Giorgio Bocca: Quando Milano piombò nel buio di Piazza Fontana

05 Maggio 2005
Milano buia come la sera del 12 dicembre 1969, la sera della strage di piazza Fontana non la posso dimenticare.
Allora abitavo in via Bagutta a quattrocento metri da piazza Fontana e dalla Banca dell´Agricoltura, la banca della strage. Milano in una caligine da Malebolge, da palude Stigia. E in quel buio arriva una telefonata da Pietra il direttore del Giorno. I direttori non ti chiedono mai se hai sentito, visto, saputo. Loro devono fare il giornale e ordinano: "Vai a vedere a piazza Fontana e poi vieni a scrivere il pezzo al giornale". Non era un bel vedere quello di piazza Fontana, non si poteva entrare nella sala terrena della banca dove una bomba aveva fatto strage, c´era solo da sentire l´odore acre di bruciato e di sangue, c´era da udire gli ululati delle autoambulanze, le grida di quelli che correvano sollevando le barelle, il buio pesto attorno ai fari bianchi, alle lampade rosse, rotanti, allo scempio dei corpi, ai getti d´acqua delle autopompe. C´era da vedere la cosa schifosa che è la strategia della tensione di cui una burocrazia cinica e sorniona è complice. Il gioco sta facendosi durissimo, a forza di simulare la guerra sociale la guerra è arrivata.
In una Milano immersa in una caligine da Malebolge cominciarono gli anni del mistero
Un servizio segreto che impareremo a chiamare deviato, ma deviato da che nessuno può dirlo, ha messo Milano di fronte al misfatto. Andai al giornale a scrivere il pezzo e scrissi quello che era chiaro agli occhi di chiunque: la strage di piazza Fontana era una strage di Stato, per dire fatta da apparati statali che avremmo imparato a chiamarli deviati, un modo per dire: sono noti a una parte dello Stato, sono aiutati e coperti da una parte dello Stato ma diciamo che sono deviati. Così chi deve capire cosa vuol dire una bomba in una banca al centro di Milano mentre sta dilagando l´inverno caldo delle lotte operaie, capisce e si regola. Quella sera scrissi che la strage di piazza Fontana era una strage di Stato con tranquilla certezza senza tirare a indovinare. Mi chiamò Pietra, che aveva letto le cartelle una dopo l´altra, appena scritte. "Ma secondo te le bombe, qui a Milano e a Roma chi le ha messe?". "I carabinieri" risposi. Volevo dire quelli dei servizi segreti o delle trame nere, non i caramba, i ghisa, i celerini, insomma i poliziotti arruolati nelle campagne povere del Sud che vanno a farsi pestare in piazza.
"Tu dici?" fece lui. "Il prefetto Mazza è convinto che siano stati gli anarchici". Ma chiamo il fattorino e mando il pezzo in tipografia senza correggere una virgola. Si diceva di lui che era stato assieme a Cefis nel Sim, il servizio segreto dell´esercito. Aveva un sorriso strano, fra cautela e intesa. Durante la guerra partigiana non aveva mai portato armi ma comandava una divisione garibaldina essendo un deciso anticomunista. Il 25 aprile del ‘45 quando al comando generale partigiano decisero di mandare il colonnello Audisio a giustiziare Mussolini e i gerarchi fermò un amico che si era mosso per aggregarsi alla spedizione. Ma non era uomo del doppio gioco, era soltanto uno che la sapeva lunga sulla politica e che ci sapeva navigare. Uno che sapeva come vanno le cose di questo mondo. Io invece in quel mondo mi muovevo con poca sapienza e poca prudenza, trascinato dalla passione politica e sorretto da quella convinzione di onnipotenza, di quasi immortalità che la guerra partigiana mi aveva lasciato in corpo. Convinto di stare dalla parte della verità, dalla parte giusta. Le buone ragioni non mancavano. Non era credibile che quei quattro gatti senza protezioni e senza soldi dei circoli anarchici avessero potuto organizzare ed eseguire attentati simultanei a Milano e a Roma nella banca e all´Altare della Patria. C´era la contestazione studentesca e c´era la rabbia operaia ma la risposta del terrore appariva sproporzionata. Sapevamo poco o niente della guerra fredda della violenza e della rozzezza degli opposti apparati polizieschi, della Nato come del patto di Varsavia.
Ma dovevamo stare a quella scuola brutale di politica, dovevamo starci anche obtorto collo anche se ci sembrava impossibile che alti funzionari dello Stato fossero complici di delitti contro lo Stato, che un prefetto, un questore, un generale rendessero falsa testimonianza, dirottassero le indagini, facessero esplodere la bomba rimasta intatta alla Banca Commerciale per cancellare le prove e proteggere chi ce le aveva messe. La politica diventava misterica, sfuggente, incomprensibile. Un governo moderato che conosceva la nostra sudditanza dall´apparato atlantico si piegava a coprire le trame dei servizi, lasciava che gli scontri di classe fossero condizionati dalle bombe. Ma anche la risposta giovanile, le pulsioni rivoluzionarie, anche il gioco della rivoluzione invece di disvelare la congiura dei potenti la annodava, diffondeva la psicosi di un imminente golpe fascista, di destra, che fu la matrice del terrorismo. L´intolleranza si diffondeva, chi non era intollerante passava o per un debole o per un vile, per uno che tirava a campare. Riaffiorava la cultura del pressappoco, del fascismo che non è fascismo, del marxismo di chi non ha mai letto Marx. Tutto sembrava lecito e tutto sopportabile, come se a tutti fosse venuta una di quelle febbri maligne che non ti uccidono ma ti fanno impazzire, una di quelle febbri che non sai come curare, che da un giorno all´altro dovrebbero passare invece tirano avanti per anni. Bisogna stare al gioco e non è facile.
Un 25 aprile di quegli anni la preside di una scuola mi chiede se posso dir due parole ai suoi alunni. La scuola è alla Barona, un quartiere del sud Milano che sembra un suburbio africano, la commemorazione si tiene in un cinematografo, le scolaresche sono già entrate, il lancio delle bucce di mandarini, di castagne secche e di cartacce sembra però tollerabile, attacco la mia orazione piccola, e arriva subito la buriana. I ragazzi della Barona sono quasi tutti immigrati, non sanno nulla della Resistenza e comunque non gliene importa niente, mi lasciano parlare per due minuti, poi si alzano, urlano, lanciano quel che gli capita sottomano, gridano "vaffanculo nonno", in un pandemonio di inferno. La preside mi prende per un braccio e mi porta in salvo. Ma non è imbarazzata, ha l´aria di pensare che è andata bene così. Non avevamo previsto le bombe e non è stato possibile dare una mano a scoprire i colpevoli.
Lo Stato complice cancellava le prove, deviava i sospetti ma anche noi ci perdevamo fra le false notizie, le indiscrezioni pilotate, gli scoop che ci arrivavano dall´Ufficio Affari riservati diretto da un poliziotto gastronomo che si prendeva gioco di noi. Lavoravamo, cercavamo in un turbine di "notizie del diavolo", ci avventuravamo nel sottobosco dei finti misteri, dei mitomani, prendevamo per buone a volte le invenzioni dei chiacchieroni e dei fabbricanti di finte congiure. Un grande giornalista come Indro Montanelli che era anche persona civile e cortese perdeva il ben dell´intelletto accusando Camilla Cederna e Giulia Maria Crespi la proprietaria del Corriere della Sera di trame politico-erotiche con Mario Capanna e veniva preso sul serio dai carabinieri che perquisivano le ville della Crespi. E scambiare una Crespi per una sovversiva era davvero il segno della massima confusione. Ma ci furono anche i morti come Pinelli, i perseguitati come Valpreda, ci fu anche una sporca storia che non ha giovato a nessuno.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …