Giorgio Bocca: Io e i Pinocchi di don Milani

29 Novembre 2004
Di don Lorenzo Milani e dei ragazzi di Barbiana sapevo poco in quegli anni Sessanta in cui per conto del "Giorno" percorrevo freneticamente l’Italia per scoprire il paese reale in cui ero nato e vissuto dopo la parentesi fascista, immaginata più che vissuta, piena di parole più che di cose, e dopo l’avventura partigiana. Sapevo che vicino a Firenze, in un piccolo borgo - quattro case e una chiesa - di nome Barbiana, uno strano prete aveva fondato una scuola per ragazzi poveri dove avvenivano incontri di cultura meravigliosi ma in certo modo preoccupanti, da setta eretica, contro ma dentro la nostra romana ecclesia. Ragazzi poveri che il mattino presto partivano dai loro villaggi, dalle loro povere case per raggiungere Barbiana. La gente del posto li chiamava "i Pinocchi" e del prete aveva fatto un personaggio temibile nelle sue virtù, sicchè dicevano ai bambini "attenti, se non studiate vi mandiamo da don Lorenzo". Che cosa sapevo negli anni Sessanta di don Milani? Poco e confuso. Che era uno di quei preti, di quei cristiani che stavano nella Chiesa detestandola, pragmatici nelle loro opere ma apocalittici nei loro sogni, una specie selvatica e profetica: i Dolci, i La Pira, i Gnocchi che riscoprivano e mettevano in qualche modo assieme il francescanesimo e la rivoluzione sociale. Quella ammirevole ma preoccupante fioritura di preti operai, di teologi della Liberazione sudamericani, di Abbè Pierre, di creatori di scuole e rifugi per i diseredati, di spiriti inquieti e sensitivi che coglievano nell’aria l’annuncio delle prossime tempeste sociali, il Sessantotto del movimento studentesco, l’autunno caldo degli operai, qualcuno forse la lotta armata.

Chi era don Milani?
Un intellettuale di gusti snobistici arrivato alla Chiesa da un ambiente completamente estraneo: di famiglia ebraica, battezzato per sfuggire alle leggi razziali, che all’improvviso entra in seminario con il radicalismo evangelico del convertito e che, diventato prete e mandato in una parrocchia in mezzo alla vecchia vita cattolica - comunioni, funerali, matrimoni, processioni - vede la possibilità di sfuggire a questa routine occupandosi di scuola per essere d’aiuto a questo gregge che non ha parole, che può essere comunista frequentatore della casa del popolo come cattolico legato alla parrocchia. Questi sono i misteri dell’uomo: che un intellettuale di cultura ebraica, biblica, nato in una famiglia di professori emeriti, dal padre al bisnonno, in una famiglia ricca e di gusti snobistici, si getti in un’avventura di riscatto pauperistico ma senza cadere nel culto della povertà. Insomma una di quelle combinazioni e contraddizioni allora lontanissime e ostiche per uno come me, arrivato a un illuminismo pragmatico dalla guerra partigiana. Sapevo di don Milani, dei suoi libri, delle sue opere: ammirevole ma estraneo e per certi versi anche pericoloso. Ricevetti una sua lettera nel '63, se ben ricordo: diceva che leggeva le mie inchieste sull’Italia del miracolo economico e che le faceva leggere ai suoi alunni. Lo ringraziai per avermi accolto in una buona, anzi ottima compagnia. Ricorda uno dei suoi allievi: "Si leggevano le Lettere dal carcere di Gramsci, La peste di Camus, si leggeva Socrate, l’autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima, della bomba atomica. Conoscevamo intellettuali e grandi personaggi. Ma in umiltà. Non potevamo parlare, solo ascoltare". Una scuola miracolosa, ma che a quelli come me metteva i brividi. Quelli come me vivevano ancora l’illusione partigiana di cambiare democraticamente ed economicamente il Paese. I nostri eroi erano figli dell’utopia ma anche realisti, o tali credevano di essere. Erano tipi come Vanoni, come Mattei, come Parri, come Lombardi, con tutti i loro sogni, ma che facevano la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la riforma agraria, che riportavano nell’azione le classi emarginate, che tenevano uniti nella nazione comunisti, socialisti e democristiani. Per cui dei tipi alla don Milani avevamo ammirazione ma sospetti.

Le parole dei borghesi
Certo la scuola di Barbiana come esempio, come modello sembrava ottimo, talmente ottimo da diffidarne. A Barbiana dei ragazzi poveri e senza cultura studiavano oratoria, imparavano a parlare senza aver paura delle parole dei borghesi colti, dei ricchi. Imparavano a scrivere a macchina, sapevano dei primi computer usciti dalla Olivetti. Vedevano film e ne discutevano. E tutto questo avveniva in una borgata sconosciuta. Ricorda il giornalista dell’"Europeo" Pecorini: "Quando il giornale mi chiese di fare un articolo su Barbiana, di cui tanto si parlava, mi accorsi che sulle carte geografiche non c’era".

Ammirazione e dubbi
Il caso di Barbiana riempiva di ammirazione ma anche di dubbi. Che cosa significava questa scuola per i poveri dove si insegnava una cultura non da ricchi ma da super-ricchi, una cultura di èlite ignota, non praticata nella scuola borghese o nei collegi dei cattolici? Un esempio virtuoso? Oppure la scommessa luciferina di un prete prossimo ad essere spretato, che per essere diverso, per essere al di sopra delle miserie e delle vergogne del mondo si era ritirato a Barbiana, una canonica isolata a cui si arrivava per una strada non asfaltata, con la chiesa e un piccolo cimitero, il pergolato e un’aula con il mappamondo, le stelle e i pianeti per studiare l’astronomia, con i diagrammi dell’economia nazionale per capire che sono i poveri a pagare le tasse e come si dividono i flussi delle entrate? La scuola nel paese il cui nome non c’era sulle carte ma in cui si insegnava disegno meccanico, due lingue straniere e persino il nuoto nella piccola piscina fatta dal priore. Lo ammiravamo questo priore coltissimo, generoso, coraggioso, ma eravamo "di un’altra parrocchia", ci interessava il paese delle fabbriche e delle autostrade che cambiava, che cresceva; ci interessavano anche i ricchi "virtuosi", quelli che uscivano dal loro castello con i ponti levatoi alzati e che incontravano giornalisti, sindacalisti, uomini delle professioni umanistiche che riunivano il Paese. Erano in parte illusioni anche le nostre ma poco ideologiche e per nulla teologiche, come quelle che appassionavano e facevano soffrire il nostro don Milani.

Il Savonarola di turno
Don Milani volle incontrare anche Montanelli, il quale ne ricavò subito un articolo per il "Corriere" in cui diceva: "Non condivido le sue pretese classiste secondo cui di cristiano o di suscettibile di diventarlo non c’è che il proletariato. Queste son baggianate che non vale neanche la pena di confutare. Ma perché a rallegrarsi sono stati i miei sentimenti meno nobili, la prudenza, la pigrizia, l’amor per il quieto vivere che don Milani aveva messo in allarme? Egli dice senza dubbio molte cose assurde, quelle che gli hanno valso la condanna del Sant’Uffizio, ma riapre dei conti e ripropone dei problemi cui la mia coscienza di cattolico italiano è piuttosto impreparata e renitente. Non per nulla appartengo alla razza che poco meno di cinquecento anni fa prese il Savonarola, il don Milani di turno, lo legò su una catasta di legna e le diede fuoco. Appunto perché non disturbasse non la quiete pubblica ma quella privata". Con chi non se la prese il priore di Barbiana? E con chi non aveva mille ragioni di prendersela anche se disturbava la nostra quiete? Se la prese con l’arcivescovo di Firenze "quello zitellone che ha paura dei santi e adopera i preti come galoppini elettorali": il superiore che lo aveva esiliato da Firenze a Calenzano. Ce l’aveva con i cappellani militari a cui scrisse una lettera accusandoli di "tacere per continuare a uccidere": e fu processato per istigazione alla renitenza. Don Milani non era contro la Democrazia cristiana ma non tollerava le ragioni sulle quali poggiava l’unità del mondo cattolico. I suoi strali colpivano lo sfacciato impegno politico del clero, aveva una profonda antipatia per la stampa cattolica fatta di luoghi comuni, di menzogne, ma non era un cattolico del dissenso. Egli sembrava accettare la Chiesa come è per coltivare la sua vera vocazione: l’educazione dei ragazzi all’uso della parola. Non si rendeva conto che non poteva chiedere il rispetto della coscienza dell’uomo e l’obbedienza a una istituzione religiosa? Ma queste sue contraddizioni facevano anche parte del suo fascino intellettuale. Era contro la scuola di classe, diffidava della pedagogia ufficiale e del modo in cui veniva messa in pratica fra i banchi. Inutile chiedersi se in queste critiche demolitrici ci fosse un eccesso di intransigenza umana, di incomprensione, di insensibilità verso il lavoro degli insegnanti. Ma il suo insegnamento morale - osserva Geno Pampaloni - si collocava al di là e al di sopra. Basti ricordare la sua celebre lettera a un giovane comunista nella quale in sostanza diceva: quando avrai perso mi troverai accanto a te.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …