Paolo Rumiz: Le paure della nuova Europa

31 Marzo 2004
Che strano. Più ti avvicini alla Germania e più la Polonia si desertifica. Fuori dalle grandi strade, solo villaggi tristi, luci fioche. Non un caffè, non una bottega. E più l' orologio corre verso il grande evento - la caduta della frontiera per l' ingresso della Polonia nell' Ue - più il tempo sembra fermarsi, come in un incantesimo. Foreste, fabbriche con palazzine liberty, campi abbandonati, casette di Haensel e Gretel vuote, prossime al crollo. L' autostrada per Berlino rimasta come nel '39, con le placche di cemento d' era nazista. Vento, nubi basse, campi ondulati nella brina. Non è solo l' immensità del Nord. è qualcosa di più, che mette ansia: la percezione di un' assenza. Un vuoto pesante. Quello dei milioni di tedeschi scappati nel 1945, non appena questa terra smise di essere Germania. Immediatamente altri esuli in fuga dall' Urss arrivarono a ripopolare queste terre, ma non le fecero mai loro. Troppi fantasmi in giro. Quando i traslochi finirono, nove milioni avevano cambiato casa. Era nato un mondo nuovo, di sradicati. Nel quale, ancora oggi, la domanda per conoscersi non è «dove abiti», ma «da dove vieni». Sono passati sessant' anni, il vuoto è stato abbondantemente riempito, ma gli abitanti vivono ancora con la valigia. Hanno paura che i tedeschi tornino, si ricomprino le case. Paura che i nuovi affaristi del post-comunismo si arricchiscano a spese dei poveracci. Tutto va alla rovescia, da queste parti. Quando venne l' 89 e il muro crollò, la gente non disse: viva la libertà. Disse: ecco, torna la Grande Germania. E oggi che arriva la Nuova Europa, la frontiera non è vissuta come opportunità, ma come ossessione. Una locanda, l' unica nelle immense foreste tra Gubin e Zittau. Un guardiaboschi si fa una vodka alle dieci del mattino. E' bielorusso. Una vecchia sta accanto al fuoco, mangia patatine chiusa in un cappottone viola. Chiedo di dov' è. «Leopoli», risponde. Leopoli era Austria-Ungheria, poi Polonia. Oggi è Ucraina. La vecchia non ricorda niente del luogo da cui viene. Anche la figlia, che serve al banco, non sa nulla delle sue origini, la madre non le ha mai raccontato niente. Qui tutti hanno perso la memoria. La memoria fa male. «Non abbiamo saputo usare questi luoghi ereditati da altri» brontola il guardiacaccia. Tutto il contrario del confine orientale, dove sono esplosi i traffici con l' Ucraina. L' uomo mostra un mondo di foreste inselvatichite, di terre incolte, cattedrali dell' industrialesimo socialista perse sotto un cielo color cenere. Come si chiama questa regione? Una volta era Lusazia, oggi chissà. Anche il guardiacaccia è incerto. Dice: «I polacchi la chiamano Slesia occidentale, ma nemmeno loro sanno esattamente cosa sia». Nulla mette radici qui, nemmeno i nomi di luogo. Quelli dei paesi li hanno cambiati in fretta nel '45. Holbau è diventata Ilowa, Naumburg Nowogrod, Sorau Zary. Ma suonano male. L' innesto non funziona. Troppo forte la vecchia presenza. Le casette mansardate primo Novecento reggono meglio degli orrori comunisti, nati quando la bellezza era nemica del popolo. I condomini di cemento sono già a pezzi. E mentre i mostri del collettivismo arrugginiscono nella gramigna, alcune fabbriche anni Trenta funzionano ancora. «Qui - ti dicono - il comunismo non è finito. Si è sbriciolato». Wladislaw Lazowski vive a Piensk con moglie e quattro figli in un vecchio mulino che sta crollando, privo di fognature e manutenzione. Di fronte a casa sua, sulla riva tedesca del Neisse, ruotano altri mulini: i bianchi, nuovissimi generatori a vento della Repubblica Federale che ostentano ricchezza, efficienza, tecnologia. Il padre di Wlado era serbo e comunista; amò la Polonia al punto da venirci a combattere e darsi nome e cognome polacco. Oggi che il vecchio e il comunismo sono morti, quella di Wlado è una vita in balìa dei venti. Lavora per un euro l' ora, quando può, come un servo della gleba. Anche lui ha rimosso tutto, anche il nome vero di suo padre. Jozef? «Mah, forse». Non ricorda, non parla. Non nomina nemmeno il padrone di casa sua, si spaventa, rifiuta di parlare. Sa solo che, chiuso il kolkoz, persa la casa sociale, i soliti noti hanno comprato gli immobili della comunità per pochi zloty riaffittandoli al decuplo. In questa terra di nessuno, gli ex comunisti si arricchiscono vendendo impianti d' allarme alla gente terrorizzata dalle bande di paese. Wlado ha fame, ha poca speranza che l' Unione gli porti lavoro, lo tolga dal fango, dai vetri rotti, dalla puzza di sterco e carbone. Che ne sa l' Europa delle ferite di qui? In che libro di scuola sta scritto di questa tragedia grande come un esodo istriano moltiplicato per trenta, ma che non è ancora nulla confronto alla Russia? Dopo i lager e le deportazioni staliniste, nel '45 gli ingegneri delle pulizie etniche continuarono a darsi da fare. Dalle terre orientali cedute all' Urss, il Partito fece arrivare ondate di polacchi, terrorizzati dall' odio sanguinario degli ucraini contro gli ex-padroni. E dalla Polonia, con atroce simmetria, spedì verso Est milioni di ucraini, sugli stessi vagoni di Auschwitz. Mandati a crepare d' inverno in un' Ucraina desertificata dalla guerra e dall' assedio per fame dello stalinismo contro i contadini. Ma c' era ancora posto nell' immenso vuoto lasciato a Ovest, e così nel '47 partì l' Operazione Vistola. Bisognava «purificare» le frontiere del Sud. Le minoranze vicine alla Cecoslovacchia - popoli innocenti, montanari come i Lemki o i Bojki, gente senza terra come gli zingari - vennero giudicate etnicamente infide, deportate a forza, con appena due ore di preavviso, e sparpagliate nei villaggi d' Occidente, a morire di nostalgia in campi senza orizzonte. Erano in una terra di profughi, ma loro, gli ultimi arrivati, erano più profughi di tutti. Li chiamavano «Przewietrzeni», i portati dal vento. La gente ne aveva paura. La polizia aveva sparso il panico prima del loro arrivo. «Arrivano i banditi!» dissero gli agenti. La diffidenza tra esuli era utile al regime: serviva a tenere sottomesso il popolo. Ma non era finita, in Ucraina venne il terrore staliniano e i polacchi rimasti a Est scapparono anche loro, a ondate, verso Occidente. Fino al 1956. Janina, 60 anni, avvocatessa di Wroclaw, racconta la sua storia. Ha sei anni quando lascia l' Ucraina con la mamma, due valigie e il fratellino di sei mesi. E' l' inverno del 46, papà è disperso in Germania. La caricano su un treno. Stessa linea, stessi vagoni merci che portavano gli ebrei a Treblinka. Da Leopoli a Lublino il treno impiega due mesi. Sessanta giorni per 200 chilometri. «Ci parcheggiavano su binari morti, in mezzo alla neve. Venivano i soldati sovietici e ci derubavano». In quello stesso inverno il padre di Janina cerca di tornare a casa a piedi dal lager tedesco, il suo unico modo per trovare i suoi è aspettare sul confine, sui binari. Attende per settimane, finché il treno giusto arriva e la famiglia si ricompone. Pare un romanzo di Pasternak, ma qui tutti hanno storie così. Piove sulle guglie settecentesche di Goerlitz, spaccata in due come Gorizia. Anche il nome le somiglia. La parte polacca della città, oltre il fiume Neisse, si chiama Zgorzelec. La sera, il contrasto fra le due è impressionante. A Ovest fontane, pinnacoli, locande illuminate, casette bonbon, insegne in ferro battuto, restauri. Goerlitz è una delle città più intatte della Germania. «E' per via di Dresda» ti dicono. Sta a meno di cento chilometri. Ha attirato un numero tale di bombe d' aereo da salvare i paesi vicini. A Est, invece, è il coprifuoco. Strade deserte, luci al neon, antenne paraboliche, facciate che si screpolano e lasciano allo scoperto vecchie scritte in gotico. «Erano fantastiche le ville di qui» racconta l' antiquario Janusz Zubrzycki, che ne ha salvata una in modo esemplare, trasformandola in ristorante. «Quando cominciai a rimetterla in sesto mi presero per matto. Qui nessuno spende sulle case. Le case si vendono e basta. Quelle sul fiume sono già andate a polacchi, prestanome di tedeschi». Confine sul Neisse, file di Tir in attesa, concessionarie, luci, prostitute in guaina rosso fuoco già pronte al grande cambio. Ma dietro al piccolo business non avverti l' osmosi culturale. I tedeschi non tornano volentieri a vedere il disastro di ciò che fu casa loro. Pure i polacchi non sconfinano in allegria. Non lo fecero nemmeno ai tempi della Germania Est, sorella comunista, quando bastava la carta d' identità. Pensavano: i tedeschi sempre tedeschi sono, meglio non fidarsi. A Zgorzelec, un anno fa, vinse il «Sì» al referendum per l' Europa. Tutti credevano che arrivasse la cuccagna. «Poi, invece, è arrivata la paura» dice Pavel, scassando una macchina mangiasoldi al bar «Zur Grenze», alla frontiera. «Con l' Europa alle porte, tutti si chiedono se i loro documenti varranno qualcosa di fronte alle carte dei ricchi». Il barista è ancora più pragmatico: «Se non diamo nulla all' Europa, come faremo ad avere vantaggi? E allora è fatale che Varsavia dia queste terre». Ne è convinto: se oggi si facesse il referendum, la gente direbbe «no» all' Unione. In Polonia, fino al '98, la proprietà della terra non era a vita. Durava al massimo 99 anni. Ora si è modificato il codice civile, gli assetti fondiari sono diventati meno effimeri. Nelle aree ex tedesche si è fatto di più: poche settimane fa i Comuni della Slesia hanno rafforzato i vincoli. Ma la paura rimane. Niente da fare, la gente non sente quelle terre come sue. L' identità dei luoghi è debole. «Apparteniamo a un mondo di sconfitti», lamenta Zygmunt, un trentenne che butta briciole ai cigni sul fiume. Henryk, 65 anni, di Wroclaw, racconta davanti a una birra che a Berlino la lobby degli esuli ricomincia a premere. La Tv federale martella con reportage sulle nuove terre dell' Est, parla di «tedeschi e polacchi deportati senza colpa», i secondi nelle case dei primi. Ma dietro l' equanimità si nasconde il tranello del revisionismo. «E' un discorso che non piace» spiega. «I tedeschi la colpa ce l' hanno eccome. Noi, invece, la guerra l' abbiamo solo subita». E intanto piove sulle vecchie pietre, ultime testimoni di un mondo perduto.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …