si pensi inoltre all’ascesa dei nazionalismi anticoloniali per il breve periodo dell’indipendentismo liberale, all’era dei colpi di mano militari, delle insurrezioni, delle guerre civili, del fanatismo religioso, della lotta irrazionale e della brutalità senza mediazioni nei confronti dell’ennesimo branco di ‟indigeni”. Ognuna di queste epoche e di queste fasi produce una sua conoscenza distorta dell’altro; ognuna dà luogo a immagini riduttive, a polemiche litigiose.
In Orientalismo l’idea era usare la critica umanistica per ampliare il terreno dello scontro, per introdurre una sequenza di pensiero e di analisi più lunga, che potesse prendere il posto delle brevi raffiche di furia polemica in cui siamo ingabbiati, una furia che paralizza il pensiero. Quel che ho cercato di fare l’ho chiamato ‟umanesimo”, termine che continuo ostinatamente a usare malgrado l’atteggiamento sprezzante con cui lo liquidano i sofisticati critici postmoderni. Per ‟umanesimo” intendo innanzitutto il tentativo di sciogliere quelle che Blake definì poeticamente ‟le pastoie forgiate dalla mente”, cosicché si possa usare la propria mente in modo storico e razionale allo scopo di raggiungere una comprensione riflessiva.
Aggiungo che l’umanesimo affonda le radici nel senso di comunanza con altri interpreti e altre società e periodi, tanto che a rigor di termini l’umanista non può esistere nell’isolamento.
Il contesto della storia
È dunque corretto affermare che ogni sfera è legata all’altra e che nulla di quanto accade nel nostro mondo è mai isolato e immune da influssi esterni. Dobbiamo parlare dei problemi dell’ingiustizia e della sofferenza collocandoli nel più ampio contesto della storia, della cultura e della realtà socioeconomica. Ho trascorso gran parte della mia vita, in questi ultimi trentacinque anni, a sostenere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione nazionale, ma ho sempre tentato di farlo accordando piena attenzione alla realtà del popolo ebraico, delle persecuzioni e del genocidio che ha subìto.
La cosa importante è che la lotta per l’uguaglianza in Palestina/Israele deve tendere a una finalità umana, cioè la coesistenza, non l’ulteriore repressione e negazione.
In quanto umanista e studioso di letteratura, sono abbastanza anziano da aver ricevuto la mia formazione quarant’anni fa nel campo della letteratura comparata, le cui idee guida risalgono ad autori attivi in Germania fra la fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. Ma non si deve dimenticare lo straordinario contributo creativo di Giambattista Vico, il filosofo e filologo napoletano le cui idee anticiparono quelle di pensatori tedeschi come Herder e Wolf, seguiti poi da Goethe, Humboldt, Dilthey, Nietzsche, Gadamer e infine dai grandi filologi romanzi del ventesimo secolo, Erich Auerbach, Leo Spitzer ed Ernst Robert Curtius.
Ai giovani dell’attuale generazione, l’idea stessa di filologia suggerisce qualcosa di insopportabilmente antiquato e stantio. In realtà la filologia è la più fondamentale e creativa delle arti interpretative. Ai miei occhi è esemplificata nel modo più ammirevole dall’interesse che Goethe aveva in generale per l’islam e in particolare per Hafiz, il poeta sufico persiano del quattordicesimo secolo. Una passione che lo condusse a comporre il Westöstlicher Diwan e che incise sulle sue riflessioni sulla Weltliteratur (letteratura mondiale).
Goethe sosteneva che fosse possibile studiare tutte le letterature del mondo come un insieme sinfonico, leggibile sul piano teorico rispettando l’individualità di ciascuna opera senza perdere di vista l’insieme. È assai ironico dover constatare che, ora che questo nostro mondo globalizzato cancella gradualmente le distanze, stiamo forse avvicinandoci proprio a quella standardizzazione e a quell’uniformità che Goethe cercò di evitare con il suo pensiero.
È quanto affermava Erich Auerbach in un saggio pubblicato nel 1951 con il titolo Philologie der Weltliteratur. La sua grande opera Mimesis, pubblicata a Berna nel 1946 ma scritta durante la guerra, quando Auerbach era in esilio a Istanbul dove insegnava lingue romanze, doveva essere proprio una testimonianza della molteplicità e concretezza della realtà rappresentata nella letteratura occidentale da Omero a Virginia Woolf.
Tuttavia, a leggere il saggio del 1951, si avverte chiaramente che per il suo autore Mimesis era una vera e propria elegia scritta in onore di un’epoca in cui gli studiosi sapevano interpretare i testi in modo filologico, concreto, con sensibilità e intuito, usando l’erudizione e la loro eccellente padronanza di diverse lingue a sostegno di quella capacità di comprensione cui Goethe si richiamava nella sua analisi della letteratura islamica.
La lettura filologica
Una conoscenza delle lingue e della storia era necessaria ma non è mai stata sufficiente, così come la raccolta meccanica di fatti non avrebbe mai potuto costituire un metodo adeguato per cogliere il significato di un autore, poniamo, come Dante. Il requisito principale per quella lettura filologica che Auerbach e i suoi predecessori tentarono di mettere in pratica era infatti saper entrare in modo empatico, ma senza mai perdere la propria soggettività, nella vita di un testo scritto, esaminandolo dal punto di vista del suo tempo e del suo autore. Dunque, anziché accostarsi a tempi e culture diversi con senso di alienazione e di ostilità, la filologia applicata alla Weltliteratur richiedeva uno spirito profondamente umanistico da applicare con generosità e ospitalità. Solo così la mente dell’interprete può fare posto dentro di sé a un Altro estraneo. Quest’attività creativa, volta a far posto a opere estranee e distanti, è l’aspetto più importante della missione dell’interprete.
In Germania, inutile dirlo, l’avvento del nazionalsocialismo intervenne a delegittimare e distruggere tutto questo modo di pensare. Dopo la guerra, osserva Auerbach tristemente, la standardizzazione delle idee e la crescente specializzazione del sapere restrinsero gradualmente gli orizzonti di quel lavoro filologico investigativo e di quella ricerca incessante che egli aveva sostenuto. E il fatto ancor più deprimente è che dopo la sua morte, avvenuta nel 1957, l’idea e la pratica della ricerca umanistica hanno perso respiro e centralità. Anziché leggere nel vero senso della parola, i nostri studenti sono spesso distratti dal sapere frammentario disponibile su internet e dai mass media.
Ma c’è di peggio: l’istruzione è minacciata da ortodossie nazionalistiche e religiose spesso diffuse dai media, che puntano i riflettori in modo astorico e sensazionalistico sulle remote guerre elettroniche. Queste, mentre danno allo spettatore un senso di precisione chirurgica, in realtà oscurano le tremende sofferenze e devastazioni prodotte dalla guerra moderna. Nella loro demonizzazione di un nemico ignoto, etichettato come ‟terrorista” per mantenere l’opinione pubblica in stato di tensione rabbiosa, le immagini proposte dai mass media riscuotono un’attenzione eccessiva e si prestano a essere sfruttate in tempi di crisi e d’insicurezza come quelli del dopo 11 settembre.
Come americano e come arabo, devo chiedere al mio lettore di non sottovalutare la visione del mondo semplificata che l’élite relativamente esigua di civili che lavora al Pentagono ha elaborato e proposto come politica americana verso l’intero mondo arabo e musulmano. Una visione in cui il terrorismo, la guerra preventiva e i cambiamenti unilaterali di regime, sostenuti dal bilancio militare più gonfiato della storia, sono i concetti chiave discussi incessantemente da organi d’informazione che si attribuiscono la funzione di produrre cosiddetti ‟esperti”, i quali confermano la linea del governo.
La riflessione, il dibattito, l’argomentazione razionale e i principi morali fondati sul concetto laico secondo cui gli esseri umani devono plasmare da soli la loro storia sono stati sostituiti da idee astratte che celebrano l’eccezionalità americana e occidentale, sminuiscono l’importanza del contesto e guardano alle altre culture con disprezzo.
Mi si obietterà forse che stabilisco nessi troppo diretti fra interpretazione umanistica da una parte e politica estera dall’altra, e che una società tecnologica moderna, la quale oltre a un potere senza precedenti dispone di internet e degli aerei caccia F-16, deve essere comandata da temibili esperti tecnico-politici come Donald Rumsfeld e Richard Perle. Ma quel che si è perso davvero è il senso dello spessore e dell’interdipendenza della vita umana, che non si può né ridurre a una formuletta né liquidare come irrilevante.
Questo è solo un aspetto del dibattito globale. La situazione nei paesi arabi e musulmani non è certo migliore. Anzi, come ha osservato Roula Khalaf, giornalista del quotidiano britannico Financial Times, la regione è scivolata in un facile antiamericanismo che denota scarsa comprensione di che cosa sia davvero la società statunitense. Poiché i governi dei paesi arabi sono relativamente impotenti a influire sulla politica americana, usano le loro energie per reprimere e assoggettare i loro stessi popoli.
Risultato? Risentimento, rabbia e vane imprecazioni che nulla fanno per rendere più aperte quelle società dove la concezione laica della storia e dello sviluppo umano è stata scalzata dal fallimento e dalla frustrazione, ma anche da un islamismo fatto di apprendimento acritico dei testi e di cancellazione di forme di sapere secolare, considerate ‟altre” e concorrenziali. La graduale scomparsa della luminosa tradizione dell’ijtihad islamico, cioè del processo di elaborazione delle norme islamiche a partire dal Corano, è uno dei grandi disastri culturali del nostro tempo. Il risultato è che ogni pensiero critico e ogni tentativo individuale di affrontare seriamente i problemi del mondo moderno sono semplicemente tramontati.
Identità collettive
Con ciò non intendo certo dire che il mondo culturale sia semplicemente regredito da una parte a un orientalismo bellicoso, e dall’altra a un rifiuto indiscriminato. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite tenuto l’anno scorso a Johannesburg, con tutti i suoi limiti ha però rivelato un vasto terreno di interessi globali comuni, il che denota come fatto positivo l’emergere di una nuova collettività e conferisce nuova urgenza al concetto spesso banalizzato di mondo ‟unito”.
Ma tuttavia dobbiamo ammettere che nessuno può davvero conoscere l’unità straordinariamente complessa del nostro mondo globalizzato. I tremendi conflitti che sospingono le persone entro categorie falsamente unificanti come ‟America”, ‟Occidente” o ‟islam” e che inventano identità collettive a uso e consumo di vaste masse di individui in realtà molto diversi vanno contrastati. Per farlo disponiamo ancora delle capacità interpretative razionali che formano il retaggio dell’educazione umanistica, intese non come un pietismo sentimentale che c’imponga di tornare ai valori tradizionali o ai classici, bensì come pratica attiva di un discorso razionale, mondano e secolare.
Il mondo secolare è il mondo della storia così come la fanno gli esseri umani. Il pensiero critico non si assoggetta agli ordini di unirsi ai ranghi di chi marcia contro questo o quel nemico riconosciuto. Anziché a un artificioso scontro di civiltà, dobbiamo dedicare la nostra attenzione al lento e paziente lavoro comune delle culture che di volta in volta si sovrappongono, prendono in prestito le une dalle altre e coesistono.
Ma per raggiungere questa visione più ampia occorre tempo, occorre un’indagine paziente e scettica, sorretta dalla fede in comunità di interpretazione ben difficili da tener vive in un mondo che esige azioni e reazioni istantanee. La concezione umanistica si basa sul concetto di ruolo attivo del soggetto umano e della sua intuizione, anziché su luoghi comuni e autorità imposte dall’esterno. I testi vanno letti come prodotti che sono nati e continuano a vivere in mille modi che io ho definito mondani. Ma ciò non esclude affatto il potere. Al contrario, ho cercato di mostrare come il potere s’insinui persino nelle discipline più recondite e vi s’intrecci.
L’ultima cosa, ma non in ordine d’importanza, che vorrei dire è che l’umanesimo costituisce l’unica oserei dire anche la massima forma di resistenza contro le pratiche inumane e le ingiustizie che deturpano la storia dell’umanità.
Il fatto che io oggi reagisca a queste interpretazioni con più ironia che irritazione rivela chiaramente fino a che punto sto cedendo all’incalzare dell’età. La recente scomparsa di due miei grandi mentori intellettuali, politici e personali gli scrittori e militanti Eqbal Ahmad e Ibrahim Abu-Lughod ha suscitato in me tristezza e senso di perdita, ma anche rassegnazione e una certa ostinata volontà di andare avanti.
Nel mio libro di memorie Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia (1999) descrivevo i mondi strani e contraddittori in cui sono cresciuto, e presentavo ai miei lettori e a me stesso una descrizione particolareggiata degli ambienti della Palestina, dell’Egitto e del Libano che hanno inciso sulla mia formazione. Ma quella era una descrizione molto personale, che si fermava prima degli anni del mio impegno politico, cominciato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.
Orientalismo è un libro molto legato alla dinamica tumultuosa della storia contemporanea. Nelle sue pagine sostengo che tanto il termine Oriente quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: entrambi sono opere dell’uomo, in parte come autoaffermazione, in parte come identificazione dell’Altro.
Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e all’organizzazione delle passioni collettive. Questo non è mai stato più evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell’odio, del disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza sentimenti che per la maggior parte hanno a che fare con l’islam e gli arabi da un lato, e ‟noi” occidentali dall’altro sono imprese su larga scala.
La prima pagina di Orientalismo si apre con una descrizione della guerra civile libanese. Quella guerra terminò nel 1990, ma le violenze e gli orrendi spargimenti di sangue proseguono tuttora. Abbiamo assistito al fallimento del processo di pace di Oslo, allo scoppio della seconda intifada e alle spaventose sofferenze inflitte ai palestinesi dalla nuova invasione della Cisgiordania e di Gaza.
Ha fatto la sua comparsa il fenomeno degli attentatori suicidi, con tutte le sue atroci manifestazioni, nessuna delle quali naturalmente è più ripugnante e apocalittica degli eventi dell’11 settembre 2001 con le loro conseguenze, le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. Mentre scrivo queste righe, prosegue l’occupazione illegale dell’Iraq da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, le cui conseguenze sono autenticamente preoccupanti. Tutto ciò fa parte di quello che viene definito uno scontro fra civiltà implacabile, irrimediabile, senza fine. Io invece non lo credo.
Il potere bruto
Vorrei poter affermare che negli Stati Uniti la comprensione generale del Medio Oriente, degli arabi e dell’islam è migliorata, ma purtroppo non è così. Per diverse ragioni in Europa la situazione sembra migliore. Negli Stati Uniti l’irrigidimento delle posizioni, la morsa sempre più stretta delle generalizzazioni svilenti e dei cliché trionfalistici, il dominio del potere bruto alleato con il disprezzo semplicistico per i dissidenti e gli ‟altri” ha trovato un degno correlativo nel saccheggio e nella distruzione delle biblioteche e dei musei iracheni.
I governanti americani e i loro lacchè intellettuali sembrano incapaci di capire che la storia non si può cancellare come una lavagna per permettere a ‟noi” di scrivere il nostro futuro, imporre le nostre forme di vita e pretendere che quei popoli inferiori le seguano. È abbastanza comune, a Washington e non solo, ascoltare importanti esponenti politici che parlano di ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente, come se antiche società e una miriade di popoli si potessero rimescolare come noccioline in un barattolo.
Ma questo è accaduto spesso con l’‟Oriente”, concetto semi-mitico che dopo l’invasione napoleonica dell’Egitto alla fine del diciottesimo secolo è stato fatto e rifatto innumerevoli volte dal potere che ha agito attraverso una forma di sapere, costruita appositamente, per affermare che questa è la natura dell’Oriente e che dobbiamo affrontarla di conseguenza. In questo processo gli innumerevoli sedimenti della storia una varietà vertiginosa di popoli, lingue, esperienze e culture vengono accantonati o ignorati, mandati al macero insieme ai tesori archeologici ridotti in frammenti e portati via dalle biblioteche e dai musei di Baghdad.
La mia tesi è che la storia è fatta da uomini e donne, e può essere disfatta e riscritta, sempre con omissioni e silenzi, sempre con forme imposte e distorsioni tollerate, in modo che il ‟nostro” est, il ‟nostro” Oriente diventi una cosa ‟nostra” che possiamo possedere e dirigere a piacimento. Nutro grande considerazione per la forza e il talento che i popoli di quella regione mostrano nel continuare a lottare per la loro idea di ciò che sono e vogliono essere.
L’attacco alle società arabe e musulmane contemporanee per la loro arretratezza, per la mancanza di democrazia e per la negazione dei diritti delle donne è stato talmente massiccio e aggressivo che abbiamo dimenticato una cosa semplice: i concetti di modernità, illuminismo e democrazia non sono così ovvi e condivisi. La disinvoltura sbalorditiva di certi giornalisti, i quali parlano in nome della politica estera senza avere la minima conoscenza della lingua realmente parlata dalla gente, ha creato dal nulla un paesaggio desertico su cui la potenza americana può costruire un finto modello di ‟democrazia” da libero mercato.
Ma c’è una differenza fra quella conoscenza di altri popoli e altri tempi che scaturisce dalla comprensione, dall’empatia, da uno studio e un’analisi attenti e condotti per amor di ricerca, e l’altra conoscenza, che s’inscrive in una campagna generale di autoaffermazione, belligeranza e guerra aperta.
Indubbiamente, una delle catastrofi intellettuali della storia è il fatto che un manipolo di politici americani non eletti abbia orchestrato una guerra imperialistica e l’abbia mossa contro una sconquassata dittatura da terzo mondo per motivi prettamente ideologici, legati al dominio del mondo, al controllo sulla sicurezza del pianeta e delle sue scarse risorse, ma mascherata nelle sue vere intenzioni, sollecitata e preparata da certi orientalisti che hanno tradito la propria vocazione di studiosi.
Gli esperti
Le persone che hanno più influito sul Pentagono e sul Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush sono stati personaggi come Bernard Lewis e Fouad Ajami, i due esperti del mondo arabo e islamico che hanno aiutato i falchi americani a pensare fenomeni ridicoli come la ‟mentalità araba” e l’ormai secolare declino dell’islam, che soltanto la potenza americana, secondo loro, può arrestare.
Oggi le librerie statunitensi sono piene di mediocri libercoli dai titoli allarmistici che parlano di islam e terrorismo, di minaccia araba e di pericolo musulmano, scritti da polemisti che fanno finta di avere una conoscenza mutuata da esperti che si spacciano per profondi conoscitori di quei bizzarri popoli orientali. La Cnn e la Fox tv, la miriade di commentatori evangelici e di destra ospitati da programmi radiofonici, innumerevoli tabloid e perfino riviste mediocri, hanno riciclato le stesse invenzioni non verificabili e le stesse grossolane generalizzazioni per aizzare l’‟America” contro il demone straniero.
Il nocciolo del dogma
La guerra contro l’Iraq non avrebbe avuto luogo se non fosse stata diffusa in modo organizzato l’idea che quelli laggiù non sono come ‟noi” e non condividono i ‟nostri” valori: insomma, senza il nocciolo stesso del dogma tradizionale dell’orientalismo.
I consiglieri americani del Pentagono e della Casa Bianca usano gli stessi cliché, gli stessi stereotipi denigratori, le stesse giustificazioni del potere e della violenza (in fin dei conti, dice il ritornello, l’unica cosa che quella gente capisce è il linguaggio della forza) che usavano gli studiosi reclutati dai conquistatori olandesi della Malesia e dell’Indonesia, dalle armate britanniche in India, in Mesopotamia, in Egitto e in Africa occidentale, dagli eserciti francesi in Indocina e in Nordafrica. Adesso, in Iraq, queste persone sono state affiancate da una schiera di ditte appaltatrici private e di zelanti imprenditori cui verrà affidato di tutto, dalla redazione dei libri di testo e della costituzione, alla riorganizzazione della vita politica dell’Iraq e alla privatizzazione della sua industria petrolifera.
Da sempre, nei discorsi ufficiali, ogni impero dichiara di non essere come gli altri, di nascere in condizioni particolari e di avere una missione: illuminare, civilizzare, portare ordine e democrazia. E da sempre sostiene di usare la forza soltanto come ultimo rimedio. Ma ancor più triste è vedere che c’è sempre un coro di volenterosi intellettuali pronti a presentare l’impero sotto una luce benevola o altruistica con parole tranquillizzanti.
Venticinque anni dopo la sua prima edizione, Orientalismo torna a sollevare la questione se l’imperialismo moderno sia mai finito, o se invece sia proseguito in Oriente dopo l’ingresso di Napoleone in Egitto due secoli fa. Arabi e musulmani si sono sentiti dire che fare le vittime e lagnarsi incessantemente delle depredazioni dell’impero non è che un modo per sottrarsi alle responsabilità del presente. ‟Avete sbagliato, avete fallito”, dice loro l’orientalista moderno. Sulla stessa linea si colloca il contributo letterario di V.S. Naipaul, il quale descrive le vittime dell’impero intente a lamentarsi mentre il loro paese va in malora.
Che superficialità nel valutare l’intrusione imperiale! E che scarso desiderio di tenere conto dell’interminabile successione di anni durante i quali l’impero continua a pesare sulla vita dei palestinesi, tanto per fare un esempio, oppure dei congolesi, degli algerini o degli iracheni.
Si pensi, invece, alla sequenza che ha inizio con Napoleone, continua con l’ascesa degli studi orientalistici e la conquista del Nordafrica, passa attraverso analoghe imprese in Vietnam, in Egitto, in Palestina e poi, per tutto il ventesimo secolo, prosegue nella lotta per il petrolio e il controllo strategico sul Golfo, l’Iraq, la Siria, la Palestina e l’Afghanistan. Si pensi inoltre all’ascesa dei nazionalismi anticoloniali per il breve periodo dell’indipendentismo liberale, all’era dei colpi di mano militari, delle insurrezioni, delle guerre civili, del fanatismo religioso, della lotta irrazionale e della brutalità senza mediazioni nei confronti dell’ennesimo branco di ‟indigeni”. Ognuna di queste epoche e di queste fasi produce una sua conoscenza distorta dell’altro; ognuna dà luogo a immagini riduttive, a polemiche litigiose.
In Orientalismo l’idea era usare la critica umanistica per ampliare il terreno dello scontro, per introdurre una sequenza di pensiero e di analisi più lunga, che potesse prendere il posto delle brevi raffiche di furia polemica in cui siamo ingabbiati, una furia che paralizza il pensiero. Quel che ho cercato di fare l’ho chiamato ‟umanesimo”, termine che continuo ostinatamente a usare malgrado l’atteggiamento sprezzante con cui lo liquidano i sofisticati critici postmoderni. Per ‟umanesimo” intendo innanzitutto il tentativo di sciogliere quelle che Blake definì poeticamente ‟le pastoie forgiate dalla mente”, cosicché si possa usare la propria mente in modo storico e razionale allo scopo di raggiungere una comprensione riflessiva.
Aggiungo che l’umanesimo affonda le radici nel senso di comunanza con altri interpreti e altre società e periodi, tanto che a rigor di termini l’umanista non può esistere nell’isolamento.
Il contesto della storia
È dunque corretto affermare che ogni sfera è legata all’altra e che nulla di quanto accade nel nostro mondo è mai isolato e immune da influssi esterni. Dobbiamo parlare dei problemi dell’ingiustizia e della sofferenza collocandoli nel più ampio contesto della storia, della cultura e della realtà socioeconomica. Ho trascorso gran parte della mia vita, in questi ultimi trentacinque anni, a sostenere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione nazionale, ma ho sempre tentato di farlo accordando piena attenzione alla realtà del popolo ebraico, delle persecuzioni e del genocidio che ha subìto.
La cosa importante è che la lotta per l’uguaglianza in Palestina/Israele deve tendere a una finalità umana, cioè la coesistenza, non l’ulteriore repressione e negazione.
In quanto umanista e studioso di letteratura, sono abbastanza anziano da aver ricevuto la mia formazione quarant’anni fa nel campo della letteratura comparata, le cui idee guida risalgono ad autori attivi in Germania fra la fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. Ma non si deve dimenticare lo straordinario contributo creativo di Giambattista Vico, il filosofo e filologo napoletano le cui idee anticiparono quelle di pensatori tedeschi come Herder e Wolf, seguiti poi da Goethe, Humboldt, Dilthey, Nietzsche, Gadamer e infine dai grandi filologi romanzi del ventesimo secolo, Erich Auerbach, Leo Spitzer ed Ernst Robert Curtius.
Ai giovani dell’attuale generazione, l’idea stessa di filologia suggerisce qualcosa di insopportabilmente antiquato e stantio. In realtà la filologia è la più fondamentale e creativa delle arti interpretative. Ai miei occhi è esemplificata nel modo più ammirevole dall’interesse che Goethe aveva in generale per l’islam e in particolare per Hafiz, il poeta sufico persiano del quattordicesimo secolo. Una passione che lo condusse a comporre il Westöstlicher Diwan e che incise sulle sue riflessioni sulla Weltliteratur (letteratura mondiale).
Goethe sosteneva che fosse possibile studiare tutte le letterature del mondo come un insieme sinfonico, leggibile sul piano teorico rispettando l’individualità di ciascuna opera senza perdere di vista l’insieme. È assai ironico dover constatare che, ora che questo nostro mondo globalizzato cancella gradualmente le distanze, stiamo forse avvicinandoci proprio a quella standardizzazione e a quell’uniformità che Goethe cercò di evitare con il suo pensiero.
È quanto affermava Erich Auerbach in un saggio pubblicato nel 1951 con il titolo Philologie der Weltliteratur. La sua grande opera Mimesis, pubblicata a Berna nel 1946 ma scritta durante la guerra, quando Auerbach era in esilio a Istanbul dove insegnava lingue romanze, doveva essere proprio una testimonianza della molteplicità e concretezza della realtà rappresentata nella letteratura occidentale da Omero a Virginia Woolf.
Tuttavia, a leggere il saggio del 1951, si avverte chiaramente che per il suo autore Mimesis era una vera e propria elegia scritta in onore di un’epoca in cui gli studiosi sapevano interpretare i testi in modo filologico, concreto, con sensibilità e intuito, usando l’erudizione e la loro eccellente padronanza di diverse lingue a sostegno di quella capacità di comprensione cui Goethe si richiamava nella sua analisi della letteratura islamica.
La lettura filologica
Una conoscenza delle lingue e della storia era necessaria ma non è mai stata sufficiente, così come la raccolta meccanica di fatti non avrebbe mai potuto costituire un metodo adeguato per cogliere il significato di un autore, poniamo, come Dante. Il requisito principale per quella lettura filologica che Auerbach e i suoi predecessori tentarono di mettere in pratica era infatti saper entrare in modo empatico, ma senza mai perdere la propria soggettività, nella vita di un testo scritto, esaminandolo dal punto di vista del suo tempo e del suo autore. Dunque, anziché accostarsi a tempi e culture diversi con senso di alienazione e di ostilità, la filologia applicata alla Weltliteratur richiedeva uno spirito profondamente umanistico da applicare con generosità e ospitalità. Solo così la mente dell’interprete può fare posto dentro di sé a un Altro estraneo. Quest’attività creativa, volta a far posto a opere estranee e distanti, è l’aspetto più importante della missione dell’interprete.
In Germania, inutile dirlo, l’avvento del nazionalsocialismo intervenne a delegittimare e distruggere tutto questo modo di pensare. Dopo la guerra, osserva Auerbach tristemente, la standardizzazione delle idee e la crescente specializzazione del sapere restrinsero gradualmente gli orizzonti di quel lavoro filologico investigativo e di quella ricerca incessante che egli aveva sostenuto. E il fatto ancor più deprimente è che dopo la sua morte, avvenuta nel 1957, l’idea e la pratica della ricerca umanistica hanno perso respiro e centralità. Anziché leggere nel vero senso della parola, i nostri studenti sono spesso distratti dal sapere frammentario disponibile su internet e dai mass media.
Ma c’è di peggio: l’istruzione è minacciata da ortodossie nazionalistiche e religiose spesso diffuse dai media, che puntano i riflettori in modo astorico e sensazionalistico sulle remote guerre elettroniche. Queste, mentre danno allo spettatore un senso di precisione chirurgica, in realtà oscurano le tremende sofferenze e devastazioni prodotte dalla guerra moderna. Nella loro demonizzazione di un nemico ignoto, etichettato come ‟terrorista” per mantenere l’opinione pubblica in stato di tensione rabbiosa, le immagini proposte dai mass media riscuotono un’attenzione eccessiva e si prestano a essere sfruttate in tempi di crisi e d’insicurezza come quelli del dopo 11 settembre.
Come americano e come arabo, devo chiedere al mio lettore di non sottovalutare la visione del mondo semplificata che l’élite relativamente esigua di civili che lavora al Pentagono ha elaborato e proposto come politica americana verso l’intero mondo arabo e musulmano. Una visione in cui il terrorismo, la guerra preventiva e i cambiamenti unilaterali di regime, sostenuti dal bilancio militare più gonfiato della storia, sono i concetti chiave discussi incessantemente da organi d’informazione che si attribuiscono la funzione di produrre cosiddetti ‟esperti”, i quali confermano la linea del governo.
La riflessione, il dibattito, l’argomentazione razionale e i principi morali fondati sul concetto laico secondo cui gli esseri umani devono plasmare da soli la loro storia sono stati sostituiti da idee astratte che celebrano l’eccezionalità americana e occidentale, sminuiscono l’importanza del contesto e guardano alle altre culture con disprezzo.
Mi si obietterà forse che stabilisco nessi troppo diretti fra interpretazione umanistica da una parte e politica estera dall’altra, e che una società tecnologica moderna, la quale oltre a un potere senza precedenti dispone di internet e degli aerei caccia F-16, deve essere comandata da temibili esperti tecnico-politici come Donald Rumsfeld e Richard Perle. Ma quel che si è perso davvero è il senso dello spessore e dell’interdipendenza della vita umana, che non si può né ridurre a una formuletta né liquidare come irrilevante.
Questo è solo un aspetto del dibattito globale. La situazione nei paesi arabi e musulmani non è certo migliore. Anzi, come ha osservato Roula Khalaf, giornalista del quotidiano britannico Financial Times, la regione è scivolata in un facile antiamericanismo che denota scarsa comprensione di che cosa sia davvero la società statunitense. Poiché i governi dei paesi arabi sono relativamente impotenti a influire sulla politica americana, usano le loro energie per reprimere e assoggettare i loro stessi popoli.
Risultato? Risentimento, rabbia e vane imprecazioni che nulla fanno per rendere più aperte quelle società dove la concezione laica della storia e dello sviluppo umano è stata scalzata dal fallimento e dalla frustrazione, ma anche da un islamismo fatto di apprendimento acritico dei testi e di cancellazione di forme di sapere secolare, considerate ‟altre” e concorrenziali. La graduale scomparsa della luminosa tradizione dell’ijtihad islamico, cioè del processo di elaborazione delle norme islamiche a partire dal Corano, è uno dei grandi disastri culturali del nostro tempo. Il risultato è che ogni pensiero critico e ogni tentativo individuale di affrontare seriamente i problemi del mondo moderno sono semplicemente tramontati.
Identità collettive
Con ciò non intendo certo dire che il mondo culturale sia semplicemente regredito da una parte a un orientalismo bellicoso, e dall’altra a un rifiuto indiscriminato. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite tenuto l’anno scorso a Johannesburg, con tutti i suoi limiti ha però rivelato un vasto terreno di interessi globali comuni, il che denota come fatto positivo l’emergere di una nuova collettività e conferisce nuova urgenza al concetto spesso banalizzato di mondo ‟unito”.
Ma tuttavia dobbiamo ammettere che nessuno può davvero conoscere l’unità straordinariamente complessa del nostro mondo globalizzato. I tremendi conflitti che sospingono le persone entro categorie falsamente unificanti come ‟America”, ‟Occidente” o ‟islam” e che inventano identità collettive a uso e consumo di vaste masse di individui in realtà molto diversi vanno contrastati. Per farlo disponiamo ancora delle capacità interpretative razionali che formano il retaggio dell’educazione umanistica, intese non come un pietismo sentimentale che c’imponga di tornare ai valori tradizionali o ai classici, bensì come pratica attiva di un discorso razionale, mondano e secolare.
Il mondo secolare è il mondo della storia così come la fanno gli esseri umani. Il pensiero critico non si assoggetta agli ordini di unirsi ai ranghi di chi marcia contro questo o quel nemico riconosciuto. Anziché a un artificioso scontro di civiltà, dobbiamo dedicare la nostra attenzione al lento e paziente lavoro comune delle culture che di volta in volta si sovrappongono, prendono in prestito le une dalle altre e coesistono.
Ma per raggiungere questa visione più ampia occorre tempo, occorre un’indagine paziente e scettica, sorretta dalla fede in comunità di interpretazione ben difficili da tener vive in un mondo che esige azioni e reazioni istantanee. La concezione umanistica si basa sul concetto di ruolo attivo del soggetto umano e della sua intuizione, anziché su luoghi comuni e autorità imposte dall’esterno. I testi vanno letti come prodotti che sono nati e continuano a vivere in mille modi che io ho definito mondani. Ma ciò non esclude affatto il potere. Al contrario, ho cercato di mostrare come il potere s’insinui persino nelle discipline più recondite e vi s’intrecci.
L’ultima cosa, ma non in ordine d’importanza, che vorrei dire è che l’umanesimo costituisce l’unica oserei dire anche la massima forma di resistenza contro le pratiche inumane e le ingiustizie che deturpano la storia dell’umanità.
Edward W. Said
Edward W. Said è nato nel 1935 a Gerusalemme ed è morto a New York il 25 settembre 2003. Esiliato da adolescente in Egitto e poi negli Stati Uniti, è …