Paolo Rumiz: La rotta per Lepanto. Albania, far west adriatico

17 Settembre 2004
C'è un buco che si spalanca nel mare di Venezia, e quel buco si chiama Albania. A Durazzo l'occhio della polizia è già turco. Siamo l'unica vela da diporto nel raggio di cento miglia ma l'attracco è un luogo misterioso appeso al volere di Allah. Agenti, finanza, capitaneria e Marina sono prontissimi a dirci dove "non si può" stare. Ma appena devono dire dove "si può" stare, tutto cambia. "Mettetevi lì", ci dicono indicando una remota scogliera che dipende da altre autorità costituite. Le quali, egualmente inflessibili, ci rispediscono fra petroliere, pescherecci, terminal-traghetti, banchine alte tre metri e gru arrugginite, mentre una folla di curiosi già si raduna per seguire le nostre evoluzioni. Ci toglie dai guai la Marina italiana con base a Durazzo, raggiunta via telefono per intercessione dell'ambasciata. Due pazienti sottufficiali parlamentano con le tante autorità portuali, aggirano sbarramenti e lentezze della burocrazia, ammorbidiscono le residue rigidità vetero-comuniste, giocano col narcisismo guerriero degli albanesi, usi ad autodefinirsi "antichi illiri". Ci trovano un posto quando già il muezzin miagola la preghiera del tramonto.
Fuori, sul lungomare, è lo struscio più pazzo del mondo. Dieci chilometri di Mercedes ultimo modello e carretti tirati da asini, ragazze con tacchi alti e occhi bassi, scortate da mamme e fratelli attaccabrighe, locali con musiche orientali a tutto volume, contadini con l'orso al guinzaglio. E ancora, chioschi con corna di muflone e videotelefonini, trecce d'aglio contro il malocchio e antenne paraboliche, case nuovissime e pozzanghere, profumo di gelsomino e puzza di plastica bruciata, cani sciolti e venditori dello yogurth più buono del Pianeta. Una Turchia adrenalinica, priva di lentezza. Un infinito, insonne bazar lineare, un serpentone di gente e luci fioche che comincia in mare, dai traghetti strapieni in arrivo dall'estero, dal fiume degli emigranti che rientra là dove la via Appia, finita a Brindisi, diventa via Egnazia e punta su Salonicco. L'ospitalità è tipo Sicilia anni Cinquanta. Se ti siedi a un bar, nella baraonda c'è sempre l'uomo invisibile che paga per te straniero, e tu non saprai mai chi. Alberghi miliardari, dio solo sa fatti per chi e con quali soldi, visto che un funzionario albanese guadagna 200 euro al mese. Il Paese si regge sull'agricoltura e la pastorizia, su traffici più o meno legali, e soprattutto sulle rimesse degli emigranti. Milioni di emigranti prolifici, che tornano sempre - in Mercedes - in questo loro Paese in bilico tra Medioevo e post-modernità. L'Albania è un Pakistan che diventa Far West senza passare per l'Europa e il Mediterraneo. Sembra vicina all'Italia, invece è lontanissima. È già Atlantico. Lo capisci dalle effigi di Bill Clinton, appese ai chioschi come la Madonna del Carmine. Bill il Grande, l'uomo che bombardò il nemico storico degli schipetari, la Serbia.
Incontriamo un italiano, Maurizio Morassutti, 40 anni. Conosce l'Albania come le sue tasche, l'ha traversata in barca metro per metro nel 2003 e assicura che è magnifica, come la Dalmazia cinquant'anni fa. Ci mostra le foto delle barche degli scafisti abbandonate dopo la fine dei traffici umani nel porto di Valona. Ci descrive il castello del pashà Tepelene, le rovine illiriche di Butrinto, i canti pastorali arcaici - quasi mantrici - sentiti a Delvina, un posto sulle montagne. Ci fornisce indicazioni utilissime per il prosieguo del viaggio e giura che questo Paese in dieci anni decollerà. Passerà dal Far West all'Europa. Gli uomini della Finanza e della Marina italiana sono simpatici e tutti tirrenici. Toscani, napoletani, sardi, romani, siculi. Siamo in Adriatico, ma non c'è un marinaio veneto o marchigiano manco a morire. Un giorno mi venne spiegato che Marina mercantile è "cosa" di genovesi e veneziani, Marina militare è "cosa" dei napoletani. Cominciò con l'Unità, nel 1866, dopo che Wilhelm von Tegethoff, ammiraglio della flotta austriaca, batté i nostri a Lissa con una flotta di veneti, triestini e dalmati, e alla fine urlò alle ciurme: "Gavemo vinto!". Sembra che gli ex borbonici nella nostra flotta se la siano legata al dito. Avuta Venezia dai trattati di pace, la misero in quarantena, e presero l'egemonia. Risultato: oggi in Marina si parla napoletano. Anche nel porto di Trieste.
Partiamo per Corfù, la tappa più lunga del viaggio, più di 120 miglia. Anche la più difficile, perché in mezzo c'è Otranto e le sue malfamate correnti. Staremo fuori più di ventiquattr'ore, faremo notte nel punto peggiore del Mar d'Oriente. Siamo matti: non abbiamo carta nautica e nemmeno passaporti validi (a Durazzo ce li hanno benevolmente timbrati lo stesso). Abbiamo, in compenso, due bambini, il che aumenta il mio allarme. Ma il Comandante e il suo vice irradiano una sovrana tranquillità. Il maestrale va, ci spinge sui sei nodi, velocità lussuosa per la nostra barca di un secolo. Alex e Piero alzano tutte le vele, un lavoro da forzati, perché queste scorrono sull'albero non in una fessura-guida, ma con incredibili cerchi di legno unti di sego che serrano l'albero medesimo. Navighiamo al largo, la foschia inghiotte le costa albanese. Il mare è vuoto, mite come una prateria, sembra un Sahel blu. Non svela le vite senza nome che ha inghiottito nei secoli.
"Scopersemo le montagne de la Valona possedute dal Turcho - scrive nel 1480 un pellegrino, tale Santo Brasca, in viaggio per la Terrasanta - in la qual Valona v'erano cento vele del dicto Turcho". "Ritrovandosi su la sera vicini allo scolio di Saxima (Saseno), levossi lo sirocho et appareseno due vele dei Turchi uscite da la ditta Valona, per la qual cosa tutti stessimo con qualche timore et non senza cagione, eo maxime perché, in la pace facta per el Turcho con Venetiani, parmi che alcuno se intenda securo s'el non è del paese loro". Siamo nello stesso punto, alla stessa ora, e anche l'ansia sembra la stessa. Il sole tramonta, Valona è invisibile nella bruma, a prua la notte è come una gola nera che ci cerca. A babordo c' è il fantasma di Saseno, l'isola dove i servizi segreti italiani, ospitati in Albania, controllano Otranto e in questo momento stanno registrando il nostro passaggio. Tutto dovrebbe essere sotto controllo, e invece non è così.
L'Oriente ci sfugge, il pensiero atlantico lo ha allontanato da noi. Venezia sapeva del Turco molto più di quanto noi sappiamo dell'Iraq. Lo si capì con la prima guerra del Golfo. Dissero i generali a Bush senior: "We have successfully bombed a site named Zagura, near Ur", abbiamo bombardato con successo un luogo chiamato Zagura, nei pressi di Ur. Un luogo chiamato Zagura. Non ho mai dimenticato quella frase. Zagura era Ziqquarat, la torre di Ur. I generali non sapevano di aver bombardato la prima torre dell'umanità. L'archetipo di quella di Babele. La Serenissima combatté gli Ottomani, ma li sentì cugini del Levante. Vent'anni prima di Lepanto il doge Andrea Gritti sostenne per tre giorni e tre notti in Senato la causa del dialogo con i musulmani; nel '600 Paolo Sarpi pensò seriamente di impegnare l'ultima stagione della vita in meditazione e studio a Istanbul. Alla metà del Settecento un altro Doge caricò di frumento quarantotto navi in Egitto quale dono per i Turchi stremati da una carestia. Stelle a milioni, notte senza luna. Mi torna in mente una preghiera mesopotamica. "Quieta è la campagna, chiusi gli usci delle case, sprangate le porte della città, serrati i chiavistelli, tace la contrada. Spalancati i portali dell'immenso cielo, i grandi Dei della notte, che vegliano lassù, sono presenti". I bambini dormono quieti nella cuccetta di prua.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …