Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. Mostar, il ponte ground zero

13 Settembre 2004
I Turchi devastarono Curzola alla vigilia di Lepanto. Fecero, come si usa dire, carne di porco. Cinquecento anni dopo, lo stato d'assedio perdura. Barbari a migliaia. Barbari d'Occidente. Hanno invaso tutto, vien già voglia di ripartire. E poi, quel che è troppo è troppo. Marko Polo con la "Kappa" andrà bene agli italiani smemorati, non a noi. Marko, croatizzato dal croaticissimo presidente della Croazia ri-croatizzata, Franjo Tudjman. Era un tipetto modesto costui. Narrano che in un viaggio a Pechino ammutolì i cinesi, definendosi capo del "Paese da cui partì Marko Polo". Il bello è che, per de-venetizzare Curzola, l'ha de-dalmatizzata. Ne ha fatto un circo per giapponesi. Ben altro fu Curzola, puoi capirlo solo la notte passeggiando sui muraglioni dove si accendevano i fuochi per segnalare il nemico alle altre fortezze. Curzola, luogo di scontri e incontri, tempeste di mare e tempeste intellettuali. Qui lavorò, negli anni di Tito, la scuola del dissenso, con Habermas e Krleza, von Adorno e Matvejevic. "In nessun altro luogo - mi disse l'ultimo dei quattro - l'Europa fece migliore cortocircuito col mare della complessità".
Avevo giurato: mai più terraferma. Solo isole. E le penisole? Succede che queste non le guardi nessuno, mentre le isole attirano viaggiatori come la carta moschicida. Sbagliatissimo non vedere le penisole. Sono sintesi perfetta della terra e del mare. Sabbioncello, per esempio. Luccica solitaria di fronte a Curzola congestionata, col suo fantastico cimitero dei comandanti alto sullo Stretto. Decido di andarci, regalarmi una giornata di terra. L'appuntamento con la barca è quindici miglia più a Sudest, in un porticciolo di fronte a Meleda. Nel traghetto squinternato trovo nidi di rondine in pieno fermento. Fanno la spola con Curzola dieci volte al giorno. "Tornano ogni anno" mi dice il comandante addentando un toscano, e già nell' aria senti la leggenda di questa piccola Nantucket che diede a Venezia, e dà ancora alla Croazia, capitani e marinai come pochi altri luoghi. Salgo in taxi a Nostra Signora del Carmelo, la chiesa sui roccioni, sopra il paese. Leggo: "È consuetudine che le navi, passando, le rendano omaggio con un colpo di sirena, cui risponde la campana del convento". Sopra, quando resti solo col maestrale, ti manca il fiato. Lastre in pietra grigia del sei-settecento, lisciate dalle intemperie, scendono verso lo stretto e le vele che vi si imbottigliano. Cipressi, vista immensa verso Sudest, vigne, olivastri, aloe. Unici rumori un calabrone e la bandiera croata che sbatte. Accanto, una cappella mortuaria abbandonata, bare vuote scoperchiate. La tomba di Anton Mimbelli, con in cima una donna in pietra bianca che dorme, discinta e sensuale. Dalmata. Il custode infila nella toppa la chiave, mi spalanca il chiostro fuori orario. Dentro, favolosi ex voto. Il capitano B. Marinkovic "in reconoscenza alla B. Vergine di Carmini per l'aiuto nella tempesta del 13 marzo 1886, latitudine 42°13, longitudine 5°50". Un dipinto del 17° secolo con un galeone circondato dai turchi. Tavole votive ancora più antiche, quasi bizantine. Amuleti d'argento a forma di mani, cuori, gambe. Nel corridoio, altre tombe. I nomi: Di Natale, Semunovich, Levada. Erano belli, una volta, i luoghi della morte.
Il taxi traversa i vigneti di Dingac, mi porta sull'altra riva della penisola, quella che guarda la terraferma. Una locanda solitaria, un allevamento di cozze e, lontano, oltre un mare piatto e ventoso da windsurf, la mitica foce della Neretva. Il posto si chiama Drace, e non c'è un turista. Un pergolato, la statua decapitata di un angelo portata da chissaddove, una tovaglia di carta, un fiasco di malvasia, un piatto di mussoli, la locandiera che ti chiede come stai. "Kako ste?". "Dobro", bene. Anzi, magnificamente. Neretva, maledetta Neretva. Vomitò il corpo di Franz Ferdinand dopo l'attentato di Sarajevo. Lo traghettò lungo il fiume il piroscafo Dalmat, la barca esiste ancora, l'ha ritrovata Alessandro Marzo Magno, come leggi nel suo Viaggio in Dalmazia. Poi il corpo se lo portò a Trieste la corazzata Viribus Unitis, la stessa con cui l'erede al trono d' Austria aveva fatto il viaggio d'andata. Anche Massimiliano d'Asburgo andò vivo e tornò morto (dal Messico, dove fu fucilato) con la stessa nave, la fatal Novara. Quello di Franz Ferdinand fu un funerale infinito. La cerimonia si ripeté quattro volte: a Sarajevo, a Trieste, a Vienna e nel suo castello di Arnstetten sul Danubio. Ce lo traghettarono in una notte di temporale, e i cavalli neri, spaventati da un fulmine, per un pelo non finirono in acqua con bara, carrozza e funebri pennacchi. Non era il corpo di un arciduca che andava al cimitero, ma l'anima della vecchia Europa. Anche nel 1991 tutto è cominciato sulla Neretva, e anche allora fu l'Europa a suicidare se stessa.
Guardo la carta, sono su una linea sismica di battaglie fra occidente e Oriente. A Nord Vienna con l'assedio dei turchi. La Bosnia, qui di fronte. La battaglia di Azio, poco sotto Corfù, tra Ottaviano e Cleopatra. Più sotto, Lepanto, dove andremo. Poi Malta, la guardiana del Mar d'Oriente che, con la sua piazzaforte, scrive Sergio Anselmi, "adombrava l'idea del muro oltre al quale, nell'un senso e nell'altro, aumentavano a dismisura i rischi per tutti". Poi Zama, sulla costa d'Africa, il massacro finale tra Roma e Cartagine. E già che ci sei, puoi mettere la battaglia delle battaglie: Salamina. Ma a ben guardare questa stessa linea è piena di punti d'incontro tra i due mondi. Nell'anno di Lepanto, Venezia tenne aperto il fondaco dei Turchi. In mare ci si scannava, ma il commercio faceva la sua strada. Altro che Iraq! Enrico Dandolo, il primo conquistatore di Costantinopoli riposa da 800 anni in Santa Sofia col permesso di Greci prima e Turchi poi. Come se Bush, un giorno, fosse sepolto a Bagdad. A Corfù ortodossi e cattolici venerano gli stessi santi, una volta anche gli ebrei andavano in processione. Ma, soprattutto, Sarajevo. Emancipazione occidentale e delizia d'Oriente, acquavite e kebab, minareti e minigonne, spritz e yogourth annacquato, dolci al miele e sachertorte.
La radio parla di nuovi ammazzamenti a Bagdad e improvvisamente capisco cosa mi ha spinto a questo viaggio. Che senso ha avuto tornare a Lepanto in assenza di anniversari? Davanti alla Neretva, tutto si chiarisce. È stato l'11 settembre. Lo scontro con l'Oriente che torna, che c'è sempre stato, ma ora si autoalimenta, diventa un bubbone, non ha più spazi franchi di coabitazione. L'11 settembre, o forse qualcosa che incubava già prima, nei Balcani. Non c'erano attentati islamici, prima della caduta del ponte di Mostar. Nessuno mise bombe quando 8000 musulmani inermi furono ammazzati in due giorni a Srebrenica. Non ci furono perché il fondamentalismo, invocato a pretesto della guerra, non esisteva. Ma l'estremismo venne, perché fu evocato precisamente allora. Vennero i mujahiddin dal mondo arabo. Avevano trovato una causa per cui combattere. Milosevic generò il nemico che non c'era. E oggi che c'è, oggi che Mostar ha il doppio dei minareti di prima, il mondo intero ha paura e si muove come lui. Per chi crede nelle cabala, c'è anche il gioco dei numeri. Forse tutto cominciò non l'11 del 9, ma il 9 dell'11, il nove novembre, data in cui fu abbattuto il ponte vecchio sulla Neretva. Forse fu quello il vero Ground Zero. Il crollo delle torri gemelle era già racchiuso nell'omicidio rituale di quel simbolo dell'incontro fra Oriente e Occidente.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …