Furio Colombo: In memoria di una signora amica. La morte di Susan Sontag.

29 Dicembre 2004
Era una nuvola di capelli neri, Susan Sontag, quando ha cominciato ad alzare la voce e a farsi sentire in un mondo in fermento però affascinato più dal fare la rivoluzione come teatro che dal cambiare davvero le carte in tavola. Era giovane, sfacciata e totalmente nuova la ragazza Sontag degli anni Sessanta che parlava in una America popolata di grandi decisi a non tacere (è l’epoca di Norman Mailer, di Leonard Bernstein, di Allen Ginsberg, del Living Theatre, di happenings e di Pop Art, di Rauschemberg e di Jasper Jones mentre Barnett Newman e Rohtko sono ancora sulla scena) e riesce a farsi sentire.
Sulla neonata e subito prestigiosa ‟New York Review of Books” Sontag è immediatamente al centro con due lavori, il saggio sulla fotografia, che cambia il senso di fare critica e del fare letteratura, e La malattia come metafora, che oggi è un testo nei dipartimenti umanistici, in quelli di medicina e negli studi di psicologia perché ha spostato, tra i pazienti e tra i medici, tra i narratori letterari e quelli scientifici, il senso della malattia, del viverla, del curarla, del patire, del morire.
Era una nuvola di capelli bianchi quando è venuta all’Istituto Italiano di Cultura, nel 1992, a parlare del suo romanzo "italiano" The vulcano lover. La corte dei Borboni e la Repubblica napoletana, Eleonora De Fonseca e l’ammiraglio Nelson, la corte, la rivoluzione e l’infinita, dettagliata crudeltà della ragion di Stato. In un periodo intermedio, che adesso nella mia memoria è incerto, quando i suoi capelli folti ostentavano in mezzo al nero corvino una grande striscia bianca, ci siamo incontrati in Israele dove lei lavorava a un documentario difficile da dimenticare sui soldati che impazziscono in guerra. Era una ebrea orgogliosa e antiguerra, che fronteggiava tranquillamente da sola gli attacchi più violenti e i tentativi di screditamento più subdoli. Alla fine era in piedi, pronta a ricominciare.
Era un’americana così orgogliosa del suo Paese e della sua bandiera da non poter tollerare guerre e vergogne, Vietnam e Pinochet, e proprio i suoi avversari non hanno mai dimenticato. È stata, sulla scena americana, e molte volte anche sulla scena del mondo, una protagonista senza pace e senza vacanze, sempre occupata a girarsi in mano l’oggetto del suo destino. Che cosa vuol dire essere americani celebri, dunque ascoltati, dunque capaci di dominare la scena? Vuol dire trattenere la voce e moderare il giudizio per il buon nome del grande Paese, o reagire subito, quando ti sembra intollerabile che certi personaggi si servano del nome del Paese per fare una politica che disonora e non è umana?
Susan Sontag mancherà all’America, che è stata onorata e resa più grande non solo dal suo lavoro, ma anche dal suo dissenso. Mancherà agli europei che si erano abituati a vedere in lei, nella sua energia agile e prensile, la persona che - mentre crea - lega due mondi. Mancherà ai suoi amici che sapevano il privilegio del parlare con lei di cose di cui non si parla più, perché si finisce per credere che la disputa politica sia cosa poco educata.
Nei giorni in cui l’Unità è tornata in edicola c’era anche la sua lettera: "Mai tacere, mai rinunciare". Per noi è più di un ricordo.

Furio Colombo

Furio Colombo (19319, giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996. Oltre che negli Stati …