Michele Serra: Noi, in overdose audiovisiva

18 Maggio 2004
Pare proprio che il famoso digitale terrestre, tenuto in gran conto dalla legge Gasparri come nuova frontiera del mercato dei media, sia un clamoroso flop. I decoder fin qui venduti, nonostante l'obolo statale, sarebbero duecentomila, tanti quanti bastano a fondare un clubbino di tecno-maniaci, non certo a cambiare quote di mercato e abitudini dell'utenza. Al di là delle prevedibili polemiche politiche di casa nostra, c'è una fondata possibilità che la capienza audiovisiva degli esseri umani occidentali sia satura. Ipotesi mai tenuta in gran conto dagli strateghi di mercato, dai politici (soprattutto questi qui, aziendalisti fino al midollo) e dai pubblicitari, che agiscono come se l'utenza sia un territorio deformabile a oltranza, un ventre rimpinzabile all'infinito. Non so quanto conti il mio caso personale, ma sono il tipico ricettore esausto. Tra canali in nero e in chiaro, satellite, dvd a noleggio, vecchie cassette e vecchio videoregistratore, radio e autoradio, mi manca solo il telescopio per seguire le partite del campionato di Orione. Ogni tanto mi telefona, ugualmente esausto, un giovane e depresso piazzista di nuovi apparecchi e di nuovi abbonamenti, buon ultimo un tipo che mi proponeva un decoder che pescava nelle fibre ottiche non so quale nuovo pesce. Prima ancora di ammettere che non ero assolutamente in grado di capire che cosa diavolo fosse l'aggeggio, e a che cosa servisse, il mio "no" scaturiva da un istintivo e anche nervoso rifiuto di mettermi in casa, e in testa, nuovi segnali e nuovi messaggi. Sono già in overdose, e credo che molti di noi lo siano. Soprattutto, anche se fossi mosso da una divorante curiosità per le innovazioni tecnologiche (e non lo sono), mi è di ostacolo la drammatica rigidità di una delle componenti fondamentali della vita umana: il tempo. Il mercato mi si rivolge come se le mie giornate fossero, potenzialmente, di trentaquattro ore, dieci delle quali spendibili a consultare libretti di istruzione, stipulare contratti, spostare prese, e infine consumare ciò che di inedito incombe sul mio palinsesto quotidiano. Non è così, purtroppo. Ma anche se qualcuno mi vendesse un decoder che riesca a regalarmi dieci ore di tempo aggiuntivo, non è davanti a un video, proprio no, che vorrei passarlo. A questa strutturale limitatezza della vita umana (un dettaglio al quale, prima o poi, i venditori di ogni genere e grado dovranno pur prestare attenzione) vanno sommati almeno due accadimenti culturali e sociali, entrambi ostanti la diffusione massiva di nuove incombenze audiovideo. Il primo è che negli ultimi anni, diciamo da internet in poi, milioni di individui hanno dovuto impegnarsi in una rincorsa tecnologica sempre più affannata, imparando nuovi linguaggi e sacramentando su nuove manutenzioni. Siamo stanchi. Ogni connessione in più è una complicazione in più, è l'ennesimo post-esame da superare avendone appena superati parecchi, e non facili. Il secondo è che, in virtù del sistema di appalti e subappalti che furoreggia anche nelle aziende di servizi, capita sempre più spesso di trovarsi a dover risolvere problemi di impianto sempre più complicati rivolgendosi a manutentori sempre più dequalificati. E non per colpa loro. Per installare le fibre ottiche in casa mia si sono presentati due improbabili ragazzi, precari in ogni senso, che non avevano neppure gli attrezzi adatti a smanettare tra prese e cavi. Vedendoli salire una scala per arrampicarsi lungo la facciata, e avendogli chiesto quali tutele e garanzie avessero, mi sono sentito rispondere che è già tanto avere un lavoro, di questi tempi. Naturalmente con contratto a termine, e naturalmente imparaticcio, saltando come si salta, oggi, da un mestiere a quell'altro con la disinvoltura (o la disperazione) dell'eterno apprendista. Aziende dal nome ipermoderno e dalla pubblicità rutilante sono, per tanti versi, vetrine vuote, venditori di sbalorditive novità intergalattiche gestite poi con la lesina di vecchie botteghe tignose. Non è certo un discorso che può essere affrontato qui e ora: ma avete notato che il neocapitalismo, sulla carta prodigioso moltiplicatore di occasioni e di "professionalità", nella prassi è un inimitabile creatore di nuovi dilettantismi, di precariati esistenziali, e soprattutto (egoisticamente parlando) di servizi in genere inferiori a quelli forniti dal buon vecchio paleocapitalismo mezzo statalizzato? Basta, questo piccolo excursus nella nevrosi del tecnocliente, a spiegare perché non ho pensato neanche per un secondo di prendere il digitale terrestre?

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …