Furio Colombo: Campo Redenzione

25 Giugno 2004
Donald Rumsfeld, il ministro della Difesa americano che ha fatto più danno al suo Paese (e a tutti i Paesi legati agli Stati Uniti) di qualunque nemico, è andato a Baghdad, ha visitato la tremenda prigione Abu Ghraib, non ci ha detto nulla delle cose terribili, oggetto di indagine politica (il Senato) e giudiziaria (le corti marziali) in America. Ha però trovato il tempo di ribattezzare il tetro edificio carcerario caro a Saddam Hussein. Gli ha dato il nome triste e terribile di "Campo Redenzione" . È una trovata che in letteratura evoca Conrad e Orwell. In politica dà notizia dello strano, bizzarro, pericoloso gruppo culturale che è al momento, intorno a George Bush, alla guida degli Stati Uniti.
Sono i neo-conservatori, portatori di pensiero disinvolto e senza pudore sul male, il dolore, la guerra, la potenza, la distruzione, la tortura, lo scontro totale e finale per purificare finalmente il mondo. Tutto ciò sarebbe materiale prezioso (e allarmante) per una antologia letteraria, una sorta di nuovo futurismo che disprezza ogni pietistica convenzione sul rispetto delle persone e delle culture, che invoca sangue, scontro e dominio. Purtroppo non è una strana avanguardia letteraria, non è né Artaud con il suo ‟Teatro della crudeltà”, né Marinetti con la sua passione per il bum bum dei cannoni. Purtroppo questo è un governo. Nel più potente Paese del mondo.
Coloro che - per motivi di gloria personale (Berlusconi) di affinità con la guerra come bene in sé (Fini), per calcolo politico-elettorale (il resto della maggioranza) - si presentano adesso come i migliori amici dell’America, fanno volentieri confusione.
Vogliono credere e far credere che l’America di Bush e dei neo-conservatori sia tutta l’America e sia l’America di sempre, l’America dei grandi valori democratici, l’America che ci ha liberato, come se i soldati americani che abbiamo visto e festeggiato (quelli di noi che allora erano bambini) per le strade delle città italiane liberate, si fossero mai aggirati in divisa da guerra, con le armi spianate, circondati da carri armati in posizione di sparo.
Una simile confusione, nel centro destra, spesso è in buona fede. Molti di loro (pensate a coloro che erano giovani e aggressivi militanti di Almirante prima di diventare ministri di Berlusconi) detestavano l’America, la consideravano potenza vincitrice di un’Italia sconfitta (l’Italia di Salò, fedele alleata dei tedeschi).
Ci dice Gian Antonio Stella (‟Corriere della Sera”, 15 maggio) che una pubblicazione voluta e appena distribuita in questi giorni nelle scuole di Trieste dal sindaco di Forza Italia Roberto Di Piazza e dal dirigente nazionale di An Roberto Menia definisce gli americani ‟forza occupante ‟ nell’Italia del 1943, come i tedeschi. Per Di Piazza e per Menia gli americani non sono più i ‟liberatori” del 25 Aprile (insurrezione partigiana) e del 4 Giugno (vittoria degli Alleati in Europa). Sono occupanti.
Adesso, però, quella vittoria la celebrano loro, i Di Piazza e i Menia. Ma con un’altra America, la sola che essi conoscono, poiché hanno sempre detestato l’America di Roosevelt, Kennedy, Carter e Clinton.
Una ragione ce l’hanno. L’America dei neo-conservatori, come dice l’economista e politolgo dell’Università di Princeton Paul Krugman, "si è svincolata dalla legalità, dalla tradizione storica, dalla cultura americana. Agisce come una rivoluzione. E, come una rivoluzione, nega il passato e riconosce solo se stessa".(The Great Unravelling, pag. 96).
La maggior parte dei lettori italiani ignora l’abisso che separa l’America di Bush dall’America di Roosevelt, la contrapposizione tra l’America che ha sognato, voluto e realizzato le Nazioni Unite e l’America che (fino a un momento prima del disastro che adesso si estende in Iraq) ha svilito, disprezzato e negato i fondi all’Onu per sopravvivere. Lo ignora perché la grande stampa si è soffermata ben poco sulla ‟rivoluzione” di Bush e dei neo-conservatori. Lo ignora perché la televisione del regime berlusconiano ha fatto calare un sipario di elogi e festeggiamenti continui per tentare di dimostrare che c’è una sola America. Chi non la venera è amico dei terroristi.
Sarà utile un libro appena pubblicato in Italia, Tutti gli uomini del Presidente. George Bush e la nuova destra americana del giornalista di Repubblica Federico Rampini
Non c’è bisogno di essere d’accordo sulla premessa di quel libro (se sia vero o no che la nuova destra ha vinto perché "Ha saputo toccare problemi veri e questioni fondamentali del nostro tempo"). Ma è utilissimo sapere di che cosa è fatta la nuova cultura.
Essa si separa profondamente dai valori fondanti della Repubblica americana (enunciati nei ‟Federalist Papers”, scritti in preparazione della Costituzione dai tre padri fondatori Alexander Hamilton, James Madison, John Fay) sia dalla lunga esperienza di legami con il resto del mondo che va dal sogno di Roosevelt, il grande avversario del fascismo e del nazismo, ai giorni di Clinton.
È l’America che - tra mille errori e contraddizioni - ha dato vita ai diritti civili, che rendono inviolabile ogni individuo, e ai diritti umani, che fanno responsabile di quei diritti ogni governo.
È l’America di Jimmy Carter, che ha restituito il prezioso e strategico canale di Panama ai panamensi, nonostante l’opposizione accanita dell’opinione di destra.
È bene ricordare (su questo il nuovo libro di cui sto parlando fa opportunamente luce) che la nuova destra, con le sue ossessioni di sicurezza, segreto, violabilità dei diritti civili, potenza e prevalenza dello Stato, potenza militare come valore assoluto, comincia molto prima dell’11 settembre. Comincia con il reclamo accademicamente ridicolo, ma effettivamente affermato, di superiorità assoluta della "cultura occidentale" che deve contrapporsi, vincente, a quella di tutti gli altri. Comincia con l’adottare una richiesta perentoria del cristianesimo fondamentalista, espressa come ‟rifiuto del relativismo”. Relativismo vuol dire sapere che accanto alla teoria della pace di Kant esiste la teoria e la pratica di pace di Gandhi. Relativismo vuol dire che gli embrioni forse sono e forse non sono l’origine della vita e dunque "persone intoccabili". Relativismo vuol dire che la specie umana si evolve lungo milioni di anni (la teoria di Darwin) anche se la Bibbia parla di creazione istantanea e di soffio divino della vita. Relativismo è il punto culturale alto di un mondo che si avvia a negare la guerra proprio perché non si fa più campione della verità di uno contro la menzogna di un altro, ma accetta il sospetto che vi siano più verità e più punti di vista, e che essi possano convivere nel rispetto reciproco.
La negazione del relativismo scardina, ovviamente, i fondamenti della Costituzione americana e delle Carte Federali - considerate un capolavoro di tolleranza - su cui essa si fonda. La stessa rigorosa separazione fra Stato e Chiesa, che ha reso possibile l’accettazione e il radicarsi in America di gruppi culturalmente tanto diversi, viene impedita dal rifiuto del relativismo. D’ora in poi una sola verità. Emerge (torna a emergere, come ai tempi di brutte e pericolose culture) il mito dell’Occidente e la presunzione di superiorità che ha dato vita a secoli di colonialismo, e di cui la guerra d’Algeria era sembrata l’ultima tragica tappa.
Quale ostacolo pauroso alla convivenza e alla tolleranza sia la negazione e l’espulsione del relativismo, lo dimostra un documento insignificante per il mondo ma, purtroppo, rivelatore dello stato (soggetto e coloniale) delle cose in Italia. È il discorso di Marcello Pera, presidente del Senato, seconda carica dello Stato, giustamente pubblicato a piena pagina dal ‟Foglio” (14 maggio), organo della più drastica militanza guerriera. Coerentemente sostiene che nel momento in cui ci si sbarazza del relativismo, cioè della tolleranza, la guerra è indispensabile. Anzi è un bene, perché scava trincee, identifica nemici, costruisce barriere che definiscono un Occidente di cui non ci si potrà dimenticare, perché i suoi confini sono segnati dal sangue. Ecco la predicazione (di fronte ad alti prelati) della Seconda carica della Repubblica italiana: "Poiché non c’è Occidente senza Cristianesimo, io ritengo che il Cristianesimo possa contribuire in maniera decisiva a curare la sofferenza dell’Occidente. Questa sofferenza ha un nome noto, relativismo, e da qui comincerò". E spiega ai prelati: primo, che il relativismo può giungere persino a negare il capitalismo, e si vede bene la gravità di questa colpa. Secondo, che, se si accetta il relativismo, nessuna idea dell’Occidente, comprese le sue decisioni politiche, ha più valore universale. Terzo, il puro e semplice esercizio culturale della libertà (Pera addita al pubblico disprezzo le malefatte del filosofo francese Jacques Derrida) può distruggere la democrazia, e impedire la lotta al terrorismo. Il primo punto fa del nostro presidente del Senato un crociato del capitale svincolato dalle correzioni che hanno reso umano (o più umano) il distruttivo capitalismo selvaggio dei tempi di Dickens. Il secondo punto renderà difficilissimo a Pera accogliere - non appena verrà in visita in Italia - la torinese signora Sonja Gandhi divenuta, nel frattempo, primo ministro dell’India. È la più grande democrazia del mondo, munita di una sua poderosa cultura estranea all’Occidente e al Cristianesimo. Il terzo esclude il presidente del Senato dal mondo della cultura contemporanea. Non è un problema per George W. Bush, le cui idee sono scrupolosamente copiate da Pera. Ma lo è certo per qualcuno che ama presentarsi come un filosofo.
S’intende che la conclusione è quella richiesta da un simile percorso: guerra. Dice Pera agli alti prelati che gli facevano da pubblico (presumibilmente stupito): "Se l’Occidente fosse costretto a usare la forza, perché escluderla? Lo stesso Cristianesimo non ammette forse la forza giusta? Sto perorando la consapevolezza che esiste un conflitto di cultura in armi. Sto chiedendo la consapevolezza che il dialogo non serve a niente se si dichiara in anticipo che una tesi vale l’altra". Come vedete il nostro presidente del Senato ha raggiunto la cultura neo-conservatrice americana fino alle sue estreme conseguenze. Che sono: prima del dialogo, gli altri devono riconoscere la nostra superiorità, la nostra religione, i nostri valori. Se uno non si riconosce inferiore, niente dialogo. Ovviamente, niente dialogo è guerra.
Torna Kipling, e l’avventura coloniale inglese (la cui sorte conosciamo). Esce tutta la cultura accumulata in un secolo di sangue, di dolore, di morte, da Bertrand Russel a Martin Luther King, da Primo Levi a Camus, da Niente di nuovo sul fronte occidentale a La grande illusione. Tra sottocultura americana e sottocultura italiana il cerchio si chiude. E resterà chiuso finché le elezioni, in ciascuno dei due Paesi, avranno scardinato il cumulo di povertà intellettuale, di strapotere e di errori.
Per ora il triste nome dato alla prigione di Abu Ghraib, che adesso, dopo la scoperta di una parte delle torture perpetrate in nome della guerra santa dell’Occidente, verrà chiamato ‟Campo di redenzione”, conferma il percorso stralunato di una ‟cultura superiore”. Non sa immaginare come organizzare la lotta al terrorismo e continua a fantasticare, anche dopo il disastro iracheno, di guerre imperiali capaci solo di produrre altro odio, altra morte.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …