Beppe Sebaste: Il fantasma della realtà

17 Dicembre 2004
La primavera scorsa, uscendo dalla facoltà di Lettere a Bologna, mi imbattei in una "Festa dell’Università". Alcuni più "anziani", tra cui lo scrittore Enrico Palandri e il cantante Claudio Lolli, erano sollecitati a parlare degli anni Settanta. Alle loro spalle una scritta ingrandita: "il personale è politico". Diceva una studentessa: questa frase ci piace molto, ma non ci è molto chiara; il nostro personale ci sembra oggi "troppo personale"; leggendo i vostri romanzi abbiamo nostalgia per una narrazione che si prende carico della vita quotidiana, dal costo delle case ai problemi dei giovani, al corpo, i desideri, l’amore, ecc. La ragazza e gli altri studenti non avevano dubbi che la letteratura di quegli anni fosse immediatamente politica ed esprimesse la realtà, proprio mentre le enunciazioni del periodo avevano espunto ogni idea preformata della realtà, ogni ideologia e dover essere. Parlo degli anni della creatività ludica, critica, affermativa che sfociò nel Settantasette. Non della lotta armata che uccise quel movimento, anche se oggi noto con raccapriccio una rimozione collettiva di quella ricchezza, chiusa nel buco nero della formula falsa e triste degli "anni di piombo". Il personale è politico (e viceversa) era uno dei modi per esprimere e praticare la fine della frattura artificiosa tra i diversi ambiti della vita: dove comincia la politica, dove finisce? Dove inizia la realtà?
Diceva il filosofo Wittgenstein che non esiste linguaggio privato. In effetti è un ossimoro, la parola attesta che l’uomo è un essere relazionale. Un libro di appunti sull’amore del 1948 di Günther Anders (Amare, ieri), dice cose che preludono alla futura teoria femminista della differenza sessuale, sulla rimozione del privato dai discorsi, e della sessualità dalle parole e dal pensiero. Anche eros è politica, fonte di responsabilità, di pace e/o guerra, crescita o regressione. Nascondersi dietro un presunto privato è vano e falso: significa davvero privare la vita (e la politica) dell’unica cosa che la feconda e la motiva. Nei mesi scorsi era stato attorno a un "fantasma della realtà" che su diversi giornali (tra cui questo) si incrociarono dibattiti accesi, invocando quasi un dovere astratto di rappresentazione del mondo, parodia di una precettistica lukacsiana. Lontano anni luce da quella spontaneità anni ’60 e ’70 in cui le enunciazioni si fondevano con la realtà politica e sociale, senza doversi guardare narcisisticamente dal di fuori. Nessuno, allora, avrebbe accusato i romanzi di Gianni Celati o i fumetti di Andrea Pazienza di non saper rappresentare il mondo, pur essendo sganciati da ogni engagement. Né si accusava di intimismo un autore scoperto in quegli anni come Bukowski, che in ogni sua opera riflette il mondo a partire dalla propria pancia.
Il fantasma della realtà, l’oblio che rende oggi affascinanti e temibili gli anni ’70, è soprattutto oblio della vita: privata allo sguardo. I libri di Anders o Marcuse parlano della nostra alienazione con più nitore di qualsiasi analisi di oggi. La vita contro la morte, si diceva. Erano il retroterra degli anni Settanta, quando era naturale che solo i fantasmi possono essere crudeli, con la realtà ci si può sempre arrangiare.

Beppe Sebaste

Beppe Sebaste (Parma, 1959) è conoscitore di Rousseau e dello spirito elvetico, anche per la sua attività di ricerca nelle università di Ginevra e Losanna. Con Feltrinelli ha pubblicato Café …