Lorenzo Cremonesi: Bremer: "La battaglia della pace è vinta nel novanta per cento dell'Iraq"
20 Novembre 2003
BAGDAD - Paul Bremer, dai primi di maggio governatore della Coalition Provisional Authority (Cpa) incaricata dall' amministrazione americana di traghettare l' Iraq verso l' autogoverno, ci ha ricevuti ieri mattina per circa un' ora nel suo ufficio. Diplomatico in pensione, ex ambasciatore per l' antiterrorismo della segreteria di Stato Usa dal 1986 al 1989, a 61 anni si trova ora a svolgere il lavoro più difficile della sua carriera: in trincea contro gli attentati, ma anche quotidianamente alle prese con la ricostruzione di un Paese schiacciato da anni di dittatura e lacerato da divisioni antiche. Ambasciatore, ha già avuto modo di capire se la mano che ha colpito a Nassiriya è la stessa che ha guidato i kamikaze contro il quartier generale dell' Onu, quello della Croce Rossa e le ambasciate a Bagdad quest' estate? «L' attentato di Nassiriya contro i carabinieri è opera di professionisti. Mi ricorda quelli contro le ambasciate Usa in Africa orientale negli anni Novanta. E ciò suggerisce possa trattarsi di militanti di Al Qaeda, oppure di iracheni legati all' ex regime che hanno studiato le tecniche e il modus operandi di Al Qaeda. Ma dobbiamo ancora confrontare i tipi di esplosivi, automezzi e detonatori. E' troppo presto per fare collegamenti». Specie dopo l' attentato alla Croce Rossa, non ha mai pensato che anche il contingente italiano potesse essere un obiettivo? «Certo, era scoccato l' allarme rosso per tutti. Non so nello specifico cosa avessero fatto i carabinieri. Ma nessuno del contingente internazionale poteva più farsi illusioni, nessuno poteva ritenersi immune dal terrorismo. Tutti diventavano obiettivi potenziali. Non stava agli americani di suggerire ai militari italiani come difendersi. Ciascun contingente militare è responsabile per se stesso». E' possibile aspirare a svolgere una missione umanitaria di pace in un Paese che si è chiaramente dimostrato essere in una situazione di guerra? «Sì penso sia possibile. E voglio ringraziare il primo ministro Silvio Berlusconi per le sue dichiarazioni di fermezza a favore del proseguimento della missione italiana. Berlusconi ribadisce ciò che sostengo da sempre: il terrorismo si può battere solo se non sottostiamo al suo ricatto e continuiamo sulla nostra strada. L' importante è non arrendersi, non farsi intimidire. Come Cpa abbiamo già completato quindicimila progetti nel Paese, molti nella regione di Nassiriya. E quasi il 90 per cento dell' Iraq è tranquillo, normalizzato, in pace. In più, ancora a giugno avevamo promesso che avremmo ridato a Bagdad entro il primo ottobre gli stessi quantitativi di energia elettrica del pre-guerra. E così è stato». Però gli italiani effettuano missioni molto particolari tra la popolazione. Per esempio, come si potrà continuare a censire e difendere i siti archeologici se si sarà ossessionati dal problema sicurezza per i soldati? «Si può fare, certo con attenzione. Le nostre truppe proteggono Babilonia e difendono l' antica città di Niniveh dai tombaroli. Nessuno pensa di lasciare». Torniamo al problema terrorismo. Cosa ci può dire della presenza di Al Qaeda in Iraq? «Le nostre truppe hanno arrestato una ventina di persone che riteniamo siano legate agli estremisti islamici di Al Qaeda e forse di Ansar al Islam. In tutto valutiamo al momento vi siano nel Paese qualche centinaio di terroristi professionisti venuti dall' estero, addestrati in Afghanistan, in Sudan e Iran. Una parte era qui già prima della guerra, alcuni sono mercenari, altri volontari. A loro si sono aggiunti gli infiltrati da aprile ad oggi lungo i confini aperti con la Siria, l' Iran e l' Arabia Saudita. Si tratta per lo più di yemeniti, siriani, sudanesi, sauditi». Tra loro ci sono anche occidentali, come venne scoperto al tempo della guerra in Afghanistan? «No. Quest' estate era stata avanzata l' ipotesi che tre o quattro cittadini inglesi e americani fermati dai nostri soldati alla macchia in Iraq fossero terroristi. Ma poi abbiamo scoperto che erano criminali comuni». Sino a poco fa lei insisteva perché il Consiglio provvisorio iracheno presentasse il progetto di nuova Costituzione entro la metà di dicembre per poter arrivare alle elezioni nazionali, quindi a un governo legittimo prima della fine del 2004, e terminare al più presto questa fase di incertezza. Ora propone invece di ritardare il processo con l' idea di una Costituzione ad interim promulgata nel giugno prossimo da un governo provvisorio che rinvierà le elezioni alla fine del 2005. Non è un fallimento? «Non è un fallimento perché stiamo adattandoci alle esigenze espresse dal Consiglio di governo iracheno. Al suo interno soprattutto gli sciiti guidati dall' ayatollah Alì Sistani vogliono che l' assemblea costituzionale sia a sua volta eletta. Con la loro logica un governo legittimato dalle elezioni avrebbe preso almeno due anni e mezzo. Noi allora abbiamo insistito per creare una prima struttura costituzionale, che, pur se provvisoria, durerà almeno due anni. Ciò permetterà di nominare un governo ad interim a metà 2004. Intanto la nuova Costituzione porrà le basi di una moderna democrazia con la separazione dei poteri, una magistratura indipendente, un esecutivo in grado di funzionare». Ma sono in molti a sostenere che lei non è per nulla contento del Consiglio di governo iracheno, che pure ha scelto lo scorso 13 luglio. Gli iracheni dicono che i suoi componenti sono sempre all' estero, hanno paura di essere assassinati, sono latitanti. «Un mese fa ho voluto incontrare i suoi membri per dire loro che dovevano essere molto più efficienti. Mi sembrava che non fossero in grado di prendere decisioni, non fossero coordinati a sufficienza. Ora mi sembra si siano meglio organizzati. La situazione migliora di giorno in giorno. Li ho anche condotti sulla scena di alcuni tra i peggiori attentati per incoraggiare la popolazione. E li ho convinti a recarsi meno all' estero». In Europa sono molti a mettere in dubbio che si possa imporre dall' alto un sistema democratico su un Paese dove manca una società civile in senso occidentale. «Io ho una stima molto più alta degli iracheni che non larga parte degli europei. Da maggio ad oggi sono stati aperti oltre 200 giornali liberi di scrivere ciò che vogliono. I sondaggi dimostrano che qui la gente dà credito all' importanza della libertà di discussione, delle donne e soprattutto di religione. Anche a Nassiriya ho visto risultati molto interessanti. Intanto ogni mese nascono nuovi partiti, nuove associazioni: stiamo creando le basi della futura società civile irachena». Ma ci sono forti tensioni: per esempio i curdi chiedono uno Stato federale, alcuni tra gli sciiti vorrebbero invece una forte centralizzazione dove loro faranno la parte del leone. «La grande maggioranza degli iracheni vuole la decentralizzazione. E io lavoro in questo senso. Più avanti si dibatterà se è meglio il modello di Costituzione tedesca, svizzera, americana o altro. L' importante è che lo Stato federale impedirà il ritorno della dittatura». Cosa risponde alle parole di Marco Calamai, il funzionario italiano del Cpa a Nassiriya, che si è dimesso dopo l' attentato? Vi accusa di essere inefficienti, troppo burocratizzati, incapaci di uscire dall' impasse del dopoguerra. «Non so davvero di cosa parli. Calamai dice che non sappiamo come gestire i 400 mila dollari stanziati mensilmente per la regione di Nassiriya? Ma se, carte alla mano, posso dimostrargli che da maggio a oggi solo in quell' area abbiamo speso oltre 20 milioni di dollari! Dice che ci vorrebbe l' Onu? Beh lo vorremmo anche noi. Ma sono stati loro a scappare dall' Iraq, rifiutando la nostra protezione. Due settimane fa a Madrid ho incontrato Kofi Annan cercando di convincerlo a tornare. Anche se, bisogna dirlo, l' Onu non è certo un modello di efficienza, risparmio e dinamismo. Rifiuto in modo categorico l' accusa per cui noi americani isoleremmo gli altri 17 gruppi nazionali che lavorano con noi». E l' accusa per cui voi americani siete bravi a fare la guerra, ma non la pace? «Nel Cpa lavorano 3.700 civili. E tutti hanno modo di dire la loro. Anche se è vero che il comando Usa ha oltre 130.000 soldati in Iraq. Ma tra loro ci sono anche un mucchio di riservisti che da civili svolgono lavori normalissimi e contribuiscono con la loro esperienza a ricostruire l' Iraq. Guardo all' esempio di un nostro colonnello dei marines, che negli Stati Uniti è preside di un liceo. Ora è dislocato non lontano da Nassiriya e in pochi mesi ha contribuito alla ristrutturazione di 86 scuole». La nuova offensiva militare americana nel Paese mira anche a Saddam? «Il centro delle operazioni è a Tikrit, ma non sappiamo se Saddam sia nell' area. In verità non è chiaro dove si trovi. Sappiamo che non ha un vero controllo attivo delle operazioni dei guerriglieri. Però resta un simbolo per tutti coloro che vorrebbero il ritorno della dittatura. Se riuscissimo ad ucciderlo, molti estremisti perderebbero la voglia di combattere».
Lorenzo Cremonesi
Lorenzo Cremonesi (Milano, 1957), giornalista, segue dagli anni settanta le vicende mediorientali. Dal 1984 collaboratore e corrispondente da Gerusalemme del “Corriere della Sera”, a partire dal 1991 ha avuto modo …