Jean-Paul Fitoussi: Il mercato delocalizzato
13 Dicembre 2004
"C’è un solo modo per accedere alla scienza: incontrare un problema, rimanere colpiti dalla sua bellezza, innamorarsene, far nascere problemi-figli, fondare tutta una famiglia di problemi". (Karl Popper).
Molto è stato detto e scritto sulle delocalizzazioni. L’eccellente articolo di Daniel Cohen su queste colonne ha consentito di fare il punto sul dibattito economico allo stato attuale. Se ho ritenuto utile tornare sull’argomento, è perché a mio avviso la questione comporta almeno una dimensione ulteriore, la cui analisi consente di porre in luce molti problemi delle nostre economie in questi tempi di globalizzazione, che si riassumono nella domanda: quale posto assegnare al mercato? La teoria economica e gli sviluppi in atto a partire dalla seconda guerra mondiale hanno portato a concludere che l’internazionalizzazione, e quindi la globalizzazione, abbiano avuto in genere conseguenze favorevoli per le economie aperte agli scambi internazionali. Le delocalizzazioni sarebbero allora solo uno degli elementi di una dinamica di progresso, tesa a migliorare la specializzazione dei singoli paesi nelle produzioni per le quali si trovano in condizioni relativamente più vantaggiose. Le prova migliore di questa tesi sarebbe data dal fatto che tutti i paesi del pianeta cercano di accattivarsi gli investitori stranieri. Di fatto, quella che per un paese è una delocalizzazione per un altro rappresenta un investimento estero diretto. Ma nel momento in cui vengono attuate, le delocalizzazioni hanno conseguenze drammatiche sui territori e sulla sorte delle persone. Il discorso economico che le riduce a semplici episodi nell’ambito di un progresso generale, o le considera come un fenomeno quantitativamente irrilevante e quindi privo di effetti significativi sull’occupazione, è una magra consolazione per le popolazioni colpite. Tanto da apparire cinico - e in un certo senso lo è. Anche se gli economisti dimostrano, prove (statistiche) alla mano, che in genere questi trasferimenti internazionali non danneggiano l’occupazione globale, e si traducono a lungo termine in un arricchimento netto e in un calo della disoccupazione, un discorso del genere equivale a legittimare uno stato di sofferenza sociale e l’aggravamento di squilibri locali in nome di prospettive di miglioramento per altre categorie di popolazione. Una preoccupazione più recente, e a quanto pare più difficile da placare, è legata a un altro fenomeno che va nettamente distinto dal precedente: l’esternalizzazione. Questa pratica, nata dagli scambi internazionali di servizi on line (contabilità, centrali telefoniche, esami radiologici, trattamenti informatici di dati e persino attività di ricerca e sviluppo) riguarda in gran parte settori ritenuti finora al riparo dagli scambi internazionali, ma che ormai fanno parte della categoria dei servizi aperti agli scambi sui mercati mondiali. In passato si chiamavano in causa gli effetti congiunti delle delocalizzazioni e delle nuove tecnologie dell’informazione per spiegare la crescita delle disuguaglianze nei paesi del Nord: il lavoro non qualificato era infatti esposto alla dura concorrenza dei paesi emergenti, mentre quello qualificato era fortemente valorizzato dalle nuove tecnologie. Oggi però l’esternalizzazione alimenta i timori anche per quest’ultimo settore, che rischia anche un calo relativo delle remunerazioni. Con i nuovi sviluppi della globalizzazione, tutte le categorie di lavoratori sono dunque a rischio di disoccupazione e/o di diminuzione del loro reddito. Un’altra importante conseguenza dell’evoluzione in atto è la crescente instabilità dei vantaggi comparativi di ciascun paese negli scambi internazionali. Come ha ricordato e sottolineato il premio Nobel Paul Samuelson in un suo recente articolo, basta un progresso tecnico o un’invenzione in un dato paese per far perdere ad altri il beneficio di questi vantaggi, riducendo durevolmente il loro livello di benessere. Si tratta indubbiamente di un processo di "distruzione creativa", solo che la creazione avviene in un paese e la distruzione in un altro. La storia è costellata di attività produttive abbandonate o drasticamente ristrutturate nei paesi del Nord in conseguenza dello sviluppo nipponico: automobili, apparecchi fotografici, elettronica di largo consumo ecc. Grazie all’innovazione e alla produttività, il Giappone ha saputo contendere ai paesi del Nord i loro vantaggi comparativi in questi comparti (così come Airbus ha ridotto quelli della Boeing). Ma quella conquista non è avvenuta in un giorno, e ha lasciato agli altri attori del mercato internazionale il tempo di ristrutturarsi e di innovare, sotto la pressione della concorrenza. Oggi si ha la percezione di un’instabilità sempre maggiore, risultante dagli effetti congiunti dell’emergere di paesi la cui popolazione assomma a più di due terzi degli abitanti dell’intero pianeta (Cina e India) e delle nuove tecnologie d’informazione e comunicazione. Le quali ultime annullano le distanze, e hanno per di più l’effetto di restringere l’area finora protetta dalla concorrenza internazionale, accrescendo così ulteriormente la potenziale instabilità. L’estensione della sfera del mercato su scala planetaria e la sua penetrazione in seno a ogni società rende quindi più incerta la ripartizione del surplus risultante dagli scambi internazionali. Se l’esistenza di questo surplus non sarà messa in discussione, la sua ripartizione potrebbe diventare tanto sperequata da provocare perdite nette nei paesi che hanno perduto, per qualcuna delle produzioni in cui erano specializzati, il loro vantaggio comparativo. A fronte di questi sviluppi e delle incertezze che si profilano, i governi dispongono di tre possibili strategie. La prima, che rappresenta forse la tentazione maggiore, è evidentemente la via del protezionismo. Ma gli anni 30 ci hanno insegnato fino a che punto le sue ripercussioni possono essere distruttive. La seconda è la concorrenza sul piano fiscale e sociale; ma anche queste misure non coglierebbero nel segno, come è facile prevedere, dato che i loro effetti sui costi sarebbero irrisori a fronte dell’entità dei divari salariali da un paese all’altro. L’uso di quest’arma è tipica dei paesi ricchi, e si fonda sulla retorica della concorrenza "sleale" dei paesi a bassi livelli salariali e scarsa protezione sociale - o in altri termini, poveri. Ma di fatto conduce a intensificare la concorrenza tra paesi ricchi, fornendo loro un pretesto per ridurre l’erogazione di beni pubblici: istruzione, sanità, tutela sociale, misure di assetto del territorio, ricerca e sviluppo, e dei servizi pubblici in generale. Fondata com’è su un sillogismo - i paesi ricchi sono penalizzati negli scambi internazionali perché ~ sono ricchi ("i primi saranno gli ultimi") - rischia di condurre a un impoverimento generale. Si crede forse che i vantaggi comparativi dei paesi del Nord siano indipendenti dalla qualità e dall’importanza dei beni pubblici erogati alla popolazione? Come si vede, nel dibattito sulle delocalizzazioni si fa confusione tra concorrenza privata - la quale accresce il benessere aumentando la varietà dei prodotti e riducendone il prezzo - e concorrenza pubblica (tra Stati) che al contrario, se è concepita esclusivamente in termini di riduzione dei prelievi obbligatori, comprime il benessere causando il degrado dei servizi pubblici. Infine, la terza strategia è la via della "concorrenza attraverso il sapere". Se è il progresso delle conoscenze e competenze a scompaginare (com’è sempre avvenuto nella storia) le frontiere dei vantaggi comparativi tra i singoli paesi, non c’è da temere che la Cina e l’India producano "troppi" diplomati e laureati? Per poter partecipare alla corsa ai nuovi vantaggi conviene quindi investire nell’istruzione, nella ricerca e nello sviluppo in tutti i campi dell’attività economica. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che questa strategia, se sarà adottata da tutti, finirà per rivelarsi non meno incerta di quella precedente. I paesi emergenti potrebbero anzi trovarsi avvantaggiati, dato che i loro sistemi in materia di istruzione e di ricerca non sono, come i nostri, prigionieri di strutture antiquate. Ma a differenza dalla strategia della concorrenza fiscale e sociale, quella fondata sul sapere accrescerebbe un bene pubblico: il "sapere" ne guadagnerebbe in senso quantitativo e qualitativo. E al tempo stesso consentirebbe alla concorrenza privata di generare più benessere grazie all’innovazione e al conseguente arricchimento dell’area dei beni mercantili. Una strategia del genere è tuttavia credibile solo a condizione di non rimanere fermi alle buone intenzioni, ma di porre invece al suo servizio gli altri strumenti della politica economica, e in particolare la politica dei cambi. è quanto meno paradossale, se non assurdo, lamentarsi della concorrenza mondiale accettando al tempo stesso passivamente la sopravvalutazione della propria moneta! Di fatto, una moneta sopravvalutata, lungi dall’agevolare le fasi di transizione legate alla perdita progressiva di un vantaggio comparativo, non fa che esacerbarne la violenza. E inoltre - cosa ancora più grave - rischia di soffocare sul nascere i vantaggi comparativi di domani, dato che le industrie nascenti hanno bisogno di un mercato per affermarsi. A questo riguardo è il caso di rilevare una circostanza significativa, che potrebbe essere una semplice coincidenza, ma va comunque sottolineata: gli Stati Uniti hanno costruito il loro vantaggio comparativo nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione essenzialmente negli anni 90 (o piuttosto dalla fine degli anni 80 fino al 1996), cioè in un periodo nel quale la quotazione del dollaro era bassa. L’attuale debolezza della valuta Usa non potrebbe allora preludere alla costituzione di un vantaggio comparativo americano nelle biotecnologie? Anche se si trattasse solo di una coincidenza, questo dato consente di illustrare il modo in cui la politica dei cambi può essere posta al servizio di una strategia di crescita, offrendo a un’industria nascente un elemento di competitività in più, per consentirle di arrivare più celermente alla sua piena maturazione. Nel caso di quest’ultima strategia la politica rimette il mercato al suo posto: ne limita le conseguenze negative sulla società e lo strumentalizza al servizio di un obiettivo di progresso economico e sociale, nel cui ambito i beni pubblici e privati non sono posti in uno sterile rapporto di sostituzione, ma diventano dinamicamente complementari.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Molto è stato detto e scritto sulle delocalizzazioni. L’eccellente articolo di Daniel Cohen su queste colonne ha consentito di fare il punto sul dibattito economico allo stato attuale. Se ho ritenuto utile tornare sull’argomento, è perché a mio avviso la questione comporta almeno una dimensione ulteriore, la cui analisi consente di porre in luce molti problemi delle nostre economie in questi tempi di globalizzazione, che si riassumono nella domanda: quale posto assegnare al mercato? La teoria economica e gli sviluppi in atto a partire dalla seconda guerra mondiale hanno portato a concludere che l’internazionalizzazione, e quindi la globalizzazione, abbiano avuto in genere conseguenze favorevoli per le economie aperte agli scambi internazionali. Le delocalizzazioni sarebbero allora solo uno degli elementi di una dinamica di progresso, tesa a migliorare la specializzazione dei singoli paesi nelle produzioni per le quali si trovano in condizioni relativamente più vantaggiose. Le prova migliore di questa tesi sarebbe data dal fatto che tutti i paesi del pianeta cercano di accattivarsi gli investitori stranieri. Di fatto, quella che per un paese è una delocalizzazione per un altro rappresenta un investimento estero diretto. Ma nel momento in cui vengono attuate, le delocalizzazioni hanno conseguenze drammatiche sui territori e sulla sorte delle persone. Il discorso economico che le riduce a semplici episodi nell’ambito di un progresso generale, o le considera come un fenomeno quantitativamente irrilevante e quindi privo di effetti significativi sull’occupazione, è una magra consolazione per le popolazioni colpite. Tanto da apparire cinico - e in un certo senso lo è. Anche se gli economisti dimostrano, prove (statistiche) alla mano, che in genere questi trasferimenti internazionali non danneggiano l’occupazione globale, e si traducono a lungo termine in un arricchimento netto e in un calo della disoccupazione, un discorso del genere equivale a legittimare uno stato di sofferenza sociale e l’aggravamento di squilibri locali in nome di prospettive di miglioramento per altre categorie di popolazione. Una preoccupazione più recente, e a quanto pare più difficile da placare, è legata a un altro fenomeno che va nettamente distinto dal precedente: l’esternalizzazione. Questa pratica, nata dagli scambi internazionali di servizi on line (contabilità, centrali telefoniche, esami radiologici, trattamenti informatici di dati e persino attività di ricerca e sviluppo) riguarda in gran parte settori ritenuti finora al riparo dagli scambi internazionali, ma che ormai fanno parte della categoria dei servizi aperti agli scambi sui mercati mondiali. In passato si chiamavano in causa gli effetti congiunti delle delocalizzazioni e delle nuove tecnologie dell’informazione per spiegare la crescita delle disuguaglianze nei paesi del Nord: il lavoro non qualificato era infatti esposto alla dura concorrenza dei paesi emergenti, mentre quello qualificato era fortemente valorizzato dalle nuove tecnologie. Oggi però l’esternalizzazione alimenta i timori anche per quest’ultimo settore, che rischia anche un calo relativo delle remunerazioni. Con i nuovi sviluppi della globalizzazione, tutte le categorie di lavoratori sono dunque a rischio di disoccupazione e/o di diminuzione del loro reddito. Un’altra importante conseguenza dell’evoluzione in atto è la crescente instabilità dei vantaggi comparativi di ciascun paese negli scambi internazionali. Come ha ricordato e sottolineato il premio Nobel Paul Samuelson in un suo recente articolo, basta un progresso tecnico o un’invenzione in un dato paese per far perdere ad altri il beneficio di questi vantaggi, riducendo durevolmente il loro livello di benessere. Si tratta indubbiamente di un processo di "distruzione creativa", solo che la creazione avviene in un paese e la distruzione in un altro. La storia è costellata di attività produttive abbandonate o drasticamente ristrutturate nei paesi del Nord in conseguenza dello sviluppo nipponico: automobili, apparecchi fotografici, elettronica di largo consumo ecc. Grazie all’innovazione e alla produttività, il Giappone ha saputo contendere ai paesi del Nord i loro vantaggi comparativi in questi comparti (così come Airbus ha ridotto quelli della Boeing). Ma quella conquista non è avvenuta in un giorno, e ha lasciato agli altri attori del mercato internazionale il tempo di ristrutturarsi e di innovare, sotto la pressione della concorrenza. Oggi si ha la percezione di un’instabilità sempre maggiore, risultante dagli effetti congiunti dell’emergere di paesi la cui popolazione assomma a più di due terzi degli abitanti dell’intero pianeta (Cina e India) e delle nuove tecnologie d’informazione e comunicazione. Le quali ultime annullano le distanze, e hanno per di più l’effetto di restringere l’area finora protetta dalla concorrenza internazionale, accrescendo così ulteriormente la potenziale instabilità. L’estensione della sfera del mercato su scala planetaria e la sua penetrazione in seno a ogni società rende quindi più incerta la ripartizione del surplus risultante dagli scambi internazionali. Se l’esistenza di questo surplus non sarà messa in discussione, la sua ripartizione potrebbe diventare tanto sperequata da provocare perdite nette nei paesi che hanno perduto, per qualcuna delle produzioni in cui erano specializzati, il loro vantaggio comparativo. A fronte di questi sviluppi e delle incertezze che si profilano, i governi dispongono di tre possibili strategie. La prima, che rappresenta forse la tentazione maggiore, è evidentemente la via del protezionismo. Ma gli anni 30 ci hanno insegnato fino a che punto le sue ripercussioni possono essere distruttive. La seconda è la concorrenza sul piano fiscale e sociale; ma anche queste misure non coglierebbero nel segno, come è facile prevedere, dato che i loro effetti sui costi sarebbero irrisori a fronte dell’entità dei divari salariali da un paese all’altro. L’uso di quest’arma è tipica dei paesi ricchi, e si fonda sulla retorica della concorrenza "sleale" dei paesi a bassi livelli salariali e scarsa protezione sociale - o in altri termini, poveri. Ma di fatto conduce a intensificare la concorrenza tra paesi ricchi, fornendo loro un pretesto per ridurre l’erogazione di beni pubblici: istruzione, sanità, tutela sociale, misure di assetto del territorio, ricerca e sviluppo, e dei servizi pubblici in generale. Fondata com’è su un sillogismo - i paesi ricchi sono penalizzati negli scambi internazionali perché ~ sono ricchi ("i primi saranno gli ultimi") - rischia di condurre a un impoverimento generale. Si crede forse che i vantaggi comparativi dei paesi del Nord siano indipendenti dalla qualità e dall’importanza dei beni pubblici erogati alla popolazione? Come si vede, nel dibattito sulle delocalizzazioni si fa confusione tra concorrenza privata - la quale accresce il benessere aumentando la varietà dei prodotti e riducendone il prezzo - e concorrenza pubblica (tra Stati) che al contrario, se è concepita esclusivamente in termini di riduzione dei prelievi obbligatori, comprime il benessere causando il degrado dei servizi pubblici. Infine, la terza strategia è la via della "concorrenza attraverso il sapere". Se è il progresso delle conoscenze e competenze a scompaginare (com’è sempre avvenuto nella storia) le frontiere dei vantaggi comparativi tra i singoli paesi, non c’è da temere che la Cina e l’India producano "troppi" diplomati e laureati? Per poter partecipare alla corsa ai nuovi vantaggi conviene quindi investire nell’istruzione, nella ricerca e nello sviluppo in tutti i campi dell’attività economica. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che questa strategia, se sarà adottata da tutti, finirà per rivelarsi non meno incerta di quella precedente. I paesi emergenti potrebbero anzi trovarsi avvantaggiati, dato che i loro sistemi in materia di istruzione e di ricerca non sono, come i nostri, prigionieri di strutture antiquate. Ma a differenza dalla strategia della concorrenza fiscale e sociale, quella fondata sul sapere accrescerebbe un bene pubblico: il "sapere" ne guadagnerebbe in senso quantitativo e qualitativo. E al tempo stesso consentirebbe alla concorrenza privata di generare più benessere grazie all’innovazione e al conseguente arricchimento dell’area dei beni mercantili. Una strategia del genere è tuttavia credibile solo a condizione di non rimanere fermi alle buone intenzioni, ma di porre invece al suo servizio gli altri strumenti della politica economica, e in particolare la politica dei cambi. è quanto meno paradossale, se non assurdo, lamentarsi della concorrenza mondiale accettando al tempo stesso passivamente la sopravvalutazione della propria moneta! Di fatto, una moneta sopravvalutata, lungi dall’agevolare le fasi di transizione legate alla perdita progressiva di un vantaggio comparativo, non fa che esacerbarne la violenza. E inoltre - cosa ancora più grave - rischia di soffocare sul nascere i vantaggi comparativi di domani, dato che le industrie nascenti hanno bisogno di un mercato per affermarsi. A questo riguardo è il caso di rilevare una circostanza significativa, che potrebbe essere una semplice coincidenza, ma va comunque sottolineata: gli Stati Uniti hanno costruito il loro vantaggio comparativo nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione essenzialmente negli anni 90 (o piuttosto dalla fine degli anni 80 fino al 1996), cioè in un periodo nel quale la quotazione del dollaro era bassa. L’attuale debolezza della valuta Usa non potrebbe allora preludere alla costituzione di un vantaggio comparativo americano nelle biotecnologie? Anche se si trattasse solo di una coincidenza, questo dato consente di illustrare il modo in cui la politica dei cambi può essere posta al servizio di una strategia di crescita, offrendo a un’industria nascente un elemento di competitività in più, per consentirle di arrivare più celermente alla sua piena maturazione. Nel caso di quest’ultima strategia la politica rimette il mercato al suo posto: ne limita le conseguenze negative sulla società e lo strumentalizza al servizio di un obiettivo di progresso economico e sociale, nel cui ambito i beni pubblici e privati non sono posti in uno sterile rapporto di sostituzione, ma diventano dinamicamente complementari.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Jean-Paul Fitoussi
Jean-Paul Fitoussi (1942) è professore all’Institut d’études politiques di Parigi e presidente dell’Ofce, l’Osservatorio francese delle congiunture economiche. Fa parte del consiglio di amministrazione di Telecom e del consiglio di …