Massimo Mucchetti: La Rai, il fattore "P" e la quotazione in Borsa

17 Febbraio 2005
Il ministero dell’Economia promette di cedere una minoranza del capitale della Rai nel prossimo autunno. Ma non chiarisce come verranno superate le tre difficoltà che rendono ardua e discutibile l’operazione. La prima difficoltà è inedita nella pur ricca storia dei collocamenti di azioni di società pubbliche. Essa è costituita dal fattore P: P come Prodi. In una lettera al ‟Corriere”, il leader dell’Unione ha avvertito i mercati che, se vincerà le elezioni politiche del 2006, il centro-sinistra cambierà il quadro regolatorio di stampa e tv attraverso un’azione antitrust. Per Eni, Enel, Autostrade, Telecom non si era mai frapposto un simile ostacolo. Lo si può ignorare e proporre alla Borsa un titolo di una società regolamentata a sei mesi dalla possibile riforma della riforma Gasparri? La seconda difficoltà consiste nella separazione contabile fra servizio pubblico alimentato dal canone, tv commerciale pagata dalla pubblicità e servizi tecnici rimborsati dai precedenti due richiesta dall’Autorità delle Comunicazioni in base alla Gasparri. La distinzione fra le tre funzioni sarebbe meglio garantita dalla loro attribuzione a tre diverse società, magari partecipate da soci terzi. Ma anche quest’impostazione annacquata mette a disagio l’odierna Rai. Basta scorrere le 113 pagine delle Linee guida del Piano industriale 2005-2007, approvate poco prima di Natale e tenute al momento riservate, per vedere come la direzione generale non distingua minimamente le tre funzioni per obiettivi, costi e ricavi. Eppure, sarebbe facile farlo, se si volesse seguire il principio della sussidiarietà: il pubblico arriva dove il privato si ritira. Ma allora si dovrebbe riconoscere che la sovrapposizione dei palinsesti Rai e Mediaset è larghissima e che, pertanto, il canone compensa non solo il costo di programmi altrimenti impossibili ma anche qualcos’altro: la posizione privilegiata del Biscione nella raccolta pubblicitaria e le storiche inefficienze della tv di Stato. La terza difficoltà è il prezzo. La stampa attribuisce al venditore una valutazione di 5,5 miliardi per l’intera Rai, ossia il 40-45% della capitalizzazione di Mediaset. Ma li vale questa Rai 5,5 miliardi? Il dubbio è lecito. Il piano industriale 2004-2006, approvato nel marzo scorso dalla stessa leadership, dava un risultato operativo così modesto che ne sarebbe derivato un valore dell’azienda deludente per il ministero venditore. Nove mesi dopo sono state partorite Linee guida che promettono di più. Nel 2007, a piano felicemente realizzato, la Rai avrà un margine operativo lordo dopo l’ammortamento dei diritti tv, e normalizzato per neutralizzare l’impatto negativo dei grandi eventi sportivi, pari a 519 milioni di euro, mentre Mediaset arriverà, secondo Bnp-Paribas, a 1.742 milioni. Se poi volessimo essere più prudenti e considerare l’intero carico degli ammortamenti (che non sono un optional), avremmo una Rai con un risultato operativo normalizzato di 321 milioni e una Mediaset a quota 1.596 milioni. Morale: prendendo per buone le Linee guida, oggi come oggi il valore della Rai in base ai parametri dell’altro operatore oscillerebbe tra i 2,7 e i 3,8 miliardi. Ma sono buone le Linee guida? Ognuno le valuterà come crede, sapendo, però, che il miglioramento rispetto al piano di marzo non deriva tanto dalla compressione dei costi o dall’aumento dei ricavi, quanto dai minori ammortamenti (il risparmio sul 2006 è pari a 130 milioni) possibili grazie al contenimento degli investimenti in diritti tv e al maggior sfruttamento di film e fiction già in magazzino. Certamente, la direzione generale saprà dove tuttora si investe senza bisogno. Ma è curioso che la stessa politica della lesina sia stata adottata pure da Mediaset e Mediaset, alla faccia della concorrenza sull’audience, non ha mai guadagnato tanto. E’la conferma, per tabulas, del duopolio.
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Massimo Mucchetti

Massimo Mucchetti (Brescia, 1953) è oggi senatore della Repubblica. Ha lavorato al “Corriere della Sera” dal 2004 al 2013. In precedenza, era stato a “l’Espresso” per diciassette anni. E prima …