Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. La frontiera insanguinata

10 Settembre 2004
Lampi nella notte illuminano la Grande Muraglia, trenta miglia a Nordovest. Velebit si chiama, precipita da duemila metri. È l'inizio delle Alpi Dinariche, il femore dei Balcani che per mille chilometri corre lungo la costa di Croazia, Erzegovina, Montenegro, Albania, Grecia. Ancora 140 anni fa c'era il Turco là dietro, e i Morlacchi, mitici pastori-guerrieri di quelle montagne, lo hanno combattuto da sempre, proteggendo alle spalle Venezia e il suo "Stato da mar". Tra loro e San Marco, nessun conflitto di interessi: ai Dogi la terra non interessava. Ma anche Vienna capì; e fece dei Morlacchi i protettori della frontiera (Grenze), i cosiddetti "graniciari". Lepanto è lontanissima, ma già compare, arcigna nel temporale, la linea di scontro. Lampi azzurrini, viola, bianchi, verdi, ciclamino. La nuova barca, Xpresso, pare un vascello fantasma, il suo albero di 22 metri un parafulmine. Comincia a piovere, il mare si appiattisce, trovo una zanzara nel vano cuccetta. Capitan Ernesto è già a nanna, ha ottant'anni e dorme profondo come un bambino. La barca è il suo guscio primordiale. È una danese di quattordici metri, nuovissima; spiega più di trecento metri quadrati di vele e reagisce al vento come una gazzella. Anna, la moglie, riordina la cucina, è un tipo ordinato, nulla le sfugge. Bojan, il marinaio sloveno, è fuori a rinforzare gli ormeggi. Canta nel temporale.

Notte fonda. In cuccetta niente di meglio di un vecchio libro, Viaggio in Dalmazia dell'abate Alberto Fortis, anno 1774. C'è scritto che non solo il Turco ma anche la gente della costa ebbe paura dei Morlacchi: "Le città littorali raccontano che questi popoli, dall'avidità di rubare condotti, si portarono sovente agli eccessi più atroci di uccisioni, di incendi, di violenze". Fortis subisce in parte il fascino di questo popolo fiero e indomabile, di cui loda lealtà e ospitalità omerica, ma ammette che i briganti morlacchi si reputavano nobilitati dal solo fatto di essersi "macchiati di sangue turchesco". "Uno spirito di religione mal intesa, combinato con la ferocia, porta costoro violentemente a molestare i confinanti, senza verun riguardo alle conseguenze. In questo hanno colpa sovente i loro ecclesiastici, pieni d'impeto nazionale e di pregiudizi, che mantengono e non di rado riscaldano il fermento dell'odio contro i Turchi, come contro a figliuoli del demonio, invece d'invitar i buoni cristiani a pregar la clemenza divina per la loro conversione". Tuona, i lampi illuminano la Muraglia, mi chiedo se in due secoli e mezzo sia cambiato qualcosa. No, non è cambiato niente. Ancora oggi quei monti lunari sono la madre di tutte le rapine travestite da crociata. Scomparso il turco, si sono assaliti i bosniaci musulmani, si è tirato giù il ponte ottomano di Mostar. Serbi o croati, gran parte degli artefici dell'ultima guerra balcanica sono gente dinarica. Milosevic, Arkan, Karadzic, i collaboratori del presidente Tudjman. Anche il conflitto con la costa resta duro. Uno scontro quasi altimetrico, vista la ripidezza delle montagne. Culturalmente, Zara è più vicina a Istanbul che al proprio selvaggio retroterra. Andarci, ancora oggi mette paura. L'orrore visto in luoghi come Gospic mi chiude ancora oggi la bocca dello stomaco.

Mattina di scirocco duro, pioviggina, la barca taglia verso l'isola di Pago in direzione Est, in un mare color mercurio e onde di traverso. Ogni vento ha la sua voce, quello da Sudest canta sulle sartie in modo morbido, meno metallico rispetto alla bora. Vento, in greco Anemos, dunque anima, soffio vitale. Capitan Erni canticchia al timone nella sua cerata gialla, con l'andatura di bolina perde il suo self-control. Lui sta bene solo col tempo variabile, perché genera vento. "Vi detesto, noiosi anticicloni!", proclama alle raffiche e alla salsedine. Chissà perché in mare un comandante è più comandante che in terra. La barca è totalitaria, una monarchia assoluta. Leggi la storia dei Bounty: c'è solo lui dopo Dio. L'ammutinamento non è solo ribellione gerarchica: è un atto blasfemo. È come se tu mettessi in discussione non solo il Capo, ma l'ordine primordiale che c' è dietro. Ma ancora oggi il comandante conserva speciali poteri. In condizioni eccezionali, può sposare due persone, raccogliere testamento. Oggi la barca resta l'unico posto al mondo dove il proprietario non comanda, non osa mettere il becco in navigazione. Perché? La barca si impenna verso il cielo color piombo, vola come un surf in cima all'onda lunga, combina beccheggio e rollio, plana nel successivo avallamento. Lo scirocco è a trenta nodi. Chissà, forse il mare stesso è un monarca. Al contrario della montagna non offre punti di sosta o di riferimento, non lascia ripari, rifugi. Il mare è una superficie e basta, non sai mai cosa ci sia sotto: secche o abissi insondabili, trenta o mille metri d' acqua. Il mare ti mangia, ti ingloba, ti assorbe. La montagna ti espelle, ti fa cadere, ti rifiuta.

Nel grigio, a prua, compare una lunga striscia bianca, impregnata di luce fredda, fosforica. Sembra il fronte di una banchisa, la dorsale delle Ande dal Pacifico. Invece è Pago, con le sue pietraie aride, quasi libiche. Pago, magra e ustionata, terra di capre. È strano che le isole settentrionali della Dalmazia siano le più africane. Narrano che il fratello di Marco Antonio, quando arrivò navigando da queste parti, scoprì che l'arcipelago "non riusciva a nutrire neppure i cavalli" e che "Cerere non vi spargeva le sue messi". Ancora più a Nord, nascosta dall'ombra scura di Arbe, c'è un'altra isola calva, un'altra bianca fatamorgana. L'ho vista, un giorno, navigare controvento come la gobba di Moby Dick. È Goli Otok, il gulag dove dal 1948 Tito confinò oppositori, comunisti filosovietici, idealisti. Un posto terribile, da cui tanti non tornarono. Gronda sangue l'Adriatico. Guerre di religione, pulizie etniche, battaglie, persecuzioni. Eppure ha assorbito tutto, è rimasto un ponte fra popoli. "È incredibile - mi disse un giorno il grande narratore di questo mare, Sergio Anselmi, morto pochi mesi fa - come sia rimasto uno spazio di intimità". È proprio dal mare che i Balcani mostrano la loro follia. Il mare è di tutti, non puoi farci cantoni etnici. Ai pesci non serve passaporto.
Attracchiamo a Zara, il cielo si apre, sulla banchina è in corso un incredibile duetto tra un gabbiano e un gatto. Fanno a gara a chi urla più forte, sembrano i cantori di Brema. Anna prepara la cena a bordo, io vado a vedere la porta di terraferma, dove hanno restaurato il leone di San Marco scalpellato dai partigiani nel '45. Il restauro è degli anni novanta e fu, per i zaratini, decisione coraggiosa. Allora Venezia voleva dire Italia, e nella testa dei nazionalisti croati gli italiani erano complici degli aggressori serbi e volevano riprendersi la Dalmazia. Ma a Zara hanno la memoria lunga. Sanno che quelli di Venezia furono anni grandi. Il porto - che mai fu preso dal Turco - fu base logistica cruciale per San Marco. Così cruciale che i zaratini furono gli unici, in Dalmazia, ad avere cittadinanza veneziana. La stagione della barbarie venne dopo. Venne con i battaglioni Mussolini, che cantarono "Fuoco per dio sui barbari e sulle croate schiere", incendiarono campi e massacrarono civili. Poi fu il micidiale bombardamento alleato del novembre del '43. E furono le atroci vendette slave (di nuovo i Morlacchi si calarono dai monti), con la fuga in massa degli italiani. Escono le stelle, la Polare brilla sopra il Velebit, il barometro dice che arriva il maestrale.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …