Giorgio Bocca: Tra Cina e Taiwan equilibrio pericoloso

25 Marzo 2005
La diplomazia delle grandi potenze sembra annunciare che siamo alle soglie dall'apocalisse. Nelle sue schermaglie, nei suoi duelli non c'è più nulla di ragionevole, c'è l'assurdo appeso al filo sottile del caso.
I rapporti tra la Cina capitalcomunista di Pechino e l'America neoconservatrice di Washington sono più adatti a una clinica psichiatrica che a delle cancellerie moderne. Entrambe sanno che la guerra sarebbe la fine del mondo, il loro e quello di tutti, ma non vogliono ammetterlo. Da anni sul tema di Taiwan gli americani seguono la politica detta ‟One China”: c'è una sola Cina ed è quella comunista di Pechino con il suo seggio permanente alle Nazioni Unite, con il suo ambasciatore titolato presso il governo di Washington, ma c'è anche la Cina di Taiwan, uno Stato di fatto per la cui difesa gli Stati Uniti sono pronti a fare la guerra.
Ma come si risolve questa insanabile contraddizione? Come funziona questa assurda trovata? Con due leggi che possono convivere fin che le due parti fingono che non esistono.
La legge su Taiwan degli americani, più volte confermata dal Congresso, impegna i loro governi a mantenere l'equilibrio militare fra Taiwan e la Cina, cioè a mantenere la sua separazione ma senza legittimarne l'esistenza.
La legge cinese contro la secessione, che prevede un'azione militare contro l'isola secessionista, non significa però automaticamente il ricorso alla guerra, ma si richiama a una futura trattativa pacifica e gli Stati Uniti stando al gioco hanno un'ambasciata a Pechino ma non a Taipei.
Tutto come prima? No, secondo le astuzie diplomatiche. Prima Taiwan poteva continuare nelle sue provocazioni indipendentiste e il presidente Chen Shui Bian poteva tirare la corda chiedendo l'indipendenza. Ora la posta del gioco è diventata troppo grande.
Che ragionamenti! Siamo semplicemente al punto di prima: Taiwan e gli Usa tirano avanti nelle reciproche menzogne come fanno da cinquantacinque anni.
La Cina rossa spera di farcela pacificamente perché cresce la dipendenza economica di Taiwan che ha investito in Cina 100 milioni di dollari. Come poi avverrà in pratica, la soluzione pacifica della vertenza lo spiega il Tibet dove l'immigrazione cinese è stata in questi anni schiacciante: si contano quattro cinesi per ogni tibetano e la difesa dei diritti civili dei tibetani è diventata una questione interna cinese.
L'ultimo rapporto di Human Right Watch informa che la libertà religiosa è soffocata, si praticano la detenzione arbitraria, la tortura, le percosse dei detenuti.
Il processo farsa al lama Tenzin Delek, accusato di separatismo si è concluso con una condanna all'ergastolo.
Si è arreso anche il Dalai Lama: "Siamo disposti", ha dichiarato, "ad essere parte della Repubblica popolare. Il Tibet fa parte della Cina, è una Repubblica autonoma. La cultura tibetana e il buddismo sono parte della cultura cinese".
"Si è persino dimenticato che il buddismo nel Tibet è arrivato non dalla Cina, ma dall'India", sostiene il politologo Beck e che queste grandi contraddizioni fanno parte del nuovo modo globale di vedere il mondo, di non fermarsi ai criteri e alle verità nazionali, ma di allargarli a tutti i popoli e a tutti i continenti. Un modo elegante per confessare che siamo in pieno stato di anarchia e che a trattenere le massime potenze da una volontà imperialistica c'è soltanto la loro inadeguatezza al compito, soltanto la paura di questa quarta guerra mondiale a cui il mondo degli uomini non sopravviverebbe.
E i protagonisti di questo caotico epilogo non hanno neppure il fascino del terrore, sono dei burattini che pronunciano frasi insensate. Il mondo sembra impazzito.
A Beirut un milione di persone manifestano per la Siria e l'indomani un altro milione scende in piazza contro la Siria. Assistiamo impotenti a queste convulsioni.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …