Paolo Di Stefano: Il derby. Quando la battaglia dello striscione libera la fantasia

14 Ottobre 2003
«I cugini dei campioni siete voi», recita impietoso lo striscione milanista. E c’è poco da dire. Quella interista è ormai un’attesa che il tempo ha reso metafisica, l’attesa di un ritorno ai gloriosi anni Sessanta. La si respira tra le parole dei tifosi che aspettano di salire verso la curva, nostalgia di un’epoca che potrebbe tornare da un momento all’altro, ma che per ora rimane acquattata nella memoria dei fedelissimi. Se è vero, come diceva il vecchio Brera, che il calcio è un mistero agonistico, non si può negare che spesso e volentieri si tratta anche di un mistero della psiche. Specie quando è colorato di nerazzurro. Il derby poi è un mistero al quadrato o al cubo, fate voi. Mistero gaudioso o doloroso, a seconda. Quella nerazzurra è una nostalgia che non contiene una durezza proporzionata alle delusioni accumulate negli anni, ma conserva la malinconia del ricordo. Infatti, lo striscione che apre la serata interista rammenta, ironia della sorte, «i numeri della storia», accompagnati da un gioco di luci che proiettano sul prato le fotografie dei giocatori, da Toldo a Okan, mentre i fari si attenuano fino a spegnersi quasi a sottolineare l’attesa. Gioco che si ripete durante l’intervallo, con cuori interisti, palloni e facce che girano sul campo tra luci soffuse, musiche rimbombanti e i fischi della curva cugina. Buon viso a cattivo gioco (di luci), quello interista. Perché più che la musica e le allegrie illusorie, quel che conta è l’attesa. Metafisica. Lo sanno bene anche i rossoneri, che non provano certo pietà per quelli che chiamano i «parenti perdenti»: «Noi realizziamo i vostri sogni», e via di questo passo, ignorando gli scherzi che potrebbe, un giorno, giocare la Nemesi. «In vino Vieritas» scherza un cartellone. La «vierità» ti fa male? Stasera fa peggio l’«inzaghità», non c’è dubbio. La «maldinità» più della «toldità», la «kakità» più della «zanettità». L’attesa metafisica è Maurizio, un tifoso interista, cuscinetto sottobraccio, che prima dell’inizio proclama: «Sarà la serata di Recoba, me lo sento». Ma anche della «recobità» non ci saranno notizie. L’attesa è Renato, sulla quarantina, che voltandosi verso suo figlio dice parole di saggezza antica: «L’Inter è un allenamento alla vita, i tuoi figli soffrono, ma si temprano e vengono su bene, guardi il mio...». Il ragazzo sembra crederci, infagottato nella sua sciarpa nerazzurra. Non sa ancora che anche questa serata sarà un bell’allenamento alla vita. Non lo sanno neanche i quattro anziani che urlano davanti ai cancelli la loro attesa, più disperata che malinconica: «Quel pirla qua non ci ha fatto vincere ancora un solo scontro diretto...». La «cuperità» fa male solo ai nerazzurri, tutt’al più, faticosamente, al Siena o al Modena, ma non al Milan. «Di riffa o di raffa, sem rivà secondi...», è la difesa gracchiante e consolatoria. «Te set propri un cucù» è la risposta secca, che non sembra ammettere repliche. Infatti il primo non replica e sparisce limitandosi a borbottare tra sé, senza crederci troppo: «Di balle ne ho già sentite abbastanza». Farà appena in tempo a leggere l’ennesima beffa distesa sulla curva delle Brigate rossonere: «Noi campioni, voi inter... detti». L’attesa che torni un derby d’altri tempi, un derby come Dio comanda, durerà solo 36 minuti. Arriverà quel misero golletto di Pippo a lacerare il velo sottile della metafisica e a scoprire le magagne della realtà più becera e irridente. Come i canti che si innalzano dalla Fossa dei Leoni, inneggianti alla bruta «gattusità» di una vita che, almeno per il momento, non conosce né l’attesa né, tanto meno, la metafisica.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …