Guido Piccoli: Colombia. Tempi duri per Uribe
Nella guerra alla guerriglia le cose vanno anche peggio. A mostrare tutta la sua inutilità è il seguito naturale del Plan Colombia, cioè il Plan Patriota, senza dubbio la campagna militare più ambiziosa mai lanciata contro le Farc. Da più di un anno, diciottomila militari di carriera super armati stanno avanzando in un quadrilatero di trecentomila chilometri quadrati, con l'obiettivo di riconquistare il controllo delle regioni pre-amazzoniche. Per giustificare un costo quotidiano di un milione di dollari, Uribe ha promesso ai colombiani la testa del vecchio e arzillo Tirofijo, del suo braccio destro El Mono Jojoy o di qualche altro esponente della Comandancia guerrigliera.
Però, più che guerriglieri che sembrano scomparsi nel nulla, i rangers hanno finora preso solo malattie, come la lesmaniosi che sta decimando i reparti. E sembrano impantanati in un ambiente ostile, per la natura selvaggia e per l'avversione di una popolazione, che ha convissuto 35 anni con le Farc. Il quotidiano ‟El tempo” si chiede se valga la pena uno «sforzo così mastodontico» per imporre una presenza militare (e paramilitare) e soprattutto se non si sguarniscano in questo modo altre regioni del paese. Invitando Uribe a non farsi condizionare dalle esigenze della propaganda, l'organo dell'oligarchia colombiana, attraverso un editoriale del 3 maggio scorso intitolato ‟Domande al Patriota”, afferma che, a tre anni dal suo insediamento, le Farc sono ‟praticamente integre e si stanno consolidando in molte regioni”.
La sonora bocciatura per il fanatico presidente insediato a Palacio Nariño è suffragata dai sempre più frequenti attacchi guerriglieri nel resto del paese, a cominciare dalle montagne del Cauca, sulle quali le comunità indigene Paez si trovano letteralmente tra due fuochi. ‟Vogliono distrarci dal Plan Patriota” assicurano i vertici delle Forze armate, squassati da dimissioni ed epurazioni di generali e colonnelli. Sarà pur vero, ma le Farc dimostrano di avere iniziato un'offensiva che, sebbene non sia quella mitica e ‟finale”, potrebbe essere il colpo di grazia per la strategia di ‟sicurezza democratica” di Uribe. Quest'ultimo è in difficoltà anche riguardo alla legalizzazione dei paramilitari, ai quali ha promesso molto più di quanto possa concedere uno stato, anche se solo formalmente, di diritto. La legge in questione, chiamata paradossalmente di ‟Justicia y Paz”, non accontenta né i comandanti della macelleria chiamata Autodefensas unidas de Colombia (Auc), che hanno minacciato di ‟tornare in montagna”, né tanto meno, ad esempio, l'Onu, il cui Alto Commissario per i diritti umani, la canadese Louise Arbour, ha chiesto al governo di Bogotà maggiore severità in questo negoziato ‟sui generis”, portato avanti da Uribe con i suoi soci e amici. Richiesta impraticabile per il presidente che non solo conta, per essere rieletto, sull'appoggio ormai manifesto dei capi delle Auc, ma che li considera, ancora di più oggi, una forza fondamentale nella lotta alla guerriglia.
A creargli ulteriori difficoltà sono stati la denuncia che i paras stiano reclutando uomini in molte regioni e nella capitale Bogotà e l'arresto di due istruttori militari statunitensi sorpresi a consegnare cinquantamila pallottole alle Auc e subito rispediti in patria, come è stato fatto poco più di un mese fa per cinque loro colleghi narcotrafficanti. Se l'episodio imbarazza gli Usa, che hanno rispolverato la tesi delle ‟pecore nere”, svela la burla di un processo di legalizzazione di un gruppo armato, che continua ad armarsi, a delinquere e a uccidere. Ma niente fa prevedere che venga interrotto.
D'altronde, la guerra sucia, di cui i paras sono i maggiori protagonisti, è probabilmente l'unica che lo stato colombiano possa riuscire a vincere.