Jean Paul Fitoussi: Quel male che affligge l'Europa
23 Maggio 2005
L’Europa appassiona la Francia e la Francia appassiona l’Europa. Che si plauda all’ardore con cui vi si conduce il dibattito per conto di tutti gli europei (in particolare tedeschi e italiani) "privati" di un referendum, o che si trovi esasperante il compiacimento del nostro Paese per la sua eccezionalità, una cosa è certa: la Francia è diventata temporaneamente il centro dell’Europa riunificata, e sull’Europa si focalizza la conversazione francese. Ma i nostri vicini e partner - al pari di alcuni commentatori nazionali - si sbagliano di grosso se pensano che la Francia ingrata e musona abbia voltato loro le spalle in nome di un complesso di superiorità. è anzi vero il contrario: i francesi hanno un tale bisogno d’Europa da augurarsi che l’elaborazione europea partecipi in misura molto maggiore alla soluzione dei loro problemi. Il fatto è che in buona parte i francesi soffrono, e la Francia dubita. Come pensare, in effetti, che un Paese concretamente e simbolicamente in crisi di fronte al suo futuro possa non impegnarsi in un dibattito appassionato su una questione d’avvenire quale l’integrazione europea?
Il vero problema è dunque lo stato in cui versa oggi la Francia; e a questo riguardo siamo costretti a riconoscere che abbiamo perso di vista la nostra stessa rivolta davanti all’inaccettabile - la disoccupazione di massa - come se un’attualità che si protrae da ormai due decenni non fosse più d’attualità. Sono certo che anche in altri Paesi europei caratterizzati da una disoccupazione di massa - in particolare l’Italia e la Germania - un’analoga consultazione avrebbe suscitato lo stesso interesse e le stesse passioni. Di fatto, è la lenta erosione della nostra capacità di indignarci a costituire il rischio maggiore, il danno più grave per le generazioni future. Eppure ormai sappiamo, per averlo dolorosamente appreso da episodi storici di sinistra memoria, che tra tutti i mali di una società in tempi di pace, quello della disoccupazione è il più gravido di pericoli. Basta comporre l’inventario dei suoi effetti nefasti per rinnovare in noi questa convinzione. Vari studi hanno dimostrato che da lungo tempo (due decenni) la disoccupazione o la sua penombra colpiscono quasi un quarto della popolazione francese, e che i rari periodi di ripresa della crescita in Europa sono stati troppo brevi per ridurre questa proporzione in maniera significativa. Ora, la disoccupazione cronica di massa agisce all’interno dei nostri sistemi sociali come un buco nero in espansione, che inghiotte tutte le logiche d’integrazione. Esiste un rapporto ben documentato tra il livello della disoccupazione e la sua durata: a un incremento percentuale corrisponde un maggior numero di disoccupati cronici. Chi rimane troppo a lungo ai margini del mercato del lavoro incorre - per usare un termine coniato da Robert Castel - nella "deaffiliazione", sentendosi a un tempo allontanato dalla realtà sociale e relegato sul piano civico. Oltre tutto, le difficoltà di integrazione sociale dei giovani aumentano in misura più che proporzionale al livello della disoccupazione. Non c’è dunque da sorprendersi se quest’ultimo dato risulta particolarmente elevato tra i giovani adulti - il doppio circa rispetto all’insieme della popolazione. Per di più, questa incresciosa aritmetica riflette in maniera soltanto parziale le conseguenti mutazioni qualitative. Innanzitutto, gli effetti della disoccupazione falsano le regole sociali, dato che le opportunità d’inserimento dipendono sempre più da condizioni iniziali quali il patrimonio, la rete delle relazioni sociali di genitori o parenti, la reputazione degli istituti frequentati e dei diplomi conseguiti, e non di rado anche il quartiere di residenza. Il più delle volte, tutti questi elementi sono correlati tra loro, tanto da lasciare ben poche opportunità a chi ne è escluso, come attesta anche troppo chiaramente la precarizzazione dei giovani con titoli di studio di scarsa reputazione. Da uno stage all’altro, quando va bene - perché non è dato a tutti trovarne uno e avere la possibilità di seguirlo, se non è remunerato - a volte riescono a strappare un contratto a tempo determinato. Le logoranti trafile imposte a tanti giovani rendono conto del "cinismo obiettivo" alimentato dalla disoccupazione di massa in seno alla società. E spiegano lo scetticismo dei giovani verso la scuola, la loro scarsa fiducia nelle imprese e nel sistema economico in generale. Per di più, la disoccupazione di lungo periodo erige nuove barriere, invisibili ma non per questo meno reali.
Uno squilibrio sociale di così vasta portata ha necessariamente una sua connotazione spaziale. La gente vive da qualche parte, e la scarsità delle risorse legata alle difficoltà occupazionali limita la gamma dei territori in cui stabilirsi: questa l’origine delle dinamiche della segregazione urbana, e più generalmente territoriale.
Infine e soprattutto, il perdurare della disoccupazione di massa accentua le discriminazioni, contro ogni concetto di pari opportunità. Il meccanismo che entra in azione è quello della "discriminazione statistica", identificata dagli economisti Arow e Phelps all’inizio degli anni '60. Più che sull’esistenza di pregiudizi razzisti o religiosi nella società, le discriminazioni di questo tipo si fondano sulla cristallizzazione di idee preconcette in ordine alle caratteristiche di vari gruppi sociali. I "vecchi" (dai 45 in su?) sono ritenuti poco produttivi o incapaci di adattarsi, le donne troppo preoccupate dei loro equilibri familiare; i membri di certe comunità sono bollati come ritardatari per natura o poco dinamici, e così via. In questo contesto dobbiamo raffigurarci i disoccupati come se fossero tutti in coda, allineati in una serie di file ai vari cancelli delle imprese o degli enti pubblici (a seconda dei mestieri e delle qualifiche), in un ordine stabilito in base ai criteri della discriminazione statistica. I candidati di determinate etnie si troveranno sistematicamente relegati in fondo alla fila d’attesa, con probabilità di ingaggio tanto minori quanto più lunga sarà la coda, o in altri termini, quanto più il tasso di disoccupazione sarà elevato. Perciò la disoccupazione di lunga durata grava ingiustamente in misura sproporzionata su alcune categorie di persone, in genere le più fragili. In una situazione di piena occupazione le cose andrebbero diversamente: per soddisfare le proprie esigenze le imprese sarebbero indotte ad assumere, se non tutti, almeno una parte molto maggiore dei candidati in lista d’attesa. Ciascuno avrebbe allora la possibilità di dar prova delle proprie reali capacità, sfatando i preconcetti sociali nei propri riguardi. Ecco perché la disoccupazione di massa finisce ineluttabilmente per cristallizzare le discriminazioni e inasprire nelle sue vittime ricorrenti la frustrazione per l’ingiustizia subita.
E allora? Si può ragionevolmente continuare a permettere che la sottoccupazione vanifichi ogni speranza e aggravi la frammentazione sociale? Da dove viene quello stupore collettivo, davanti alle corrispondenze tra l’economico, il sociale e il politico, di cui le consultazioni elettorali sono solo una spia? In Francia, i loro esiti riflettono semplicemente l’urgenza di una triplice riunificazione: quelle dello spazio fisico (la lotta contro la segregazione urbana) e dello spazio sociale (l’integrazione grazie al lavoro), e infine la riunificazione temporale tra i giovani e il futuro. Ma non si tratta di un’urgenza specificamente francese: anche la società italiana è assillata dal problema della sua riunificazione. I nostri Paesi hanno associato le loro sorti nell’Unione Europea per meglio risolvere i loro problemi, non per essere rinviati alle rispettive difficoltà nazionali. La promessa essenziale che i cittadini associano oggi alla costruzione europea non è più la pace, ma la prosperità. L’attuale deliberazione deve focalizzarsi sui mezzi per conseguirla nel modo migliore.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Il vero problema è dunque lo stato in cui versa oggi la Francia; e a questo riguardo siamo costretti a riconoscere che abbiamo perso di vista la nostra stessa rivolta davanti all’inaccettabile - la disoccupazione di massa - come se un’attualità che si protrae da ormai due decenni non fosse più d’attualità. Sono certo che anche in altri Paesi europei caratterizzati da una disoccupazione di massa - in particolare l’Italia e la Germania - un’analoga consultazione avrebbe suscitato lo stesso interesse e le stesse passioni. Di fatto, è la lenta erosione della nostra capacità di indignarci a costituire il rischio maggiore, il danno più grave per le generazioni future. Eppure ormai sappiamo, per averlo dolorosamente appreso da episodi storici di sinistra memoria, che tra tutti i mali di una società in tempi di pace, quello della disoccupazione è il più gravido di pericoli. Basta comporre l’inventario dei suoi effetti nefasti per rinnovare in noi questa convinzione. Vari studi hanno dimostrato che da lungo tempo (due decenni) la disoccupazione o la sua penombra colpiscono quasi un quarto della popolazione francese, e che i rari periodi di ripresa della crescita in Europa sono stati troppo brevi per ridurre questa proporzione in maniera significativa. Ora, la disoccupazione cronica di massa agisce all’interno dei nostri sistemi sociali come un buco nero in espansione, che inghiotte tutte le logiche d’integrazione. Esiste un rapporto ben documentato tra il livello della disoccupazione e la sua durata: a un incremento percentuale corrisponde un maggior numero di disoccupati cronici. Chi rimane troppo a lungo ai margini del mercato del lavoro incorre - per usare un termine coniato da Robert Castel - nella "deaffiliazione", sentendosi a un tempo allontanato dalla realtà sociale e relegato sul piano civico. Oltre tutto, le difficoltà di integrazione sociale dei giovani aumentano in misura più che proporzionale al livello della disoccupazione. Non c’è dunque da sorprendersi se quest’ultimo dato risulta particolarmente elevato tra i giovani adulti - il doppio circa rispetto all’insieme della popolazione. Per di più, questa incresciosa aritmetica riflette in maniera soltanto parziale le conseguenti mutazioni qualitative. Innanzitutto, gli effetti della disoccupazione falsano le regole sociali, dato che le opportunità d’inserimento dipendono sempre più da condizioni iniziali quali il patrimonio, la rete delle relazioni sociali di genitori o parenti, la reputazione degli istituti frequentati e dei diplomi conseguiti, e non di rado anche il quartiere di residenza. Il più delle volte, tutti questi elementi sono correlati tra loro, tanto da lasciare ben poche opportunità a chi ne è escluso, come attesta anche troppo chiaramente la precarizzazione dei giovani con titoli di studio di scarsa reputazione. Da uno stage all’altro, quando va bene - perché non è dato a tutti trovarne uno e avere la possibilità di seguirlo, se non è remunerato - a volte riescono a strappare un contratto a tempo determinato. Le logoranti trafile imposte a tanti giovani rendono conto del "cinismo obiettivo" alimentato dalla disoccupazione di massa in seno alla società. E spiegano lo scetticismo dei giovani verso la scuola, la loro scarsa fiducia nelle imprese e nel sistema economico in generale. Per di più, la disoccupazione di lungo periodo erige nuove barriere, invisibili ma non per questo meno reali.
Uno squilibrio sociale di così vasta portata ha necessariamente una sua connotazione spaziale. La gente vive da qualche parte, e la scarsità delle risorse legata alle difficoltà occupazionali limita la gamma dei territori in cui stabilirsi: questa l’origine delle dinamiche della segregazione urbana, e più generalmente territoriale.
Infine e soprattutto, il perdurare della disoccupazione di massa accentua le discriminazioni, contro ogni concetto di pari opportunità. Il meccanismo che entra in azione è quello della "discriminazione statistica", identificata dagli economisti Arow e Phelps all’inizio degli anni '60. Più che sull’esistenza di pregiudizi razzisti o religiosi nella società, le discriminazioni di questo tipo si fondano sulla cristallizzazione di idee preconcette in ordine alle caratteristiche di vari gruppi sociali. I "vecchi" (dai 45 in su?) sono ritenuti poco produttivi o incapaci di adattarsi, le donne troppo preoccupate dei loro equilibri familiare; i membri di certe comunità sono bollati come ritardatari per natura o poco dinamici, e così via. In questo contesto dobbiamo raffigurarci i disoccupati come se fossero tutti in coda, allineati in una serie di file ai vari cancelli delle imprese o degli enti pubblici (a seconda dei mestieri e delle qualifiche), in un ordine stabilito in base ai criteri della discriminazione statistica. I candidati di determinate etnie si troveranno sistematicamente relegati in fondo alla fila d’attesa, con probabilità di ingaggio tanto minori quanto più lunga sarà la coda, o in altri termini, quanto più il tasso di disoccupazione sarà elevato. Perciò la disoccupazione di lunga durata grava ingiustamente in misura sproporzionata su alcune categorie di persone, in genere le più fragili. In una situazione di piena occupazione le cose andrebbero diversamente: per soddisfare le proprie esigenze le imprese sarebbero indotte ad assumere, se non tutti, almeno una parte molto maggiore dei candidati in lista d’attesa. Ciascuno avrebbe allora la possibilità di dar prova delle proprie reali capacità, sfatando i preconcetti sociali nei propri riguardi. Ecco perché la disoccupazione di massa finisce ineluttabilmente per cristallizzare le discriminazioni e inasprire nelle sue vittime ricorrenti la frustrazione per l’ingiustizia subita.
E allora? Si può ragionevolmente continuare a permettere che la sottoccupazione vanifichi ogni speranza e aggravi la frammentazione sociale? Da dove viene quello stupore collettivo, davanti alle corrispondenze tra l’economico, il sociale e il politico, di cui le consultazioni elettorali sono solo una spia? In Francia, i loro esiti riflettono semplicemente l’urgenza di una triplice riunificazione: quelle dello spazio fisico (la lotta contro la segregazione urbana) e dello spazio sociale (l’integrazione grazie al lavoro), e infine la riunificazione temporale tra i giovani e il futuro. Ma non si tratta di un’urgenza specificamente francese: anche la società italiana è assillata dal problema della sua riunificazione. I nostri Paesi hanno associato le loro sorti nell’Unione Europea per meglio risolvere i loro problemi, non per essere rinviati alle rispettive difficoltà nazionali. La promessa essenziale che i cittadini associano oggi alla costruzione europea non è più la pace, ma la prosperità. L’attuale deliberazione deve focalizzarsi sui mezzi per conseguirla nel modo migliore.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Jean-Paul Fitoussi
Jean-Paul Fitoussi (1942) è professore all’Institut d’études politiques di Parigi e presidente dell’Ofce, l’Osservatorio francese delle congiunture economiche. Fa parte del consiglio di amministrazione di Telecom e del consiglio di …