Marcello Cini intervistato da Marco D'Eramo: Alla svolta di una avventura
02 Febbraio 2004
Un incontro con Marcello Cini a mo' di bilancio di una stagione che sta
abbandonando i suoi paradigmi scientifici. "Quando ero un ragazzo la fisica
era l'utopia della conoscenza, della razionalizzazione. E il comunismo
prefigurava una società di uguali, di felici, di persone capaci di esprimersi
compiutamente. In fondo queste due utopie le ho ancora. Come provo ancora
curiosità per le infinite manifestazioni del pensiero"
A Marcello Cini il premio Nonino 2004 in quanto "maestro del pensiero italiano". Per me Cini è stato maestro non solo nel solo in senso generico, ossia in quanto pensatore che ha introdotto il concetto di "non neutralità della scienza" e in quanto scienziato politicamente impegnato, ma in un senso più concreto: è stato, infatti, mio professore di fisica quantistica, è stato l'unico docente a interloquire con noi nel '68, mi ha fatto fare la tesi nel suo gruppo di fisica teorica e, dopo la laurea, mi ha fatto entrare come borsista all'Istituto Enrico Fermi; non solo, ma è stato uno dei fondatori del giornale, il manifesto, per cui lavoro e che ora state leggendo. Cogliamo l'occasione del premio per tracciare insieme una sorta di bilancio di tutto quel che è cambiato da quando, era il 1976, uscì per Feltrinelli L'ape e l'architetto, che Cini scrisse insieme a Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Gianni Jona-Lasinio. Il libro fece epoca, ruppe la tirannia che positivismo e scientismo esercitavano sul discorso relativo alla scienza e ne rese evidente la non neutralità quando in gioco è non soltanto la scelta dell'oggetto della ricerca, ma anche le categorie concettuali con cui interpretare il mondo.
Oggi il termine "neutralità della scienza" è quasi scomparso dalla circolazione.
Mi pare caduto in disuso anche perché basta aprire i giornali per accorgersi che si è diffusa l'idea per cui sembra sia la società a stimolare nuove conoscenze scientifiche, indirizzandole in una direzione piuttosto che in un'altra. Certo, è più sofisticato andare a guardare in che modo gli strumenti concettuali scientifici hanno radici nel contesto sociale. Le stesse categorie con cui s'interpreta il mondo sono storicamente determinate.
Alan Sokal ha fatto tutto un numero contro questa idea.
Certo, questa idea è riconosciuta più nella cultura generale che non tra gli scienziati, i quali si battono ancora come leoni per negare la storicità delle categorie scientifiche. Tutt'al più possono riconoscere che ci sono finanziamenti maggiori o minori per certi settori piuttosto che per altri. Perché gli scienziati hanno bisogno che sia riconosciuto uno status speciale delle verità della scienza: verità che devono essere svincolate dalla contingenza.
Come mai tutta la filosofia della scienza - da Karl Popper a Imre Lakatos, a Thomas Kuhn a Paul Feyerabend, compresa la stesura dell'Ape e l'architetto, si è concentrata tra gli anni `50 e fine anni `70, mentre poi sembra che questa produzione si sia esaurita?
Perché molte idee della filosofia della scienza sono ormai acquisite. Un filosofo che pretendesse di andare in cattedra ripetendo quelle cose, difficilmente sarebbe riconosciuto come pensatore. Ma forse io sono troppo ottimista. Forse quelle idee semplicemente sono dimenticate.
Di solito la storia non risolve i problemi, li accantona, non sapremo mai se avevano ragione i guelfi o i ghibellini...
Sì, forse i problemi si accantonano e poi bisogna ricominciare da capo a riscoprirli o a ripeterli. Ma lo stesso Paolo Rossi che - a proposito dell'Ape e l'architetto - negli anni `70 ci chiamava con spregio "epistemologi della domenica", dilettanti sprovveduti, credo che oggi sia disposto a concedere molto su questo terreno. Senza parlare dei post-moderni, dei Richard Rorty, che sono odiati da scienziati come Sokal. Ma mi sembra che nella filosofia della scienza sia ormai riconosciuto il fatto che le categorie scientifiche nascono da un tessuto culturale più vasto di una data epoca. È solo il realismo ingenuo degli scienziati a resistere, nella concezione astorica della scienza.
Forse ha influito anche lo spostamento del paradigma scientifico, da un paradigma fisico-matematico a un paradigma biologico.
Non c'è dubbio, il modello di scienza non è più la fisica, che è stata detronizzata. Vi sono due livelli: da un lato la storicità della natura, l'evoluzione del sistema solare, l'evoluzione della vita, l'evoluzione delle civiltà. Il pensiero evoluzionista è diventato comune alla maggioranza delle discipline. Per fare una battuta, nell'interpretazione della natura il pensiero eracliteo è diventato dominante rispetto al pensiero parmenideo. Dall'altro lato, a livello della conoscenza, le stesse categorie d'intepretazione di questa natura storica sono anch'esse storiche. Il pensiero che s'impone è quello biologico-evolutivo. La fisica è stata la disciplina che ha permesso di conoscere e dominare la materia inerte: questo capitolo è quasi concluso. Si fanno speculazioni sulla cosmologia, però diventa sempre più inverificabile. Anche le teorie del tutto, come le stringhe, stanno diventando una specie di metafisica. La grande rottura sta, invece, nel fatto che è cominciata l'avventura della conoscenza della vita e della mente umana. E nessuno si sogna di pensare alle leggi della mente umana come alle equazioni di Maxwell. Nessuno ricerca "l'equazione del cervello". L'oggetto stesso della scienza è mutato. Seguendo Gregory Bateson, c'è una gerarchia anche ontologica che separa gli organismi viventi. I linguaggi necessari a descrivere i diversi livelli di organizzazione della materia non sono riducibili l'uno all'altro. Non ha senso spiegare le proprietà delle proteine, del Dna, con le equazioni degli atomi che le compongono. I linguaggi devono tenere conto della natura sempre più complessa di questi livelli.
Negli anni `80 si è fatto un gran parlare di complessità, a proposito e a sproposito. È stata anche usata come una sorta di giustificazione per il disimpegno politico: poiché la società è complessa non c'è più lotta tra classi.
È un termine ambiguo che, anche in ambito scientifico, ha significati diversi a seconda delle discipline: la complessità algoritmica della matematica ha un significato preciso e non ha nulla a che vedere con la complessità del cervello umano o con la complessità delle strutture frattali, per non parlare poi della complessità della società. Il termine "complessità" va usato a proposito. Quel che indica, però, è il predominare del processo di scambio di informazioni tra le parti di un sistema, per tenere insieme quel sistema. La circolazione dell'informazione è il collante che tiene insieme un sistema complesso. Il che non accade in un sistema "complicato", anche se vi avvengono retroazioni, sistemi di autocorrezione.
C'è un lato paradossale: gli scientisti hanno sempre paragonato la natura o la società al prodotto tecnologico più avanzato di quell'epoca. Nel `700 la natura era paragonata a un orologio; nell'800 la società era paragonata a un treno ("la locomotiva del progresso"). Oggi, in fondo, il termine "società complessa" non fa altro che usare per la società la metafora del computer, il nostro prodotto tecnologico più avanzato.
Anche la mente umana è stata paragonata a un computer. Ma l'idea che la mente funzioni come un computer è sempre più criticata. Di recente proprio sul manifesto c'è stata una discussione sul cognitivismo. Ma anche lì, i neurofisiologi più avanzati, da Jean-Pierre Changeux ad Antonio Damasio, insistono sulla commistione intima del cervello con il corpo, per cui diventa fondamentale il peso dell'interazioni tra corpo e cervello anche nelle funzioni puramente cognitive dell'uomo. Un computer senza muscoli e senza pancia...
Ricordi il dissenso tra Anassagora e Aritostotele? Anassagora diceva che l'uomo è uomo perché ha le mani, mentre per Aristotele l'uomo è uomo perché ha la ragione.
I riferimenti al passato si ripresentano sempre. Se leggi Damasio, aveva torto Cartesio e aveva ragione Spinoza. E a dirlo è un neurofisiologo hard.
Molte persone, anche colte, diffidano della conoscenza del corpo umano offerta dalla scienza occidentale, si affidano alla medicina cinese, a quella ayurvedica, all'omeopatia. C'è forse anche un aspetto di superstizione, ma se uno dovesse prenderle almeno in parte sul serio, dovrebbe porsi il problema dei diversi piani di realtà. Capire quali potrebbero essere le interazioni fra queste conoscenze e queste realtà.
Un esempio clamoroso è quello di Francisco Varela, uno scienziato di fama internazionale, che ha seriamente considerato l'importanza delle filosofie orientali come ponte tra l'esperienza vissuta in prima persona, emotiva, di autocoscienza, di percezione di quel che Bateson chiamerebbe il sacro, e la descrizione dall'esterno di queste esperienze che fornisce la scienza. Questa differenza è tipica della fenomenologia, da Edmund Husserl a Paul Ricoeur: lo si vede nel dialogo tra Changeux e Ricoeur che tentano di trovare un elemento comune e non ci riescono. L'unico terreno comune lo trovano nel ricollegarsi all'evoluzione, evoluzione della mente umana, del modo di percepire e conoscere. C'è una differenza ontologica tra spiegare e ricostruire dall'esterno la correlazione tra emozioni e funzionamento di certi organismi e il fatto di vivere le emozioni. Insomma, non tutta la realtà è ricostruibile e rappresentabile attraverso forme di conoscenza - che chiamiamo scienza - basate, per dirla con Galileo, su "sensate esperienze e certe dimostrazioni".
A proposito di "sensate esperienze", uno dei dogmi della scienza era la ripetibilità degli esperimenti. Ora invece per ragioni diverse, gli esperimenti sono sempre meno ripetibili. Intanto per il costo: quando un esperimento costa all'incirca 9.000 miliardi di euro (tanto richiede l'ultimo acceleratore progettato), ripetere indipendentemente l'esperimento vorrebbe dire spendere altrettanto. E poi, molti particolari degli esperimenti sono tenuti segreti, o per ragioni militari o, soprattutto nella ricerca biologica, per questioni di brevetto. Insomma la verificabilità o falsificabilità, tanto cara a Popper, è diventata del tutto aleatoria.
Siamo sempre legati alle tradizioni. Gli scienziati, Antonino Zichichi in testa, si proclamano eredi di Galielo, ma è pura giaculatoria. È come la ricerca genealogica delle famiglie nobili che fa risalire l'ascendenza alle crociate: è oziosa, perché oggi non si usano le mazze ferrate come alle crociate. Gli scienziati (tra cui molti miei autorevoli colleghi) che hanno firmato il manifesto "Galileo 2001", si richiamano a Galileo per dire che gli ambientalisti inventano fandonie e sono terroristi, ma questo è come andare in guerra con le mazze ferrate.
La fine della ripetibilità degli esperimenti fa parte di una tendenza più generale che John Horgan ha chiamato - in un libro dall'omonimo titolo - La fine della scienza.
Io non sono d'accordo con la tesi della fine della scienza. Mi vengono in mente i libri di Pino Longo, per esempio l'ultimo, Il simbionte, o Il nuovo golem. Mi piacciono molto, lui mi piace anche come romanziere, l'ho anche recensito sul manifesto. Però abbiamo due idee della scienza un po' diverse. Se si identifica la scienza con le sue definizioni classiche, è vero, non c'è più scienza. Quel che sostengono in parte Galimberti e in parte Pino Longo è che la macchina ha preso il sopravvento, che c'è una dinamica di espansione e sviluppo incontrollato delle macchine. E perciò non c'è più scienza, ma tecnologia che si autoriproduce, in cui gli uomini diventano strumenti delle macchine. Quindi non si può più parlare di conoscenza della natura, perché non c'è più natura. Gli entusiasti del progresso ribattono che è da quando è stata inventata l'agricoltura che la natura è artificiale. Ma ci sono le discontinuità, da questo punto di vista hanno ragione Steven Jay Gould e Niles Eldredge con la teoria degli equilibri punteggiati nell'evoluzione. Ogni scalino porta a un'artificializzazione crescente del mondo, che si accompagna però a una divaricazione tra chi è intriso, travolto da questo meccanismo e chi sta ancora al medio evo. Io ho ottant'anni e apprezzo di avere una protesi nell'anca, il cristallino nuovo e farmaci che mi fanno andare avanti, non lo nego; ma nel Terzo mondo la speranza di vita è ancora di quarant'anni. E se va avanti così, rischia di esplodere tutto.
Come se ne esce?
Finora non abbiamo parlato del mercato, ma se vai a grattare, il nodo del problema è che sotto sotto c'è la riduzione di tutto a merce. Il capitalismo è nato per trasformare in merce i beni materiali, cioè quelle cose che se le consumo io, non le consumi tu, e viceversa. Adesso siamo a una svolta in cui il capitalismo cerca di trasformare in merce tutte le forme non materiali di soddisfazione dei bisogni più svariati. Tutto deve essere ridotto a merce. Perciò dobbiamo ridare alla conoscenza la sua natura di bene che non si consuma, ma anzi si moltiplica nella sua fruizione sociale. E questa macchinizzazione dell'uomo la fermiamo se riesciamo a far retrocedere la mercificazione del conoscere (non è una cosa da poco, perché significa sconfiggere Bill Gates) e a riportare la produzione di comunicazione, di conoscenza, di bellezza, alla loro natura di scambi tra esseri umani. Tutto il movimento del free software si richiama alle tradizioni delle società scientifiche del `600 e fa parte di questo tentativo di demercificare l'immateriale, la conoscenza.
Hai scritto che hai passato gran parte della tua vita concentrandonti sul comunismo e sulla fisica. Ora viviamo in un mondo...
... in cui non c'è il comunismo e non c'è la fisica. Oggi non farei più il fisico, anche se ho lavorato fino a pochi mesi fa sulla meccanica quantistica, perché quando uno ha un'idea fissa, continuo a girarci attorno. Devo dire che la scienza mi affascina ancora. Sono un grande curioso, anche delle ricerche sul cervello, sulla mente, sulla vita, perché a livello di divulgazione elevata posso non solo apprezzarle, ma leggerle in una certa ottica, inquadrarle. Il comunismo era un'utopia, come la fisica. Quand'ero ragazzo la fisica era l'utopia della conoscenza, della razionalizzazione; il comunismo era l'utopia di una società di uguali, felici, che possono dispiegarsi e rispettarsi. In fondo queste due utopie le ho ancora. C'è la curiosità per tutto quel che mi circonda, per il mondo, per le infinite manifestazioni del pensiero. Per quanto riguarda la società, i problemi sono lì, anzi si complicano: allora pensavamo che bastassero ricette molto semplici per rendere giusta la società e felici gli uomini. Si è rivelato molto più complicato, ma non credo che i giovani debbano rinunciare a queste utopie. Nei prossimi cinquant'anni i nodi dell'ambiente e delle diseguaglianze verranno al pettine. È un mondo minaccioso, ma è una ragione in più per impegnarcisi.
A Marcello Cini il premio Nonino 2004 in quanto "maestro del pensiero italiano". Per me Cini è stato maestro non solo nel solo in senso generico, ossia in quanto pensatore che ha introdotto il concetto di "non neutralità della scienza" e in quanto scienziato politicamente impegnato, ma in un senso più concreto: è stato, infatti, mio professore di fisica quantistica, è stato l'unico docente a interloquire con noi nel '68, mi ha fatto fare la tesi nel suo gruppo di fisica teorica e, dopo la laurea, mi ha fatto entrare come borsista all'Istituto Enrico Fermi; non solo, ma è stato uno dei fondatori del giornale, il manifesto, per cui lavoro e che ora state leggendo. Cogliamo l'occasione del premio per tracciare insieme una sorta di bilancio di tutto quel che è cambiato da quando, era il 1976, uscì per Feltrinelli L'ape e l'architetto, che Cini scrisse insieme a Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Gianni Jona-Lasinio. Il libro fece epoca, ruppe la tirannia che positivismo e scientismo esercitavano sul discorso relativo alla scienza e ne rese evidente la non neutralità quando in gioco è non soltanto la scelta dell'oggetto della ricerca, ma anche le categorie concettuali con cui interpretare il mondo.
Oggi il termine "neutralità della scienza" è quasi scomparso dalla circolazione.
Mi pare caduto in disuso anche perché basta aprire i giornali per accorgersi che si è diffusa l'idea per cui sembra sia la società a stimolare nuove conoscenze scientifiche, indirizzandole in una direzione piuttosto che in un'altra. Certo, è più sofisticato andare a guardare in che modo gli strumenti concettuali scientifici hanno radici nel contesto sociale. Le stesse categorie con cui s'interpreta il mondo sono storicamente determinate.
Alan Sokal ha fatto tutto un numero contro questa idea.
Certo, questa idea è riconosciuta più nella cultura generale che non tra gli scienziati, i quali si battono ancora come leoni per negare la storicità delle categorie scientifiche. Tutt'al più possono riconoscere che ci sono finanziamenti maggiori o minori per certi settori piuttosto che per altri. Perché gli scienziati hanno bisogno che sia riconosciuto uno status speciale delle verità della scienza: verità che devono essere svincolate dalla contingenza.
Come mai tutta la filosofia della scienza - da Karl Popper a Imre Lakatos, a Thomas Kuhn a Paul Feyerabend, compresa la stesura dell'Ape e l'architetto, si è concentrata tra gli anni `50 e fine anni `70, mentre poi sembra che questa produzione si sia esaurita?
Perché molte idee della filosofia della scienza sono ormai acquisite. Un filosofo che pretendesse di andare in cattedra ripetendo quelle cose, difficilmente sarebbe riconosciuto come pensatore. Ma forse io sono troppo ottimista. Forse quelle idee semplicemente sono dimenticate.
Di solito la storia non risolve i problemi, li accantona, non sapremo mai se avevano ragione i guelfi o i ghibellini...
Sì, forse i problemi si accantonano e poi bisogna ricominciare da capo a riscoprirli o a ripeterli. Ma lo stesso Paolo Rossi che - a proposito dell'Ape e l'architetto - negli anni `70 ci chiamava con spregio "epistemologi della domenica", dilettanti sprovveduti, credo che oggi sia disposto a concedere molto su questo terreno. Senza parlare dei post-moderni, dei Richard Rorty, che sono odiati da scienziati come Sokal. Ma mi sembra che nella filosofia della scienza sia ormai riconosciuto il fatto che le categorie scientifiche nascono da un tessuto culturale più vasto di una data epoca. È solo il realismo ingenuo degli scienziati a resistere, nella concezione astorica della scienza.
Forse ha influito anche lo spostamento del paradigma scientifico, da un paradigma fisico-matematico a un paradigma biologico.
Non c'è dubbio, il modello di scienza non è più la fisica, che è stata detronizzata. Vi sono due livelli: da un lato la storicità della natura, l'evoluzione del sistema solare, l'evoluzione della vita, l'evoluzione delle civiltà. Il pensiero evoluzionista è diventato comune alla maggioranza delle discipline. Per fare una battuta, nell'interpretazione della natura il pensiero eracliteo è diventato dominante rispetto al pensiero parmenideo. Dall'altro lato, a livello della conoscenza, le stesse categorie d'intepretazione di questa natura storica sono anch'esse storiche. Il pensiero che s'impone è quello biologico-evolutivo. La fisica è stata la disciplina che ha permesso di conoscere e dominare la materia inerte: questo capitolo è quasi concluso. Si fanno speculazioni sulla cosmologia, però diventa sempre più inverificabile. Anche le teorie del tutto, come le stringhe, stanno diventando una specie di metafisica. La grande rottura sta, invece, nel fatto che è cominciata l'avventura della conoscenza della vita e della mente umana. E nessuno si sogna di pensare alle leggi della mente umana come alle equazioni di Maxwell. Nessuno ricerca "l'equazione del cervello". L'oggetto stesso della scienza è mutato. Seguendo Gregory Bateson, c'è una gerarchia anche ontologica che separa gli organismi viventi. I linguaggi necessari a descrivere i diversi livelli di organizzazione della materia non sono riducibili l'uno all'altro. Non ha senso spiegare le proprietà delle proteine, del Dna, con le equazioni degli atomi che le compongono. I linguaggi devono tenere conto della natura sempre più complessa di questi livelli.
Negli anni `80 si è fatto un gran parlare di complessità, a proposito e a sproposito. È stata anche usata come una sorta di giustificazione per il disimpegno politico: poiché la società è complessa non c'è più lotta tra classi.
È un termine ambiguo che, anche in ambito scientifico, ha significati diversi a seconda delle discipline: la complessità algoritmica della matematica ha un significato preciso e non ha nulla a che vedere con la complessità del cervello umano o con la complessità delle strutture frattali, per non parlare poi della complessità della società. Il termine "complessità" va usato a proposito. Quel che indica, però, è il predominare del processo di scambio di informazioni tra le parti di un sistema, per tenere insieme quel sistema. La circolazione dell'informazione è il collante che tiene insieme un sistema complesso. Il che non accade in un sistema "complicato", anche se vi avvengono retroazioni, sistemi di autocorrezione.
C'è un lato paradossale: gli scientisti hanno sempre paragonato la natura o la società al prodotto tecnologico più avanzato di quell'epoca. Nel `700 la natura era paragonata a un orologio; nell'800 la società era paragonata a un treno ("la locomotiva del progresso"). Oggi, in fondo, il termine "società complessa" non fa altro che usare per la società la metafora del computer, il nostro prodotto tecnologico più avanzato.
Anche la mente umana è stata paragonata a un computer. Ma l'idea che la mente funzioni come un computer è sempre più criticata. Di recente proprio sul manifesto c'è stata una discussione sul cognitivismo. Ma anche lì, i neurofisiologi più avanzati, da Jean-Pierre Changeux ad Antonio Damasio, insistono sulla commistione intima del cervello con il corpo, per cui diventa fondamentale il peso dell'interazioni tra corpo e cervello anche nelle funzioni puramente cognitive dell'uomo. Un computer senza muscoli e senza pancia...
Ricordi il dissenso tra Anassagora e Aritostotele? Anassagora diceva che l'uomo è uomo perché ha le mani, mentre per Aristotele l'uomo è uomo perché ha la ragione.
I riferimenti al passato si ripresentano sempre. Se leggi Damasio, aveva torto Cartesio e aveva ragione Spinoza. E a dirlo è un neurofisiologo hard.
Molte persone, anche colte, diffidano della conoscenza del corpo umano offerta dalla scienza occidentale, si affidano alla medicina cinese, a quella ayurvedica, all'omeopatia. C'è forse anche un aspetto di superstizione, ma se uno dovesse prenderle almeno in parte sul serio, dovrebbe porsi il problema dei diversi piani di realtà. Capire quali potrebbero essere le interazioni fra queste conoscenze e queste realtà.
Un esempio clamoroso è quello di Francisco Varela, uno scienziato di fama internazionale, che ha seriamente considerato l'importanza delle filosofie orientali come ponte tra l'esperienza vissuta in prima persona, emotiva, di autocoscienza, di percezione di quel che Bateson chiamerebbe il sacro, e la descrizione dall'esterno di queste esperienze che fornisce la scienza. Questa differenza è tipica della fenomenologia, da Edmund Husserl a Paul Ricoeur: lo si vede nel dialogo tra Changeux e Ricoeur che tentano di trovare un elemento comune e non ci riescono. L'unico terreno comune lo trovano nel ricollegarsi all'evoluzione, evoluzione della mente umana, del modo di percepire e conoscere. C'è una differenza ontologica tra spiegare e ricostruire dall'esterno la correlazione tra emozioni e funzionamento di certi organismi e il fatto di vivere le emozioni. Insomma, non tutta la realtà è ricostruibile e rappresentabile attraverso forme di conoscenza - che chiamiamo scienza - basate, per dirla con Galileo, su "sensate esperienze e certe dimostrazioni".
A proposito di "sensate esperienze", uno dei dogmi della scienza era la ripetibilità degli esperimenti. Ora invece per ragioni diverse, gli esperimenti sono sempre meno ripetibili. Intanto per il costo: quando un esperimento costa all'incirca 9.000 miliardi di euro (tanto richiede l'ultimo acceleratore progettato), ripetere indipendentemente l'esperimento vorrebbe dire spendere altrettanto. E poi, molti particolari degli esperimenti sono tenuti segreti, o per ragioni militari o, soprattutto nella ricerca biologica, per questioni di brevetto. Insomma la verificabilità o falsificabilità, tanto cara a Popper, è diventata del tutto aleatoria.
Siamo sempre legati alle tradizioni. Gli scienziati, Antonino Zichichi in testa, si proclamano eredi di Galielo, ma è pura giaculatoria. È come la ricerca genealogica delle famiglie nobili che fa risalire l'ascendenza alle crociate: è oziosa, perché oggi non si usano le mazze ferrate come alle crociate. Gli scienziati (tra cui molti miei autorevoli colleghi) che hanno firmato il manifesto "Galileo 2001", si richiamano a Galileo per dire che gli ambientalisti inventano fandonie e sono terroristi, ma questo è come andare in guerra con le mazze ferrate.
La fine della ripetibilità degli esperimenti fa parte di una tendenza più generale che John Horgan ha chiamato - in un libro dall'omonimo titolo - La fine della scienza.
Io non sono d'accordo con la tesi della fine della scienza. Mi vengono in mente i libri di Pino Longo, per esempio l'ultimo, Il simbionte, o Il nuovo golem. Mi piacciono molto, lui mi piace anche come romanziere, l'ho anche recensito sul manifesto. Però abbiamo due idee della scienza un po' diverse. Se si identifica la scienza con le sue definizioni classiche, è vero, non c'è più scienza. Quel che sostengono in parte Galimberti e in parte Pino Longo è che la macchina ha preso il sopravvento, che c'è una dinamica di espansione e sviluppo incontrollato delle macchine. E perciò non c'è più scienza, ma tecnologia che si autoriproduce, in cui gli uomini diventano strumenti delle macchine. Quindi non si può più parlare di conoscenza della natura, perché non c'è più natura. Gli entusiasti del progresso ribattono che è da quando è stata inventata l'agricoltura che la natura è artificiale. Ma ci sono le discontinuità, da questo punto di vista hanno ragione Steven Jay Gould e Niles Eldredge con la teoria degli equilibri punteggiati nell'evoluzione. Ogni scalino porta a un'artificializzazione crescente del mondo, che si accompagna però a una divaricazione tra chi è intriso, travolto da questo meccanismo e chi sta ancora al medio evo. Io ho ottant'anni e apprezzo di avere una protesi nell'anca, il cristallino nuovo e farmaci che mi fanno andare avanti, non lo nego; ma nel Terzo mondo la speranza di vita è ancora di quarant'anni. E se va avanti così, rischia di esplodere tutto.
Come se ne esce?
Finora non abbiamo parlato del mercato, ma se vai a grattare, il nodo del problema è che sotto sotto c'è la riduzione di tutto a merce. Il capitalismo è nato per trasformare in merce i beni materiali, cioè quelle cose che se le consumo io, non le consumi tu, e viceversa. Adesso siamo a una svolta in cui il capitalismo cerca di trasformare in merce tutte le forme non materiali di soddisfazione dei bisogni più svariati. Tutto deve essere ridotto a merce. Perciò dobbiamo ridare alla conoscenza la sua natura di bene che non si consuma, ma anzi si moltiplica nella sua fruizione sociale. E questa macchinizzazione dell'uomo la fermiamo se riesciamo a far retrocedere la mercificazione del conoscere (non è una cosa da poco, perché significa sconfiggere Bill Gates) e a riportare la produzione di comunicazione, di conoscenza, di bellezza, alla loro natura di scambi tra esseri umani. Tutto il movimento del free software si richiama alle tradizioni delle società scientifiche del `600 e fa parte di questo tentativo di demercificare l'immateriale, la conoscenza.
Hai scritto che hai passato gran parte della tua vita concentrandonti sul comunismo e sulla fisica. Ora viviamo in un mondo...
... in cui non c'è il comunismo e non c'è la fisica. Oggi non farei più il fisico, anche se ho lavorato fino a pochi mesi fa sulla meccanica quantistica, perché quando uno ha un'idea fissa, continuo a girarci attorno. Devo dire che la scienza mi affascina ancora. Sono un grande curioso, anche delle ricerche sul cervello, sulla mente, sulla vita, perché a livello di divulgazione elevata posso non solo apprezzarle, ma leggerle in una certa ottica, inquadrarle. Il comunismo era un'utopia, come la fisica. Quand'ero ragazzo la fisica era l'utopia della conoscenza, della razionalizzazione; il comunismo era l'utopia di una società di uguali, felici, che possono dispiegarsi e rispettarsi. In fondo queste due utopie le ho ancora. C'è la curiosità per tutto quel che mi circonda, per il mondo, per le infinite manifestazioni del pensiero. Per quanto riguarda la società, i problemi sono lì, anzi si complicano: allora pensavamo che bastassero ricette molto semplici per rendere giusta la società e felici gli uomini. Si è rivelato molto più complicato, ma non credo che i giovani debbano rinunciare a queste utopie. Nei prossimi cinquant'anni i nodi dell'ambiente e delle diseguaglianze verranno al pettine. È un mondo minaccioso, ma è una ragione in più per impegnarcisi.
Marcello Cini
Marcello Cini (1923-2012), fisico e ambientalista, per tutta la vita ha svolto ricerche nell’ambito della meccanica quantistica, delle particelle elementari e dei processi stocastici. Il suo interesse per la storia …