Marina Forti: Veglie e proteste per un'impiccagione
24 Agosto 2004
Centinaia di persone hanno vegliato ieri notte davanti alla Alipore Central
Jail, il carcere centrale di Calcutta, India. Una veglia di protesta: candele,
canti, il vecchio We shall overcome che l'americano Pete Seeger aveva
composto per la lotta dei neri per i diritti civili negli Usa degli anni `60.
Cartelli: "la pena di morte è omicidio sponsotizzato dallo stato",
"abolite la pena di morte", "120 paesi hanno abolito la pena
capitale, perché l'India no?". I canti sono cessati quando il cielo
cominciava appena a schiarire. Poco dopo l'ispettore generale delle prigioni è
uscito dal portone del carcere e ha annunciato: "Abbiamo eseguito la pena.
Dhananjoy Chatterjee è stato impiccato alle 4,30". La notizia, diffusa con
i primi notiziari radio del mattino, ha gettato nella disperazione il villaggio
di Kuludihi, 200 chilometri a ovest di Calcutta, dove l'anziano padre del
condannato è il locale brahmino (il prete). Il villaggio è chiuso nel silenzio
in solidarietà, le donne in pianto, la polizia schierata nel timore di
proteste.
Erano quasi dieci anni che una condanna a morte non veniva eseguita in India, e l'impiccagione eseguita ieri mattina a Calcutta ha suscitato particolari polemiche. Il condannato, un uomo di 41 anni, era stato giudicato colpevole dello stupro e uccisione di una ragazza di 14 anni nel 1990, in un appartamento dell'edificio di cui era responsabile come guardiano. In isolamento da allora, ha continuato a proclamarsi innocente fino all'ultimo, mentre l'anziano boia lo portava alla forca (pare che poi abbia avuto un crollo). L'avvocato difensore dice che è stato condannato solo su indizi vaghi. Aveva fatto tutti i ricorsi possibili, sù fino alla Corte suprema. I familiari avevano infine chiesto la grazia al presidente della repubblica Abdul Kalam, che l'ha negata il 4 agosto. Ora gli attivisti dei gruppi indiani contro la pena capitale fanno notare che ci sono 180 condannati a morte nelle carceri indiane, tutti in attesa di appello (le fonti ufficiali parlano di oltre una decina).
In realtà l'India ha fatto pochissimo uso della pena capitale, nei quasi 60 anni trascorsi dalla proclamazione dell'indipendenza (che per pura coincidenza si celebra proprio oggi, il 15 agosto): forse 40 esecuzioni, sempre per impiccagione. La prima fu quella di Naturam Godse, il fanatico che aveva sparato al Mahatma Gandhi. Sono stati condannati e impiccati gli assassini della premier Indira Gandhi (nel 1989). Per l'uccisione di suo figlio Rajiv furono condannate a morte 27 persone, poi però le pene furono convertite per tutti meno 4; uno è stato graziato, gli altri hanno pendenti le domanda di grazia.
Nel 1983 un ricorso contro la forca, considerata un modo crudele di mettere a morte, fallì: la Corte Suprema rifiutò di dichiarare l'impiccagione una "forma di tortura". Ma decretò anche che la pena capitale va comminata "solo nel più raro dei casi rari". In effetti la legge ammette la pena di morte per delitti molto gravi (rapina con omicidio, spingere al suicidio un minore o incapace) o per reati politici (dichiarare guerra al governo, suscitare l'ammutinamento nelle forze armate). E però nel 2002 le leggi di emergenza emanate per "combattere il terrorismo" hanno esteso la pena di morte. Soprattutto, dicono ora gli attivisti di numerosi gruppi contro la pena capitale, si sta affermando un senso comune forcaiolo. Così, dagli anni '70 il numero di condanne a morte era andato calando, ma dalla metà dei `90 ha ricominciato a salire. Ma ancora, l'ultima sentenza era stata eseguita nel `95 (un uomo condannato come serial killer di ragazze).
L'esecuzione della condanna di Dhananjoy Chatterjee ha suscitato grandi polemiche. Molti hanno fatto notare in modo polemico che il Bengala Occidentale, lo stato di cui Calcutta è capitale, è governato dai comunisti: e il ministro della giustizia qui ha dichiarato che l'esecutione è "una punizione esemplare per prevenire simili crimini in futuro". Tra le risposte polemiche quella di Ossie Fernandes, della Campagna contro la Pena di morte: "E' stupefacente che un governo sostenuto dai comunisti decisa di eseguire una condanna a morte in nome del "più raro dei casi rari"". Aggiunge: in nessun posto al mondo la condanna a morte si è mai dimostrata un deterrente al crimine, "è solo un atto vendicativo" e irrevocabile, "usata in modo sproporzionato contro i poveri o le minoranze". Ma tant'è, anche qui vince la politica della "tolleranza zero".
Erano quasi dieci anni che una condanna a morte non veniva eseguita in India, e l'impiccagione eseguita ieri mattina a Calcutta ha suscitato particolari polemiche. Il condannato, un uomo di 41 anni, era stato giudicato colpevole dello stupro e uccisione di una ragazza di 14 anni nel 1990, in un appartamento dell'edificio di cui era responsabile come guardiano. In isolamento da allora, ha continuato a proclamarsi innocente fino all'ultimo, mentre l'anziano boia lo portava alla forca (pare che poi abbia avuto un crollo). L'avvocato difensore dice che è stato condannato solo su indizi vaghi. Aveva fatto tutti i ricorsi possibili, sù fino alla Corte suprema. I familiari avevano infine chiesto la grazia al presidente della repubblica Abdul Kalam, che l'ha negata il 4 agosto. Ora gli attivisti dei gruppi indiani contro la pena capitale fanno notare che ci sono 180 condannati a morte nelle carceri indiane, tutti in attesa di appello (le fonti ufficiali parlano di oltre una decina).
In realtà l'India ha fatto pochissimo uso della pena capitale, nei quasi 60 anni trascorsi dalla proclamazione dell'indipendenza (che per pura coincidenza si celebra proprio oggi, il 15 agosto): forse 40 esecuzioni, sempre per impiccagione. La prima fu quella di Naturam Godse, il fanatico che aveva sparato al Mahatma Gandhi. Sono stati condannati e impiccati gli assassini della premier Indira Gandhi (nel 1989). Per l'uccisione di suo figlio Rajiv furono condannate a morte 27 persone, poi però le pene furono convertite per tutti meno 4; uno è stato graziato, gli altri hanno pendenti le domanda di grazia.
Nel 1983 un ricorso contro la forca, considerata un modo crudele di mettere a morte, fallì: la Corte Suprema rifiutò di dichiarare l'impiccagione una "forma di tortura". Ma decretò anche che la pena capitale va comminata "solo nel più raro dei casi rari". In effetti la legge ammette la pena di morte per delitti molto gravi (rapina con omicidio, spingere al suicidio un minore o incapace) o per reati politici (dichiarare guerra al governo, suscitare l'ammutinamento nelle forze armate). E però nel 2002 le leggi di emergenza emanate per "combattere il terrorismo" hanno esteso la pena di morte. Soprattutto, dicono ora gli attivisti di numerosi gruppi contro la pena capitale, si sta affermando un senso comune forcaiolo. Così, dagli anni '70 il numero di condanne a morte era andato calando, ma dalla metà dei `90 ha ricominciato a salire. Ma ancora, l'ultima sentenza era stata eseguita nel `95 (un uomo condannato come serial killer di ragazze).
L'esecuzione della condanna di Dhananjoy Chatterjee ha suscitato grandi polemiche. Molti hanno fatto notare in modo polemico che il Bengala Occidentale, lo stato di cui Calcutta è capitale, è governato dai comunisti: e il ministro della giustizia qui ha dichiarato che l'esecutione è "una punizione esemplare per prevenire simili crimini in futuro". Tra le risposte polemiche quella di Ossie Fernandes, della Campagna contro la Pena di morte: "E' stupefacente che un governo sostenuto dai comunisti decisa di eseguire una condanna a morte in nome del "più raro dei casi rari"". Aggiunge: in nessun posto al mondo la condanna a morte si è mai dimostrata un deterrente al crimine, "è solo un atto vendicativo" e irrevocabile, "usata in modo sproporzionato contro i poveri o le minoranze". Ma tant'è, anche qui vince la politica della "tolleranza zero".
Marina Forti
Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …