Marina Forti: India, le diversità al governo

27 Maggio 2004
Infine l'India ha un nuovo governo guidato dal partito del Congresso, il vecchio «grande centro» della politica indiana. Il primo ministro incaricato Manmohan Singh ha prestato giuramento ieri, nel palazzo della presidenza della repubblica indiana, insieme ai ministri e sottosegretari che comporranno il suo governo, in tutto 67 persone (non è stato annunciato però chi occuperà quale poltrona). Alla cerimonia erano presenti Sonia Gandhi e i suoi figli, i dirigenti dei due Partiti comunisti indiani (che hanno garantito l'appoggio esterno alla nuova coalizione) e altri dignitari. Si è conclusa così una decina di giorni di colpi di scena: dall'inaspettata vittoria del Congress alle elezioni legislative, che ha messo fine al governo della destra nazionalista hindu, al crollo della Borsa quando è stato chiaro che il Congresso governerà con l'appoggio delle sinistre, alla violenta campagna della destra contro la «straniera», fino alla drammatica rinuncia di Sonia Gandhi ad assumere la carica di premier. «L'India è un paese di grande diversità. Questo gabinetto riflette tale diversità più di ogni altro prima d'ora», ha commentato Manmohan Singh, nel suo tradizionale completo kurta (lunga tunica su pantaloni) bianco e turbante azzurro. Diversità visibile nella cerimonia stessa: il presidente della repubblica Abdul Kalam è il primo musulmano in questo ufficio, mentre Singh è il primo sikh (e primo non-hindu) nella carica di premier. Qualcuno, per l'occasione, ha ricordato la vecchia frattura tra i sikh e il partito del Congresso (Indira Gandhi assassinata dalla sua guardia del corpo sikh nel 1984, tremila sikh trucidati a Delhi nei susseguenti tumulti): ma era una frattura ormai ricomposta. Soprattutto, non è in quanto sikh che Manmohan Singh è arrivato alla carica: «E proprio questo è il segno che siamo una società multiculturale in cui la religione e l'appartenenza comunitaria non conta», commentava ieri un autorevole giornalista (sikh).
Le prime pagine di ieri erano occupate da due notizie, in India. La prima è che il monsone è arrivato con qualche giorno di anticipo sul previsto sul Kerala, sulla punta sud-occidentale dell'India, da cui risalirà verso nord: dalle piogge monsoniche dipende gran parte dell'agricoltura indiana, dunque la buona o cattiva sorte di tre quarti della popolazione di questo paese di un miliardo di abitanti, e in ultima istanza la sorte della crescita economica del paese. La seconda notizia è che la coalizione guidata dal partito del Congress ha messo a punto il suo «programma minimo comune», e sembrano risolti anche gli accaniti negoziati su nomi e poltrone che avevano occupato le cronache degli ultimi tre giorni.
Il programma minimo comune contiene alcune linee di principio e indica gli obiettivi generali della coalizione (che si è chiamata Alleanza progressista unita, Upa). Si propone di garantire una crescita del 7 o 8 percento, di investire nel benessere della popolazione rurale e nell'agricoltura, e di prendere misure per «rivitalizzare la crescita industriale, e insieme di proteggere l'armonia sociale; promuovere e dare potere alle donne nella società; dare piena eguaglianza di opportunità nell'istruzione e nel lavoro ai dalit (i fuoricasta, o «intoccabili») tribali e in genere ai segmenti emarginati e minoranze religiose. L'occupazione, l'agricoltura e il welfare sono dunque le priorità. E così pure ricostruire un tessuto laico di civile convivenza. Il governo intende rivedere la legge di «prevenzione del terrorismo» approvata dopo l'11 settembre, dicendo che ha dato luogo ad «abusi», e vuole una legge sulle violenze intercomunitarie per garantire indagini e risarcimenti equi.
Il capitolo su cui molti aspettano al varco il nuovo governo è quello economico. Il programma dice che l'India «ha bisogno e può accogliere» investimenti diretti stranieri in misura due o tre volte superiore all'attuale, e rafforzerà le regolamentazioni per garantire trasparenza ed equità. Dice poi quanto il premnier incaricato Singh ha già anticipato: le privatizzazioni saranno selettive, non saranno privatizzate aziende sane nel settore degli idrocarburi, energia e acciaio (otto grandi aziende), mentre aziende inefficenti saranno vendute o chiuse «dopo che ai dipendenti sarà assicurato il dovuto». Da tempo l'industria chiede una legge che permetta di licenziare più facilmente: il programma comune esclude però i «licenziamenti automatici». Promette invece di espandere la protezione al lavoro «non organizzato», non garantito.

Marina Forti

Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …