Gabriele Romagnoli: Qualcosa di verde

19 Maggio 2004
"Ha qualcosa contro il colore verde?", chiese l'agente immobiliare mentre mi portava a vedere un possibile alloggio in affitto a Caracas. La mia risposta fu coperta dalla sua accelerazione per staccarsi dal lungomare e iniziare la salita. La Caracas a cui eravamo diretti non era in Venezuela, ma in Libano, un quartiere di Beirut, nella parte occidentale, musulmana. Verde è il colore sacro dell'Islam, era il preferito di Maometto. Ho qualcosa in contrario? No, anzi, lo trovo divertente. Il fatto è che penso ai leghisti, con le loro camicie verdi a sbraitare contro l'Islam. Li immagino in corteo con le loro bandiere e le loro bandane verso una moschea lombarda e il muezzin dal minareto che annuncia l'avvicinamento di una torma di fedeli. Il verde non mi fa impazzire, la casa di Caracas avrebbe potuto. Dalla terrazza si vedeva il faro, certo, ma dentro era come essere su un campo da golf. La moquette era un prato più spesso che soffice. I mobili avevano una gradazione più pallida, la cornice legnosa degli specchi una più olivastra, il vetro rifletteva verde su verde. La proprietaria era gentile. Ci teneva a offrire il caffè. Si sedette per chiacchierare. Promise che avrebbe potuto apportare cambiamenti. "Resterà comunque troppo verde", dissi. "Qual è il suo colore preferito?", si informò. "Blu", risposi d'istinto. "Mi rendo conto", disse e portò via le tazzine. Avevo scelto la tinta sbagliata. Ci ho ripensato mesi dopo mentre, attraversando il nord del Marocco, sono arrivato in un villaggio da favola chiamato Chefchaouen, tra le montagne del Rif. Lì, tutto (o quasi) è blu. Le pareti delle case di pietra sono dipinte di blu, le porte sono blu, le mattonelle di ceramica sono blu. Quando una strada finisce, l'ultima parete è di un blu accecante. La storia (o meglio, la Lonely Planet) racconta che, cacciati dalla cristiana Granada nel 1494, musulmani ed ebrei si rifugiarono insieme quassù. Vissero uniti dalla paura di un comune nemico a cui proibirono l'ingresso in città, pena la morte. Insieme costruirono le case, con i loro balconi, tetti e cortili interni con un albero al centro. I musulmani dipinsero tutto di verde. Gli ebrei attesero pazienti l'occupazione spagnola all'inizio del Novecento e, negli anni Trenta, passarono ovunque una mano di blu. Poi arrivò l'indipendenza marocchina nel 1956 e il nuovo "ribaltone", ma non cromatico. Adesso l'effetto è che nel mare di blu galleggiano zattere verdi: la scuola coranica, le piccole moschee, qualche tunica, qualche lampada, inferriate scrostate dal tempo, sciarpe in vendita al suq. Ti viene da cercarlo, ora, il verde. Ho passato due giorni a fotografare tutti i casi in cui il blu e il verde si accostavano e non si scacciavano, restavano lì, come se fosse possibile. Sui gradini davanti a una moschea ho chiesto a un vecchio seduto sulla pietra con addosso una specie di saio verde e la cuffia del Barcellona, appena uscito dalla preghiera, se viveva già lì quando il paese è stato ridipinto. Ha risposto che era appena nato, ricordava vagamente, ma non gli ha mai fatto nessun effetto, né ora né allora. "Dio è una luce", ha aggiunto, "non un colore". Una di quelle frasi che ti lasciano un effetto. Ma è la suggestione dei luoghi. Il muezzin locale aveva una voce così struggente che, alle cinque del mattino, tre delle stanze occupate da stranieri si sono aperte. Siamo usciti sui balconi. Un'italoamericana ha detto: "Come sarebbe bello e dolce poterci credere". E illudersi che il blu e il verde possano convivere. Ma il giorno dopo ero a Casablanca e la Bbc trasmetteva da Gaza le immagini di un palestinese ucciso, portato a spalla in una bara foderata di verde.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …

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