Paolo Di Stefano: Lo stile Luzi, arte e impegno in versi

11 Marzo 2005
Mario Luzi, uno dei più grandi poeti italiani, è morto ieri nella sua abitazione fiorentina. Aveva 90 anni. La camera ardente è stata allestita in Palazzo Vecchio e resterà aperta fino alle 21 di stasera. I funerali domani alle 11 nel Duomo di Firenze. In uno dei suoi ultimi libri, Mario Luzi denunciò come un paradosso il fatto che in Italia le attività pubbliche della polis vengano separate dalla cultura. Era un invito alla conciliazione tra arte e politica. Una conciliazione che Luzi stesso portò a frutto con interventi anche durissimi sull’attuale situazione italiana, specie da quando in ottobre fu nominato senatore a vita. Ma quella conciliazione già covava da tempo nella sua poesia. Il suo lungo percorso poetico ("il più vasto attraversamento del possibile della poesia", lo definì Giovanni Raboni, cui solo gli accademici del Nobel vollero rimanere sordi) lo condusse dai toni solenni ed elegiaci della stagione ermetica all’immersione nel magma o nel "corpo oscuro" della storia negli anni ‘60-’80, alle luminose altezze contemplative e filosofiche dell’ultima fase. Con la sua lingua poetica Luzi è passato dalle "emozioni elementari" della sua prima raccolta (La barca, 1935) alla scoperta di una colloquialità che apre il verso alla prosa. Per lui, del resto (come disse nel 2003, quando divenne accademico della Crusca), la lingua è un "cantiere sempre in attività... dove anche pezzi e strumenti in disuso possono tornare utili". A questo cantiere, infatti, i suoi versi attingono tutti i materiali possibili. Riteneva che la sintonia dei poeti con il mondo è variabile e "su di essa incidono anche le ragioni della storia". Nacque nel 1914 a Castello, frazione di Sesto Fiorentino da Ciro, impiegato ferroviario, e da una madre che gli evocava un "mondo di religione contadina ed elementare molto intensamente vissuto". Si laureò in letteratura francese, su Mauriac. Con la prima raccolta, Bo parlò subito della sua poesia come di un’"immagine esemplare". Da qui un’identificazione necessaria quanto alla lunga riduttiva: il giovanissimo Luzi diventò il poeta ermetico per eccellenza, quasi il titolare della poesia pura alla Mallarmé. Non ancora trentenne, era già considerato un maestro della sua generazione. In realtà non c’è una vera cesura tra il Luzi ermetico, apparentemente estraneo a ogni contingenza, e l’esperienza poetica che seguirà. La continuità sta in quella che Raboni definì "un’idea latente di genesi perpetua". Proprio le immagini del pellegrino in transito, del suo passaggio purgatoriale e della metamorfosi sono tra le figure ricorrenti nel Luzi maturo. E possono benissimo rappresentare il lungo corso del poeta nella sua parola mutevole e molteplice. Con raccolte come Primizie del deserto e Onore del vero (1957), le "ragioni della storia", che durante il fascismo avevano imposto un desiderio di astrazione, aprono la sua poesia all’intensità del presente e alle ansie collettive. Sempre con quel senso cristiano dell’assoluto che rimane un suo tenace filo conduttore (nel ‘99 il Papa gli commissionò il testo della Via Crucis di Pasqua). Luzi, ha scritto Giuliano Gramigna, è poeta "naturale" in senso lucreziano "nell’avvertire l’universo come grande Corpo animale, spirituale e fisico". Un passo verso un confronto più aperto con il mondo si avrà nel ‘63 con Nel magma, dove l’io lirico si scinde, si mette in gioco, diventa personaggio sospeso tra il torpore quotidiano e il vuoto della storia, sia pure illuminato qua e là da squarci trascendenti. Il tutto veicolato da una "musica nuova", un flusso più narrativo, in cui sono presenti veri e propri dialoghi e paesaggi di lavoro, di scontro, di malattia, di malinconia familiare ("La rivedo ora non più sola, diversa, / nella stanza più interna della casa...") . Sono gli anni in cui Luzi dichiara la sua opzione dantesca: non più il limbo petrarchesco, ma i colori infernali. Il vissuto collettivo (anche incandescente, come il terrorismo) e quello che è stato definito da Mengaldo l’"epos negativo" si affermano nelle raccolte successive, fino a Per il battesimo dei nostri frammenti (1985). Con le opere degli anni ‘90, da Frasi e incisi di un canto salutare (1990) in poi, si arriva all’ultima fase di quella ideale tripartizione con cui sempre Raboni ha voluto scandire l’opera di Luzi, quasi si trattasse delle cantiche di una personale Commedia. Compreso quel bellissimo Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: canto al pittore senese e alla sua arte "che non aveva storia - divorata / dalla beltà, assetata di grazia". Una fase la cui "vertiginosa coralità filosofica" prova a ricomporre gli opposti: terra-cielo, sogno-realtà, cultura-natura, vita-morte. Quasi cercando faticosamente di recuperare con la parola uno stato di originaria serenità: "Dentro la lingua avita, / fin dove, / fino a quale primo seme / della balbuzie umana?". "Il punto di partenza di una poesia - ha detto - è come il baricentro di un piccolo terremoto...". Luzi si mise alla ricerca di questi piccoli "terremoti", come un sismologo finissimo, anche da critico guardando ai suoi autori, da Mallarmé a Dante, e ai suoi contemporanei, con i quali fu sempre molto generoso. Come con i suoi studenti prima liceali poi universitari (dichiarava di aver raggiunto i suoi risultati migliori come insegnante di letteratura francese). Fu anche scrittore di teatro, traduttore, critico cinematografico in anni lontani. Appassionato di musica fino a essere prefatore entusiasta di De André. Il più tenace pellegrino della nostra poesia (tra i maggiori del ‘900) voleva attraversare ogni campo della parola.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …