Giulietto Chiesa: La resa dei conti tra Putin e oligarchi
03 Novembre 2003
Le ultime nuove da una Mosca tornata ad essere improvvisamente luogo di possenti scontri «sotto il tappeto» dicono che siamo nel bel mezzo della prima, vera resa dei conti tra Vladimir Putin e gli oligarchi. Mikhail Khodorkovskij in galera, l'uomo più ricco della Russia, padrone del quarto gigante petrolifero mondiale Yukos-Sibneft, insieme con il numero uno della sua banca, Menatep, Platon Lebedev. Ma ecco che «si dimette», forse per protesta, Aleksandr Voloshin, capo dell'amministrazione presidenziale. E questa è già una terna di eccezionale valore. Perché Voloshin è uomo della «Famiglia», rimasto a presidiare (all'ombra di Putin, ma non precisamente sotto il suo comando) uno dei centri fondamentali del potere russo, dove non passava foglio, nomina, decisione, senza che «Sasha» comunicasse al vecchio Boris, e filtrasse a suo piacimento. Ma la terna è diventata ieri quaterna. Anatolij Ciubais, ex primo ministro e poi oligarca per nomina statale, alla testa dell'ultimo o penultimo gigante (a partecipazione) statale, la Rao-Ees (cioè l'impresa che raccoglie tutta la produzione elettrica della Russia e molte altre cose), Ciubais, si diceva, esce allo scoperto e invita Voloshin a diventare presidente del Consiglio di amministrazione del suo feudo. In altri termini anche Ciubais sfida Vladimir Putin. E la danza diventa frenetica. Cosa faranno gli altri oligarchi? Risponderanno all'appello di Khodorkovskij, Ciubais e Voloshin? Impossibile saperlo, per ora. Ma fin d'ora si può dire che il destino di Putin è sotto minaccia. Anche la strada su cui s'incamminerà la Russia è sotto un punto interrogativo. La Borsa registra subito l'inquietudine, quella dei circoli oligarchici e quella dei circoli imprenditoriali stranieri che hanno investito in Russia. E crolla del 12%. Ma per essere inquieti o tranquilli occorre prima capire. E la prima cosa che viene da suggerire è: guardarsi dagli stereotipi. Che sono già belli e pronti, com'è avvenuto molte volte dalla fine dell'Urss a oggi. Questo non è uno scontro tra liberal e Kgb. E quindi non è uno scontro tra «democratici» e «autoritari». Il termine democratici, in Russia ha perduto da tempo ogni significato. Se è vero, com'è vero, che Khodorkovskij, per avviare la sua fulminea (sperata) ascesa politica si è comprato due giornali, uno filo-americano (Moskovskie Novosti) e l'altro nazional-patriottico-leggermente antisemita (Zavtra) di quell'ultra comunista di Aleksandr Prokhanov, insieme con un pezzo di partito liberal Jabloko e un pezzo di partito comunista. Sull'altro fronte, quello che a Mosca chiamano lo schieramento dei «siloviki» (gli uomini della forza), tutti provengono dagli ex Servizi, ma non ne troveresti uno solo, neanche a pagarlo a peso d'oro, intenzionato a restaurare alcunchè. La differenza - a parole - è tra sostenitori dell'interesse nazionale russo e sostenitori del mercato. In realtà è tra chi difende il potere politico che ha ricevuto in regalo, e chi difende la ricchezza che ha avuto in regalo, diventando «miliardario per decreto, dalla sera al mattino» (parola di Putin). Il fatto è che i due gruppi contendenti vengono da una stessa radice. Putin e Khodorkovskij sono entrambi figli di Eltsin, con diverse origini e carriere. Se Putin è divenuto Presidente è perché «Famiglia» e oligarchi insieme decisero, nell'estate del 1999, che lui era il candidato più sicuro, o meno rischioso. A suggellare il patto, non scritto, furono lasciati tre «testimoni». Uno era Voloshin, rimasto a presidiare l'amministrazione presidenziale; l'altro è Mikhail Kasianov, capo del governo. Il terzo era appunto Anatolij Ciubais, messo alla testa del gigante energetico. E il dato di fondo è che Khodorkovskij ha rotto quel patto, cioè ha smesso di accontentarsi degli otto miliardi di dollari della sua proprietà personale, ricevuti in regalo dalla «Famiglia», e ha preteso di invadere il campo della politica, rompendo così l'equilibrio che durava da circa tre anni. Putin, a sua volta, aveva promesso di non rivedere i risultati della privatizzazione e di non toccare gli oligarchi, così come aveva garantito alla «Famiglia» averi e tranquillità. Ma, in cambio, esigeva che gli altri restassero nei loro recinti, senza troppo disturbare. Adesso due dei testimoni sono scesi in campo a fianco di Khodorkovskij. Del terzo, probabilmente, vedremo i destini nei prossimi giorni, o mesi. Certo è che il premier Kasianov sa molte cose, degli uni e degli altri. Era lui il viceministro delle Finanze nel 1998, colui che personalmente era stato incaricato di gestire la tranche di 4,7 miliardi di dollari che il Fondo Monetario Internazionale di Camdessus aveva «prestato» alla Russia. Quei 4,7 miliardi di dollari non arrivarono mai nel Paese e vennero distribuiti (attraverso complicati giri bancari, tutti in Occidente) tra le banche russe, tutte in fallimento, dopo il default dell'agosto 1998. Si tratta forse del più gigantesco furto della storia. Con chi si schiererà il terzo «testimone»? Vedremo. Ma sarà meglio lasciare da parte ogni illusione che ciò cui assistiamo sia il redde rationem tra «buoni» e «cattivi». Sfortunatamente non ci sono «buoni» in questa storia, che è il frutto marcio e lontano dell'illusione (occidentale, ma condivisa dall'intellighencija russa) che la demolizione a tappe forzate dello Stato sovietico avrebbe condotto in breve tempo alla creazione di un sistema democratico e di un'economia di mercato. Non ne è venuta fuori una democrazia, e non c'è traccia di una vera economia di mercato. O, per meglio dire, c'è l'economia della Enron Corp. di Kenneth Lay. Cioè il peggio del peggiore modello del capitalismo occidentale. Così sarebbe andata a fondo l'America, figurarsi la Russia.
Giulietto Chiesa
Giulietto Chiesa (1940) è giornalista e politico. Corrispondente per “La Stampa” da Mosca per molti anni, ha sempre unito nei suoi reportage una forte tensione civile e un rigoroso scrupolo …