Lorenzo Cremonesi: "Non ci avete ascoltato, ecco la sua testa"
24 Giugno 2004
Pietà è morta. Alla fine l'hanno decapitato davanti alla telecamera. Ancora una morte in diretta, con il video da mandare a Al Jazira e diffondere il messaggio della "guerra santa" in tutto il mondo. Davvero nessuna pietà per il 33enne sudcoreano Kim Sun-il. Ieri mattina ci si era illusi che il peggio fosse passato. Il primo ultimatum reso noto dai rapitori per lunedì sera era trascorso senza che succedesse nulla. "Stiamo trattando", dicevano i diplomatici di Seul. Ma il suo cadavere sfigurato, con la testa non lontana, è stato trovato ieri in serata dalle pattuglie americane alla periferia di Bagdad. Il corpo era carico di esplosivo e avrebbe potuto rappresentare una trappola mortale per chi l'ha recuperato: lo ha reso noto una fonte del Pentagono alla Cnn. Le condizioni dei resti erano tali da far pensare che il cadavere sia stato gettato da un'auto in corsa. Kim Sun-il, cristiano evangelico, lavorava da un anno in Iraq come traduttore per la ‟Gana General Trading”, società sudcoreana che fornisce servizi alle truppe Usa. Il suo arabo è perfetto. Ma non sembra sia servito quando il 17 giugno venne catturato nella regione di Falluja: il cuore del famigerato "triangolo sunnita". I dettagli della cattura sono confusi. Sembra assieme a lui sia stata presa un'altra decina di stranieri che si erano recati per lavoro in una base militare americana. Ma non ci sono conferme. Di certo c'è invece il fatto che Kim Sun-il cade nelle mani di un gruppo legato al fondamentalismo islamico. Si fa chiamare "Unificazione della guerra santa" e pare sia guidato da quello stesso Abu Musab al Zarkawi che molti considerano il braccio destro di Osama Bin Laden in Iraq. Proprio "contro i suoi covi", ha detto ieri sera il generale Kimmitt, gli americani hanno lanciato un nuovo attacco aereo a Falluja, dove alcuni giorni fa un raid di elicotteri aveva fatto venti morti. È Zarkawi il regista del terrore in Iraq. Nel video diffuso domenica c'era una richiesta politica molto precisa: il governo sudcoreano deve rinunciare ad inviare i 3.000 soldati che entro agosto dovrebbero unirsi ai quasi 700 che operano già nelle zone curde. Poi il ricatto: l'esecuzione. La stessa fine di Nick Berg, l'americano decapitato (sembra per mano dello stesso al Zarkawi) un mese e mezzo fa nella zona di Falluja. E dell'ingegner Paul Johnson, settimana scorsa in Arabia Saudita. Da Seul arriva un "no" secco. Saranno rimpatriati i tecnici, ma i soldati partiranno. I canali diplomatici cercano discretamente un contatto con i rapitori. La posizione sudcoreana è ovvia. Ci sono quasi 40.000 truppe Usa a garanzia dei suoi confini settentrionali. L'arrivo in Iraq di altri 3.000 soldati (che trasforma i coreani nel terzo contingente internazionale) è un dovuto segno di riconoscenza nei confronti di Washington. Comunque Seul promette che potrebbe ritirare tutti i suoi lavoratori civili dall'Iraq entro luglio. E intanto chiede l'appoggio degli Ulema, l'assemblea dei notabili sunniti che sono intervenuti più volte per cercare di mediare il rilascio degli ostaggi. Così ieri mattina si diffonde la sensazione che Kim Sun-il possa venire salvato. Tragicamente falso. Nello stesso momento si ripete un rituale ormai tragicamente noto. L'ostaggio viene vestito con una tunica arancione, simile a quella indossata dai prigionieri degli americani a Guantanamo. Poi i rapitori leggono un messaggio da mandare a Al Jazira. "Ora basta con gli imbrogli. Avete tradito le vostre promesse. In verità siete diventati schiavi degli americani. I responsabili di questa morte siete voi", leggono gli uomini armati, vestiti di nero e incappucciati. La tv araba non mostra l'esecuzione, anche se si nota che uno degli incappucciati ha una spada nella tunica. Probabilmente apparirà nelle prossime ore sul circuito web. Ma ciò che importa per gli esecutori è che un nuovo segnale di destabilizzazione viene lanciato a soli 8 giorni dal passaggio dei poteri al nuovo governo iracheno. Da Washington il presidente Bush reagisce con durezza: "Non ci faremo intimidire da questi atti barbarici. Non ci faremo intimidire perché crediamo fortemente nella libertà".
Lorenzo Cremonesi
Lorenzo Cremonesi (Milano, 1957), giornalista, segue dagli anni settanta le vicende mediorientali. Dal 1984 collaboratore e corrispondente da Gerusalemme del “Corriere della Sera”, a partire dal 1991 ha avuto modo …