Paolo Rumiz: In fondo al lago che non c´è più

08 Ottobre 2003
"Ascolta, è il Vajont che si scava la strada". Albeggia, l´uomo fiuta la nebbia come un lupo, mastica un sigaro, ascolta il silenzio della sua valle. Ha bandana, canotta nera, capelli e barba grigio ferro. E´ lui, Mauro Corona, classe 1950, l´uomo che parla con gli alberi. Alpinista narratore, scultore su legno. Superstite-ribelle dell´onda del 9 ottobre ´63.
"La senti?". Si drizza dalla balaustra davanti alla bottega, cerca qualcosa nel buio, qualcosa sotto il paese, oltre la chiesa delle Anime. E´ un mormorio che arriva dal profondo del bosco. La voce del Vajont, 40 anni dopo. L´acqua che si portò via duemila persone con la forza di due bombe nucleari. Oggi è un rigagnolo, un sussurro nelle ghiaie.
Scendiamo verso il lago che non c´è, siamo due palombari nei fondali del tempo. Mauro, che è sempre svelto come una donnola, oggi ha movimenti lenti, quasi fluttua nella foschia. Forse è colpa del vino. Ieri ha bevuto troppo, stamattina s´è sparato un intruglio di acqua e fernet per riaversi dalla ciocca. Ma forse è un´altra cosa. La maledetta linea d´ombra che deve passare.
Erto vecchia, limite del mondo di ieri. Qui il tempo s´è fermato, tutto ha più di quarant´anni. Miracolata dall´onda che passò poco più a Est, oggi è intatta e deserta, uno straordinario monumento alla montagna che fu. La abitano gli ultimi mohicani, quelli che rifiutano il cemento del paese nuovo, la sua illuminazione da stadio, la chiesa-astronave.
In basso, due latrine abbandonate. Mauro ghigna: "Ce le diede l´Enel, dopo averci espropriato di tutto. Gli ingegneri pensarono: cosa possiamo dare a 'sti poveri bifolchi? E ci diedero i cessi. Me lo ricordo bene, li inaugurarono col taglio del nastro. Ecco quanto contava la montagna".
Passiamo la vecchia linea di battigia, l´altro mondo comincia e il tempo finisce. Qui è il contrario di Erto vecchia. Nulla ha più di quarant´anni. Niente. Alberi, ciottoli, sentieri. Persino la nebbia. Non esisteva, prima che la frana imprigionasse l´umidità bloccando la ventilazione in fondovalle.
"Venite, venite qua dove la montagna urla vendetta!". Corona non ne può più di rievocazioni, sparerebbe a mezzibusti e talk show. Qua dovete venire, a cercare i morti insepolti. Centottanta furono, nella sola Erto. "Aleggiano... è come non fossero mai morti, la notte ti tirano i piedi come i rimorsi".
E proprio allora, dal buio, arriva un lamento soprannaturale, cupo come un corno tibetano. Un altro gli risponde, riempie l´anfiteatro. Mauro sorride. "Sono i cervi in amore" sibila, e negli occhi rivedi il lampo del bracconiere. "I maschi che segnano il territorio". Ecco, la forza della natura già annega gli incubi.
L´acqua chiama ancora. "La senti come torna a cantare? Per secoli è stata la ninna nanna degli ertani". Usciamo all´aperto, in una spianata di ghiaie lunari. Dappertutto orme di cervi. Non è ancora la frana; è solo il sudario che la copre. Le ghiaie sono venute dopo l´onda, portate dai torrenti senza più deflusso. Salite di cento metri, due e mezzo all´anno.
Prima del lago, qui c´era una forra. In fondo vi confluivano tre torrenti. Intorno, un universo. A destra i mulini, a sinistra le segherie. "Lì era la casa di mio nonno, là quella di Cate, lì c´erano gli Scarpa". L´uomo disegna a memoria la geografia delle cose perdute. "Lì i Ninin, la Dina, i Pierin. E poi i Menolin, le Spesse. E la casa dei Paul, omoni dalla forza leggendaria. Uno di loro lottò con un orso a una fiera in Carinzia. E vinse".
Riprende il passo veloce da talibano, non si lascia depistare degli echi, trova il fianco della montagna, entra in un labirinto di rocce deformi. Gobbe, pinnacoli, mascelle. Urla: "L´acqua! Ecco l´acqua!". E già si arrampica oltre le cascate, nella forra che è solo l´anticamera di dieci, selvaggi chilometri verso gli strapiombi del Col Nudo. La valle alta del Vajont. Un pianeta sigillato dal mondo.
Un colpo di vento, la nebbia va via, il primo sole svela la topografia della devastazione. Sopra di noi, trenta metri più in alto, il moncone di un ponte che non c´è, i ferri da trenta millimetri artigliati al calcestruzzo e piegati come burro. Per gli ertani era il ponte di Tharentòn. Ponte del frastuono, per via dei massi che cadevano dalle pareti.
Saliamo con una corda fissa verso uno spalto di roccia. La periferia della frana è lì, si impenna verso il passo di Sant´Osvaldo. Non è scesa dall´alto ma è esplosa dal basso, dopo aver pattinato sull´acqua, spinta dall´onda con la forza di mille treni. Tutte le frane del Vajont sono frane contronatura. In salita.
Di nuovo lo stradone, poi i resti dell´osteria del Meneghin. "Qui mi fermavo con mio nonno – racconta Mauro - ci scolavamo due quarti di rosso". Subito sotto, le fondamenta della chiesa medievale di San Martino. Spazzata via "e mai risarcita dall´Enel", leggi sul cartello che la indica.
Ormai lo vedi bene, il Leviatano. Sta oltre le ghiaie e i boschi color ruggine, oltre ciò che resta del lago, ridotto a un abbeveratoio di cervi e camosci. Duecentosessanta milioni di metri cubi di terra e roccia, la frana più grande del mondo in epoca storica. 2500 metri in lunghezza, quattrocento in altezza. Centocinquanta metri più in basso, la diga è un pigmeo.
Saliamo sulla schiena del gigante con Italo Filippin, il guardiacaccia che fu sindaco negli anni clandestini, quando la gente tornò a casa contro l´ordinanza di sgombero, contro l´Enel, contro i Carabinieri, contro il mondo. E visse vent´anni senza nemmeno la corrente elettrica solo perché non voleva morire in pianura, baraccata e assistita.
Oltre una foresta di larici, faggi, aceri e abeti rossi, la cima. Lì tutto è visibile. Sopra, il piano inclinato a forma di "emme" dove il Monte Toc mollò gli ormeggi in una fredda notte di luna. Smerigliato, minerale, lucido e terribile. Sotto, il segno dell´onda che si divise in tre. Una parte verso la diga, il Veneto e Longarone. Una verso Casso, dove l´acqua sovrastò il paese ma ricadde all´indietro non si sa come.
Mimetizzati nel bosco, sulla cima, gli unici superstiti del Toc. Larici. I più grandi. Una decina appena. Scivolarono per mille metri, caddero storti, ma rinsaldarono le radici e ripresero a crescere in verticale in mezzo alla devastazione. Oggi, quella commovente curva del tronco verso il cielo vale più di cento, mille lezioni di botanica.
Mauro accarezza i patriarchi. "Guarda come torna la foresta, è la natura che si vergogna di noi!". E scopri che il viaggio nella morte è già un viaggio nella vita che ricomincia. In basso, tra le due montagne di terra, una zona umida, dove i cervi vanno a rotolarsi nel fango per togliersi i parassiti. E poi anatre, camosci, passeracei di ogni tipo.
Da lontano arriva il rumore delle Pantere. Sono auto blu e carabinieri sulla strada, in fibrillazione per l´arrivo di Ciampi e il monumento da inaugurare. Filippin sorride: "Il vero monumento è questo, la frana". Ha ragione. Le lapidi sono una tomba della memoria. La frana no, la tiene aperta. Forse per questo nessuno se ne occupa. Ed è uno scandalo che su questo posto unico al mondo non vi sia un percorso didattico, un cartello, niente.
Tramonta, verso la diga il cielo sfiata vapori arancione. Sembra un fossile, ma non è affatto così. L´Enel la tiene in esercizio. E´ pronta a usarla di nuovo appena il ricordo dei morti scotterà un po´ meno. Corona: "Basta premere un bottone e aprire le paratie". L´invaso è ormai ridotto a un terzo della capienza originaria, ma fa nulla. Nell´anno dei black out c´è fame di energia. E ogni goccia che arriva al mare senza passare per una turbina, di questi tempi è uno spreco.
Ormai è notte, la notte della memoria. Se non c´era l´attore Marco Paolini a tirare fuori questa storia con la sua orazione civile, la notte sarebbe stata ancora più buia. Ma se l´Italia dimentica, l´Enel invece ricorda tutto, e il Vajont ne è l´esempio più sublime. La sua acqua c´è ancora nel bilancio idrico nazionale. Come se non fosse accaduto niente.
Si inaugurano monumenti alle vittime dell´onda assassina, ma quei 150 milioni di metri cubi servono ancora. Sono il lago di carta che giustifica la devastazione del Piave, disidratato dalle sorgenti alla foce e ridotto a un mare di ghiaie che oggi, in caso di grandi piogge, è sempre a rischio alluvione. No, il Vajont non è servito a niente.
Per colmare la perdita del bacino più grande del Veneto, hanno saccheggiato il Fiume Sacro della Patria, lo hanno salassato con un reticolo pazzesco di prese, condotte e dighe, rilasciato concessioni per ogni tipo di prelievi. E spinto al massimo, proprio qui, la privatizzazione della risorsa pubblica più strategica del Paese.
E´ notte, torniamo a Erto. Mauro riapre la sua bottega profumata di pino cembro, vedo che ha le mani nere. Non di carbone, ma del tannino delle "cùcole", le noci che ha raccolto arrampicandosi su un albero di trenta metri. Si siede in fondo alla tana, accende la stufa, spazza via il temperamatite, la carta assorbente, le penne, la lente. Apre i quadernoni di appunti. Parla di questa sua montagna che non è stata solo usurpata, ma si è lasciata anche usurpare.
"Qui hanno subìto tutto: gli espropri, i progetti, la diga, l´alluvione, la morte, la pietà, i risarcimenti, poi la rapina dei miliardi da parte della pianura, poi la ricostruzione, ora le celebrazioni. E oggi c´è chi scopre l´industria del dolore, il mestiere del superstite". Le statue di legno sembrano muoversi nel buio. Fuori s´è levata la Luna.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …