Marina Forti: Un meeting in nome della diversità

27 Ottobre 2004
È solo l'inizio, ripetono gli oratori che ieri si sono alternati ai microfoni del Palazzo del lavoro di Torino, dove un'assemblea plenaria ha concluso i lavori di Terra Madre. La "rassegna internazionale delle comunità del cibo" chiude i battenti, dopo tre giorni di confronti a cui hanno partecipato quasi cinquemila delegati in rappresentanza di 1.202 "comunità" dalle provenienze più disparate: accomunate però dall'essere donne e uomini che lavorano la terra, raccolgono i frutti delle foreste, pescano, allevano, coltivano, trasformano, e ne hanno fatto non solo un lavoro ma una cultura e un motivo di solidarietà e giustizia. Una rassegna unica, anche se per certi aspetti ricorda un forum di movimenti e organizzazioni non governative come quelli che spesso accompagnano i vertici delle Nazioni unite (del resto anche qui, con 129 nazioni rappresentate, c'era una piccola Onu del cibo) e per altri aspetti poteva sembrare una fiera del "cibo equo e solidale". Non è un movimento politico organizzato, anche se i temi discussi sono quantomai politici: il diritto alla terra e alle sementi, il valore dei mercati locali, i disastri della grande agricoltura "pesante" e una produzione di cibo basata su pochissime varietà ad alto rendimento, la salvaguardia della biodiversità, la battaglia contro i monopoli, l'opposizione agli organismi geneticamente modificati. E la protezione sociale di chi lavora la terra (è toccato alla Coldiretti insistere che tra produrre in modo sostenibile e proteggere i diritti sociali c'è un legame indissolubile). Terra Madre è stata una prima presa di contatto, dicono ora i protagonisti. "È stata l'ouverture, ora bisogna scrivere il resto dello spartito", dice Carlo Petrini, presidente di Slow Food, usando una metafora musicale (la sua associazione è stata il motore di Terra Madre, e questa è una delle differenza tra questa rassegna e un forum o il congresso di un movimento politico: qui è nato tutto da un'estensione dell'idea di "presìdi del gusto" che sta alla base di Slow Food.). Insomma: per tre giorni comunità di produttori di buon cibo venute da tutto il mondo si sono viste, parlate, annusate, "assaggiate" (in senso letterale). E ora, cosa uscirà da questo incontro? L'idea di Petrini è una "rete soft", leggera. "Non vogliamo creare un'organizzazione internazionale, niente strutture burocratiche", ci dice in uno dei rari momenti di calma di questi giorni (pienissimi perché è in corso anche il Salone del Gusto, appuntamento di fama mondiale). "Certo, se qualcuno ci chiede di aprire uno slow food non ci tiriamo indietro. Ma non è questo che ci interessa, non vogliamo mettere il cappello su questa nuova cosa. Invece, è importante che ci siano stati i contatti e che si rafforzino, che ognuno torni a casa sua e diffonda il messaggio". Qui c'erano coloro che in tutto il mondo producono cibo e lo trasformano valorizzando risorse locali e metodi tradizionali: "Lo scambio è importantissimo: qui uno resta colpito dalla capacità di intendersi tra gente diversa", continua Petrini, e ne trae qualche considerazione su identità e culture: "Noi difendiamo le diversità, i saperi tradizionali e le identità legate al cibo, al modo di produrlo, alla cucina. Ma non esiste identità culturale senza scambio. Le comunità rurali non sono entità chiuse: trovo falso il localismo becero della Lega, con la sua concezione di identità come una cosa immutabile, chiusa, da museo". C'erano anche persone che conducono da tempo battaglie intellettuali per definire un nuovo rapporto sostenibile tra umani e risorse naturali: come gli autori del "Manifesto sul futuro del cibo e dell'agricoltura", da Vandana Shiva a Jerry Mander del International forum on Globalization (non c'era invece la sinistra italiana, e Petrini se ne dice "amareggiato").

Marina Forti

Marina Forti è inviata del quotidiano "il manifesto". Ha viaggiato a lungo in Asia meridionale e nel Sud-est asiatico. Dal 1994 cura la rubrica "TerraTerra" che riporta storie quotidiane in …