Sergio Ramazzotti: Arabeschi di fango

19 Maggio 2004
L'uomo giunge infine, dopo parecchie settimane di cammino attraverso un deserto fra i più aridi, ad Agadez. Una città giallastra, assolata e polverosa, nei cui stretti vicoli un uomo e un cavallo non passano affiancati. Le viuzze si inoltrano in quartieri secolari e si avvoltolano in labirinti senza uscita, dove lo straniero perde subito l'orientamento e si sente inghiottito dalla terra. Eppure, come per magia, ovunque ci si trovi il minareto della grande moschea, una piramide tronca di fango secco, sembra sempre lì a pochi passi, appena oltre i tetti bassi delle case, come se vi seguisse. Cercare di raggiungerlo, però, è impossibile: così come quando vi allontanate esso vi segue, quando cercate di avvicinarvi esso sembra arretrare, di modo che risulta vano il tentativo di spingersi ai suoi piedi. Le strade sono quasi sempre deserte: passa un vecchio vestito di pelli maculate. Una donna con un turbante a fiori. Un nomade dalla pelle blu, arrivato chissà da quale oasi lontana, con una lunga spada al fianco, che trascina alla cavezza un cammello dalle finiture di ottone lucente. Fugaci sguardi carichi di diffidenza e di curiosità. Nessuno parla. Per i suoi silenzi, la sua luce, i materiali con cui è costruita, è come se Agadez fosse parte del deserto. Il viaggiatore che ne percorre le strade si sente immerso in un miraggio che però, a differenza degli altri, possiede una sua propria consistenza, un odore, una volumetria che proietta ombre nette e dense. Non a caso, forse, per brevità molti abitanti la chiamano con un acronimo composto dalla prima e dall'ultima lettera dell'alfabeto: Az. Come se entro le sue mura fossero racchiusi al tempo stesso il tutto e il nulla, l'alfa e l'omega, l'uno e lo zero, circondata essa com'è dal nulla del deserto, dal quale si difende con quel povero essenziale tutto che gli abitanti sono stati capaci di costruire. Ma sono le case a stupire il viaggiatore: semplici cubi di fango se viste di lato, sulle facciate prorompono in arabeschi di stupefacente bellezza e complessità, come non se ne trovano in nessun'altra parte del Continente, i quali, si dice, rivelerebbero a chi sapesse interpretarli i segreti dell'animo umano. Tuttavia gli abitanti che passano rapidi nei vicoli non se ne curano: il destino della gente ad Agadez sembra quello di andarsene. Anche se vi abitano da quando sono nati, vivono la città come la tappa intermedia di un viaggio. Anche quelli che trascorrono le giornate perfettamente immobili, sdraiati all'ombra di una moschea per sfuggire alla calura, non fanno altro che centellinare l'attesa dell'occasione buona per partire, come se la loro immota serenità fosse solo la sottile facciata che nasconde un'inquietudine nomade. Gli si chiede: che sta aspettando? E loro rispondono: che tramonti. E se dopo il tramonto li ritrovate nello stesso posto, nella stessa posizione, e domandate: che aspettate?, rispondono: che sorga il sole. Le città geologiche, le città e il fango, le città e il nulla. Agadez, nel Niger centrale asciutto e poverissimo, dove i datteri arrivati dall'Algeria attraverso il Sahara si vendono, ormai irrimediabilmente secchi, in sacchetti da dieci e le sigarette una a una a trentacinque franchi il pezzo, sarebbe stata bene nella collezione onirica delle Città invisibili, con la differenza che quel che è scritto qui sopra non è fantasia, ma cronaca. La prima storia che vi ascoltai, sotto il minareto rosso della grande moschea, fu quella di una fuga. Apparteneva a un giovane dallo stupefacente nome di Kasimin Monkam Mutenga Kwele, nato figlio del potentissimo re di un villaggio nei pressi di Foumban, in Camerun, e finito, ventidue anni dopo, profugo nullatenente e inseguito dalla morte ad Agadez. Sei mesi prima il padre era spirato, nominando Kasimin suo successore, ma l'altra moglie del re aveva scatenato una faida di palazzo (anche in mancanza del medesimo) nel tentativo di mettere sul trono il proprio figlio. "Ero certo che avessero già organizzato il mio assassinio, così sono scappato dal Camerun", disse Kasimin in un italiano impeccabile imparato al centro culturale di Douala. Il problema era che qualcuno aveva già pensato a far sparire il suo passaporto, così il giovane principe aveva dovuto attraversare tre frontiere da clandestino e una volta finiti i soldi si era impantanato ad Agadez assieme al suo sogno di iscriversi all'università di Perugia, facoltà di medicina. Quando lo incontrai era ospite della chiesa cattolica, e in cambio di vitto e alloggio riorganizzava l'archivio della biblioteca. "Quel che più m'infastidisce", concluse, "è non poter sapere chi sia il nuovo re, se io o il mio fratellastro. In ogni caso, non appena avrò messo da parte i soldi mi converrà continuare a scappare, perché quelli sono capaci di venire a cercarmi fin quassù per ammazzarmi". E prima o poi, disse, l'avrebbero trovato, perché sapevano che era andato a nord, e verso nord l'unica strada passava per Agadez. Da sei secoli a questa parte, il deserto e la storia hanno condannato la città a essere un crocevia: tutti sono costretti a passarci, ma nessuno sembra volerci restare, al punto che la popolazione di Agadez è di un terzo meno numerosa di quella del XV secolo, quando traboccava delle carovane che trasportavano l'oro tra Gao e Tripoli. La gente va (o si arrabatta per andare) verso nord, per attrazione magnetica o geografica o forse perché, da qui, più si va a sud e peggio è, mentre a nord, oltre le sabbie assassine del Sahara, brillano le chimere del Mediterraneo e per associazione dell'Europa. Gli unici a fermarsi ad Agadez abbastanza a lungo da lasciarvi una traccia furono gli Hausa della Nigeria settentrionale, che nel tardo Medioevo invasero il sud del Niger consegnando ai posteri (che puntualmente lo fecero andare in malora) l'eccezionale patrimonio architettonico dei quartieri antichi di Agadez e di Zinder, città che i francesi, al tempo delle colonie, consideravano l'unica interessante del Paese, anche se la scelta di trasferirvi, nel 1926, la capitale da Niamey era dettata dalla convenienza della posizione più che da speculazioni estetiche. Oggi Agadez, Zinder e il Niger tutto, relegato dall'Onu al penultimo posto nella classifica mondiale di sviluppo umano, sono tesi fino allo spasmo muscolare - almeno nelle ambizioni - verso il futuro e verso quello stesso Occidente che detestano e considerano responsabile dei propri mali (chiedete a un nigerino qualsiasi cosa pensa degli Usa e dello scandalo dell'uranio iracheno). Il simbolo più appropriato del Paese non mi è parso la trita croce tuareg, bensì un certo moccioso di nome Saddam con cui ho intrattenuto una breve conversazione di fronte al palazzo del sultano di Zinder: indossava una T-shirt con la faccia di Osama bin Laden e un clamoroso paio di jeans a stelle e strisce e, a sentirlo parlare, era fin troppo consapevole della valenza simbolica di entrambi gli stracci che si portava addosso; un po' meno dello stridore dell'accostamento. Come tutte le nazioni terzomondiste lanciate nella mortale maratona della globalizzazione ideologica, il Niger sembra dimentico di se stesso e delle sue tradizioni, figuriamoci di qualche stupida casa di fango con un ghirigoro sulla facciata. Gli antichi edifici Hausa di Agadez cadono a pezzi, ma per gli abitanti la vera tragedia è che da qualche anno la Parigi-Dakar abbia smesso di fare tappa in città: "I prezzi quadruplicavano e in un mese si guadagnavano i soldi di un anno". A proposito delle case medievali, considerate null'altro che vecchiume, un anziano e saggio abitante del quartiere Birnin, a Zinder, mi disse: "Saranno trent'anni che nessuno butta via i soldi per restaurare le decorazioni delle facciate: la gente adesso vuole le case all'europea, con la parabola per la tv satellitare". Lo stesso giorno, un settimanale locale gli faceva eco con un titolo: "I desideri dei nigerini: femme, voiture, villa climatisée". In questo (per l'appunto) clima di mutamenti almeno una tradizione, se non altro, sembra dura a morire: quella dei sultani musulmani e del loro strapotere politico in barba al governo, giacché per buona parte degli africani avere un re è motivo di grande orgoglio, anche quando questo li fa frustare a sangue. Mustafa Ahmed, ventitreesimo sultano di Zinder, discendente di una fiera dinastia di negrieri autoctoni, non ha mai fatto frustare nessuno, e gli abitanti si dichiarano più volentieri suoi sudditi che cittadini della repubblica. Mi ha ricevuto fra i tappeti di ciniglia della sala delle udienze il giorno della festa di fine Ramadan, dopo la corrida che si era tenuta, come sempre, di fronte al palazzo e si era chiusa con il bilancio sorprendentemente blando di soli tre feriti, nessuno dei quali grave. Mi sono reso conto che anch'egli, a suo modo, era vittima del progresso: il furgoncino di corte era sponsorizzato dalla Philips, il condizionatore del suo appartamento privato era rotto da settimane e il tecnico non si faceva vedere, e quando il discorso cadde sui feriti della corrida mi disse che a Zinder c'erano stregoni in grado di guarirli in ventiquattr'ore, anche quando si trattava di casi gravi, mentre a Pamplona, durante la festa di San Firmino, la gente crepava sul serio e non ci si poteva far nulla: l'aveva visto in diretta su Antenne2. Un giorno, scomparso l'ultimo sultano e crollata l'ultima casa centenaria, forse si dissolverà il miraggio e al suo posto non rimarrà che il nulla: il deserto. Il Niger, del resto, è l'unico Paese che conosco ad aver eretto un monumento a un albero (il celebre "arbre du Ténéré", l'unico sopravvissuto al Sahara, abbattuto da un camionista libico e sostituito da una copia in bronzo): qualsiasi cosa neghi l'assoluto vuoto del deserto è degna di celebrazione. E la gente, chissà, continuerà a cercare la via del nord, a odiare l'Occidente e insieme a bramarlo, e a sperare, in un Paese povero in canna, messo in ginocchio dal colonialismo e stroncato dalla cleptocrazia endemica del postcolonialismo, nello slogan della lotteria nazionale: la fortuna ai vincitori, i benefici alla nazione. E noi, dall'Occidente, di tutto questo ci ostineremo a vedere solo la facciata, che come nelle case Hausa nasconde dietro gli arabeschi un cubo di fango. Che avrebbe detto il Marco Polo delle Città invisibili? Forse solo: che Dio ci perdoni, saggio Kublai. E pure Calvino, al quale chiedo scusa.

Sergio Ramazzotti

Sergio Ramazzotti, nato a Milano nel 1965, è autore di centinaia di reportage da tutto il mondo, apparsi sulle principali testate italiane e internazionali. Le sue fotografie sono state esposte …