Giorgio Bocca: Dopo le elezioni. L'invasione barbarica a Catania
06 Giugno 2005
Abbiamo già digerito, accettato, metabolizzato le invereconde elezioni di Catania. Simili se non identiche a quelle raccontate da Francesco De Sanctis nel suo viaggio elettorale nelle provincie del Sud durante il Regno, nei primi anni dell'Unità.
Una clientela, dagli incerti confini con la malavita, viene spaventata ad arte dai signori delle tessere: i loro esperti prevedono una vittoria del centro-sinistra che taglierà i sussidi e le assistenze. Siete avvisati poveracci, votate in massa per il sistema clientelare che vi mantiene. È una opposizione fantasiosa, un teorema del profondo e misterioso Sud? No, è una manovra elettorale che il sindaco di Catania Umberto Scapagnini racconta alla sua maniera vernacolare e gallista: "Il segreto del mio successo? Ho avuto un avversario che notoriamente porta sfiga. Tutti coloro che si sono candidati con lui, specialmente i professori universitari, sono stati suonati. Io ho fortuna, sono l'uomo delle quattro 'C', l'ultima delle quali si chiama culo". Simile un manifesto dei lazzaroni che soffocano la rivoluzione liberale napoletana, la rivoluzione dei professori che portano sfiga.
L'invereconda elezione di Catania non ha misteri, è stata raccontata, confessata dai suoi artefici. Attorno ai seggi elettorali popolari erano schierati con catene e altre armi non tanto simboliche i picciotti che già erano passati alla riscossione del premio elettorale, un centinaio di euro a testa offerti dal feudatario capo e dai locali che avevano, per le elezioni, messo assieme una cospicua provvista di denaro.
Come si formi esattamente la miscela popolar-mafiosa che ha prodotto alle passate elezioni la vergogna bulgara dei 61 colleghi su 61 vinti dalle liste dei forzisti non lo sappiamo nei particolari, ma ne conosciamo l'assieme, sappiamo come funziona quel partito unico che va dai corleonesi armati di lupara alla borghesia mafiosa degli appalti e degli affari che qui nella Sicilia orientale si è già mobilitata attorno all'affare degli affari che è il ponte sullo Stretto a cui forse allude un altro vincitore, l'onorevole democristiano Lombardo, che è già passato alla riscossione: "Berlusconi ha preso degli impegni con la Sicilia. Ha undici mesi per farli rispettare. Poi decideremo dove andare, non posso escludere nulla".
Ma l'aspetto più inverecondo di questa politica invereconda è che dall'anno dell'Unità ad oggi ci siamo abituati a considerare politica questo mercato dei voti e a chiamare politici e magari padri della patria i capi mafia anfibi, mafiosi nel profondo Sud e capi di governo a Roma.
Ha vinto in parecchie regioni e forse nell'intero paese la ‟disgregazione” della politica di cui ha scritto su ‟Repubblica” Eugenio Scalfari, la confederazione di feudi clientelari leghisti, per cui l'economia nazionale dovrebbe essere la somma delle economie clientelari locali, origine di infinite mafie, di articolate convivenze fra gli assessori locali e i ladri aeroportuali della Malpensa.
Questo e non altro pare il modello che la disgregazione berlusconiana offre al paese: si abbattono tutte le istituzioni nazionali perché possa funzionare senza controlli e punizioni la corsa al bottino delle clientele.
Tutto combina in questo perverso gioco alla distruzione di uno Stato democratico. La cultura mafiosa soppianta quella civile, si torna ai massimi insulti del ‟cornuto” e del ‟porta iella” alla celebrazione degli 'attributi', la celebrazione dei coglioni che diventa di uso comune.
Si piomba nella adorazione del denaro considerato la misura unica dell'uomo, si torna ai riti osceni della beneficenza mondana, al trionfo del peggio, alla diffamazione delle minoranze che tentano di mantenere a questo infelice paese un minimo di decenza, di stile, di gusto.
C'è stata in questi mesi una tremenda invasione barbarica, i vandali italiani hanno raso al suolo Stato e religione, hanno coperto il paese con le reti delle clientele avide e irragionevoli.
Una clientela, dagli incerti confini con la malavita, viene spaventata ad arte dai signori delle tessere: i loro esperti prevedono una vittoria del centro-sinistra che taglierà i sussidi e le assistenze. Siete avvisati poveracci, votate in massa per il sistema clientelare che vi mantiene. È una opposizione fantasiosa, un teorema del profondo e misterioso Sud? No, è una manovra elettorale che il sindaco di Catania Umberto Scapagnini racconta alla sua maniera vernacolare e gallista: "Il segreto del mio successo? Ho avuto un avversario che notoriamente porta sfiga. Tutti coloro che si sono candidati con lui, specialmente i professori universitari, sono stati suonati. Io ho fortuna, sono l'uomo delle quattro 'C', l'ultima delle quali si chiama culo". Simile un manifesto dei lazzaroni che soffocano la rivoluzione liberale napoletana, la rivoluzione dei professori che portano sfiga.
L'invereconda elezione di Catania non ha misteri, è stata raccontata, confessata dai suoi artefici. Attorno ai seggi elettorali popolari erano schierati con catene e altre armi non tanto simboliche i picciotti che già erano passati alla riscossione del premio elettorale, un centinaio di euro a testa offerti dal feudatario capo e dai locali che avevano, per le elezioni, messo assieme una cospicua provvista di denaro.
Come si formi esattamente la miscela popolar-mafiosa che ha prodotto alle passate elezioni la vergogna bulgara dei 61 colleghi su 61 vinti dalle liste dei forzisti non lo sappiamo nei particolari, ma ne conosciamo l'assieme, sappiamo come funziona quel partito unico che va dai corleonesi armati di lupara alla borghesia mafiosa degli appalti e degli affari che qui nella Sicilia orientale si è già mobilitata attorno all'affare degli affari che è il ponte sullo Stretto a cui forse allude un altro vincitore, l'onorevole democristiano Lombardo, che è già passato alla riscossione: "Berlusconi ha preso degli impegni con la Sicilia. Ha undici mesi per farli rispettare. Poi decideremo dove andare, non posso escludere nulla".
Ma l'aspetto più inverecondo di questa politica invereconda è che dall'anno dell'Unità ad oggi ci siamo abituati a considerare politica questo mercato dei voti e a chiamare politici e magari padri della patria i capi mafia anfibi, mafiosi nel profondo Sud e capi di governo a Roma.
Ha vinto in parecchie regioni e forse nell'intero paese la ‟disgregazione” della politica di cui ha scritto su ‟Repubblica” Eugenio Scalfari, la confederazione di feudi clientelari leghisti, per cui l'economia nazionale dovrebbe essere la somma delle economie clientelari locali, origine di infinite mafie, di articolate convivenze fra gli assessori locali e i ladri aeroportuali della Malpensa.
Questo e non altro pare il modello che la disgregazione berlusconiana offre al paese: si abbattono tutte le istituzioni nazionali perché possa funzionare senza controlli e punizioni la corsa al bottino delle clientele.
Tutto combina in questo perverso gioco alla distruzione di uno Stato democratico. La cultura mafiosa soppianta quella civile, si torna ai massimi insulti del ‟cornuto” e del ‟porta iella” alla celebrazione degli 'attributi', la celebrazione dei coglioni che diventa di uso comune.
Si piomba nella adorazione del denaro considerato la misura unica dell'uomo, si torna ai riti osceni della beneficenza mondana, al trionfo del peggio, alla diffamazione delle minoranze che tentano di mantenere a questo infelice paese un minimo di decenza, di stile, di gusto.
C'è stata in questi mesi una tremenda invasione barbarica, i vandali italiani hanno raso al suolo Stato e religione, hanno coperto il paese con le reti delle clientele avide e irragionevoli.
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …