Giorgio Bocca: Salendo al Monte che non c'è
27 Giugno 2005
Il monte anonimo. Il mont Maudit, inaccessibile e maledetto. Il monte Bianco, la montagna più alta d’Europa, il pilone di granito che chiude la valle d’Aosta e domina la catena delle Alpi, visibile dalla lontana Ginevra. Né Italia, né Francia, né Savoia, a chi appartiene il gigante? Di una patria harpitana abbiamo avuto notizia di recente quando sui roccioni dominanti la strada per Courmayeur sono apparse delle grandi H in vernice bianca, H per Harpitaine, da Harp gli alti pascoli a cui salgono le pecore dopo i lunghi inverni. Tante patrie alpine attorno al colosso di granito. A quale credere? A quella dei Salassi che dominavano l’intera valle? A quella sabauda con le torri di segnalazione che trasmettevano i messaggi fra Chambery e Torino? Alla italiana del glorioso battaglione alpino ‟ca cousta l’on ca cousta viva l’Austa”? C’è stato un andirivieni di patrie, di bandiere, di uniformi ai piedi del Bianco, c’è stata una storia di sofferenze e di sacrifici: i coscritti classe 1788, i reduci stracciati e feriti della Beresina che sono appena tornati nei loro villaggi e già arrivano i generali dei Savoia per una nuova coscrizione. C’è stata una grande confusione di uomini, di patrie, di guerre attorno al Bianco ed ora c’è un mutamento continuo del paesaggio, degli uomini, delle bestie, delle macchine.
Certe sere con il medico condotto di Morgex ci mettiamo a contare le cose che c’erano quando eravamo ragazzi e che non ci sono più, grandi e piccole: i gamberi di fiume nella Dora, i ranocchi nell’acqua ferma del marais in val Veny, i ballatoi di ringhiera, i mulini ad acqua, gli spartineve trainati dai cavalli, le file dei muli che salivano ai valichi, lo champagne leggero e petillant dell’abate Bougeat che morì nel suo letto a Morgex mentre leggeva portando con sé il segreto di quel vino dei più alti vigneti d’Europa che negli anni freddi si ferma ai dieci gradi. Io non sono un harpitano ma un cuneese, alle montagne sono nato e cresciuto nelle Marittime dove arriva l’odor salmastro del mare, nell’Harpitania ci sono arrivato con la guerra e il giornalismo tenendo le cronache di quelli che l’hanno trasformata non sapremmo dire se in meglio o in peggio.
L’antico sogno del traforo
Il primo grande trasformatore fu un conte di Biella di nome Lora Totino, che si era messo in testa di forare il monte Bianco. L’impresa sembrava disperata: gli italiani non avevano i soldi, i francesi che nelle faccende militari spesso delirano temevano di aprire le porte di casa. Ma quel conte aveva una testa biellese tenace e inventiva, lui si comportava come se il traforo fosse già in opera. Aveva fatto scavare all’altezza di Notre dame de la guérison un suo buco lungo una ventina di metri e invitava noi giornalisti a testimoniare che il traforo si faceva, che non era un sogno.
E con lui, in fatto di opere gigantesche, non si scherzava: era arrivato con una funivia fino ai tremila e cinque del Plateau Rosa a Cervinia, ci avrebbe trascinato fino al Cairo dove voleva arrivare con una funivia sulla piramide di Giza. Ne ero informato perché il compito di portare lassù la fune portante di acciaio lo aveva affidato al maggiore degli alpini Lamberti, mio concittadino. Lamberti mi chiamò nell’estate del '48, a vedere come si calava la fune portante dalla Aiguille du Midi a Chamonix, per completare la traversata.
Dal rifugio Torino arriviamo traversando il ghiacciaio sino alla baracca del cantiere appesa sul baratro che sprofonda su Chamonix. Il grande gomitolo della fune era arrivato lassù in elicottero. Fin che ci fu luce, le guide assoldate per quel lavoro ad alta quota trasportarono a spalle putrelle di acciaio e sacchi di cemento su e giù per il ghiacciaio in sci. Non dormii quella notte per l’altitudine, e si era svegli all’alba per assistere all’operazione in cui la tecnica più raffinata e di avanguardia era affidata ancora ai muscoli e al fiato degli uomini.
L’Aiguille era già collegata a Chamonix da un cavo guida leggero, a cui era appesa una cassetta di legno con un bordo alto quindici centimetri. Lamberti mi disse di salirci per seguire dall’alto l’operazione. Stavo ritto, i piedi puntati sul bordo inferiore sospeso nel vuoto, là in fondo le case di Chamonix. Le guide si calavano per la parete dell’Aiguille tirandosi dietro il cavo guida che trainava la portante. Mi arrivavano nell’aria gelida i loro richiami, le loro imprecazioni. Come premio Lamberti mi fece scendere sulla funivia di servizio, la cassetta di legno, fino a Chamonix.
Prima della guerra a Courmayeur funzionava come mezzo di risalita uno slittone tirato da una fune. Mi sono rifatto nel dopoguerra, seguendo il dottor Savoretti mentre seminava di sky lift la val Veny. Savoretti aveva aperto il commercio con l’Unione Sovietica e sposato una russa amica di una figlia di Kossighin. Lo incontrai a Mosca, nel suo grande ufficio dove la consegna era di non parlare del comunismo e dei comunisti importanti. Sembrava di stare in una stazione lunare che funzionava alla perfezione ignorando il caos e la povertà circostanti.
Ma il suo regno era Courmayeur dove aveva prima affiancato e poi superato l’altro signore del luogo, il conte Titta Gilberti, costruttore e padrone delle funivie del Bianco. Entrambi percorrevano i loro regni accompagnati da un maestro di sci emerito, con funzioni di ministro della realcasa, maggiordomo pronto a guidarli e a rifocillarli. Savoretti non era un alpinista famoso, un accademico come Gervasutti e Boccalatte, ma era cresciuto nel mito dell’alpinismo piemontese che aveva celebrato i suoi riti e i suoi fasti durante il fascismo e nei primi anni della Repubblica.
Il periodo dominato da Gervasutti, ‟il fortissimo”, il friulano trasferitosi a Torino e diventato l’uomo guida, il modello inarrivabile di quella borghesia apolitica, a volte antifascista, che aveva fatto dell’alpinismo il suo rifugio e del massiccio del Bianco la sua vera patria. In quegli anni la conquista delle pareti inviolate era impresa da semidei, più forti della natura, della paura, della fatica. I giornali dedicavano pagine intere alla conquista delle Grandes Jorasses di Renato Chabod e di Gervasutti, o alle prime di Bonatti. Un mondo elitario, di costumi severi, un po’sadico e un po’necrofilo. Lo spettacolo sadico era offerto quasi ogni mattino di inverno sulle alte piste di Toula o dell’Arp o della traversata del Bianco lungo la Mer de Glace. Non mancava mai lo spettacolo della fidanzata o dell’amico trascinati sulle piste precipiti, o fra seracchi e voragini ghiacciate, incrodati come muli, decisi a non muovere più un passo, a non osare più un metro, insensibili alle minacce o agli inviti dell’aguzzino accompagnatore che giustamente veniva punito dovendo poi riportare in qualche modo a valle quei sacchi di patate incautamente portati sui più alti e perigliosi cammini.
La traversata invernale del Bianco lungo la Mer de Glace era luogo di veri macelli. Ricordo il calvario degli amici trascinati nell’impresa, il figlio giovanissimo di una collega romana che cominciò a cadere appena fuori la stazione della funivia al colle del Gigante e continuò per i quindici chilometri della discesa, seguito da un maestro gigantesco che lo sollevava di peso, lo rimetteva sulla pista e aspettava rassegnato la prossima caduta. Eravamo feroci e anche strambi nelle punizioni dei deboli, come quella del famoso sociologo che si presentò sul ghiacciaio con degli scietti di legno senza lamine, partì ilare e scomparve quasi subito in un crepaccio. Corremmo con una corda da trenta metri per tirarlo fuori e quando finalmente sentimmo che l’aveva afferrata lo issammo, ma non era lui era un altro caduto nello stesso punto, e la guida che tirava la fune non voleva crederci, lo guardava male come un truffatore. Il sociologo, quando venne su con i suoi scietti, non disse neppure grazie, ripartì deciso saltando altri crepacci e rimbalzando sulle gobbe ghiacciate quasi a prendersi gioco del nostro sadismo.
Quanto alla necrofilia ho passato centinaia di veglie a ripassare tutti i morti da slavina o da valanga. Alcuni, non si sapeva bene perché, prediletti nelle memorie. Si ripercorreva con zelo il loro ultimo cammino, riponendoci le stesse inutili domande sul perché avessero perso l’equilibrio in un posto sicurissimo, o sbagliato come Gervasutti una elementare corda doppia dopo averne fatto mille, o messo il piede su una cornice di ghiaccio pendula pronta a cadere. Fra i necrofili dilettanti ce ne erano di veri. Quel vecchio partigiano che non mancò un recupero di cadavere dalle Marittime alle Pennine. O quel meccanico di Courmayeur che teneva pronta una jeep fornita di pale, barelle, corde, e appena gli giungeva notizia di una sciagura alpina partiva su per dirupi e boschi e burroni usque ac cadaver, di cui ampiamente relazionava ad amici e parenti la positura, le ferite, il pallore del viso, quello sguardo fermo per sempre nell’incontro con la morte.
C’erano estati povere di piaceri necrofili, ma altre ricchissime favorite da cambi repentini di temperature, da tempeste, da fulmini che facevano strage di cordate straniere specie cecoslovacche o polacche. E il meccanico con la sua jeep attrezzata correva da una valle all’altra da una parete all’altra per vedere in faccia la morte. Nel regno del Bianco ci sono altre attività e curiosità canoniche: una è quella di riconoscere e ricordare tutti i nomi delle vette o aiguilles o denti o picchi o ghiacciai o pareti o combe o laghi, più orridi favole leggende. ‟E voi montagne ci guardate ci guardate ma non siete mai cadute”. Che ha voluto dire Elias Canetti? Che fra noi uomini e loro, le montagne, c’è un rapporto univoco: la nostra fantasia contro la loro indifferenza. Le nostre mode contro la loro mole immutabile. Noi che per secoli le abbiamo ignorate e che improvvisamente rivolgiamo ad esse una attenzione quasi morbosa.
Una bellezza da restare senza fiato
Ho intervistato scalatori famosi, quasi tutti presi dalla montagna come da una donna bellissima e omicida. La letteratura alpinistica tende al mistico, le altitudini avvicinano a Dio. Ma possono anche essere ignorate. Chi oltrepassa la stretta della Pierre taillée, sopra Arvier, esce dalla penombra nella luminosa gloria del Bianco, il grande fiore di roccia e di ghiaccio. Una bellezza da rimanere senza fiato. Ma per generazioni il colosso è stato senza nome, come le altre vette della Alpis Graia. Cesare diretto alle Gallie non lo nomina, non lo descrive; non se ne accorge Annibale al passaggio delle Alpi; non gli danno un nome neppure gli arabi, che sanno di geografia e di cartografia. Per tutti è un grande bastione ghiacciato che non porta da nessuna parte. Generazioni di buoni disegnatori disegnano le montagne tutte eguali, a denti di sega: per loro una montagna vale l’altra. Strade e valichi di fondovalle sono indicati con precisione già dai romani, ma ciò che è lassù in alto non conta. A Courmayeur solo una montagnucola ha un nome: il Chetif, dai captivos, gli schiavi che lavoravano nelle miniere.
Ma il gigante resta senza nome. Lo si vede in un quadro di Konrad Witz, una pesca sul lago di Ginevra nel 1444, montagna innominata o di nomi mutevoli: Alpis alba, Saxsus albus, Malet, Maudit, Les glaciers. Un nome vero e fisso non lo si trova neppure nelle carte di Johannes Strump, che pure ha dato un nome all’Eiger e alla Jungfrau. Le montagne guardano indifferenti e gli uomini fantasticano. Di fronte al Bianco, immaginano che lassù dietro le vette ci sia un gigantesco serbatoio di neve da cui scendono le lingue dei ghiacciai. La conquista del Monte Bianco è un’epopea romantica-scientifica-femminista. Dopo il leggendario Balmat, guida e cercatore di cristalli, tocca allo scienziato ginevrino De Saussure, che resta sulla cima con tutti i suoi strumenti scientifici tre ore e mezzo. E poi sarà il turno di una donna, Henriette d’Angeville, che intaglia nel ghiaccio il motto ‟Vouloir c’est pouvoir” (più nota di Marie Paradis), che nel 1908 fu portata di peso in vetta dalle guide per invogliare gli alpinisti che incominciavano ad arrivare a Chamonix da tutta Europa. Il turismo alpino fiorisce: tre volte la settimana nel 1850 arriva da Ginevra una diligenza dopo un viaggio di diciotto ore, compresi i tratti a cavallo a dorso di mulo o in portantina. La famiglia Tairraz costruisce alberghi, presto saranno più di duemila i viaggiatori in transito e la guida Marianna Stark consiglia coloro che ‟non riescono a vincere il terrore degli abissi a desistere dall’impresa”.
Oggi siamo all’esatto contrario, ai vani desideri naturalistici di riportare il Bianco allo stato primitivo cancellando le funivie, le autostrade. è finita l’epopea dei viaggiatori inglesi dell’Ottocento che apparivano ai valdostani come semidei dalla forza incontenibile capaci di percorrere a piedi l’intera valle, uomini e donne e non si fermavano di fronte a nessuna montagna.
Certe sere con il medico condotto di Morgex ci mettiamo a contare le cose che c’erano quando eravamo ragazzi e che non ci sono più, grandi e piccole: i gamberi di fiume nella Dora, i ranocchi nell’acqua ferma del marais in val Veny, i ballatoi di ringhiera, i mulini ad acqua, gli spartineve trainati dai cavalli, le file dei muli che salivano ai valichi, lo champagne leggero e petillant dell’abate Bougeat che morì nel suo letto a Morgex mentre leggeva portando con sé il segreto di quel vino dei più alti vigneti d’Europa che negli anni freddi si ferma ai dieci gradi. Io non sono un harpitano ma un cuneese, alle montagne sono nato e cresciuto nelle Marittime dove arriva l’odor salmastro del mare, nell’Harpitania ci sono arrivato con la guerra e il giornalismo tenendo le cronache di quelli che l’hanno trasformata non sapremmo dire se in meglio o in peggio.
L’antico sogno del traforo
Il primo grande trasformatore fu un conte di Biella di nome Lora Totino, che si era messo in testa di forare il monte Bianco. L’impresa sembrava disperata: gli italiani non avevano i soldi, i francesi che nelle faccende militari spesso delirano temevano di aprire le porte di casa. Ma quel conte aveva una testa biellese tenace e inventiva, lui si comportava come se il traforo fosse già in opera. Aveva fatto scavare all’altezza di Notre dame de la guérison un suo buco lungo una ventina di metri e invitava noi giornalisti a testimoniare che il traforo si faceva, che non era un sogno.
E con lui, in fatto di opere gigantesche, non si scherzava: era arrivato con una funivia fino ai tremila e cinque del Plateau Rosa a Cervinia, ci avrebbe trascinato fino al Cairo dove voleva arrivare con una funivia sulla piramide di Giza. Ne ero informato perché il compito di portare lassù la fune portante di acciaio lo aveva affidato al maggiore degli alpini Lamberti, mio concittadino. Lamberti mi chiamò nell’estate del '48, a vedere come si calava la fune portante dalla Aiguille du Midi a Chamonix, per completare la traversata.
Dal rifugio Torino arriviamo traversando il ghiacciaio sino alla baracca del cantiere appesa sul baratro che sprofonda su Chamonix. Il grande gomitolo della fune era arrivato lassù in elicottero. Fin che ci fu luce, le guide assoldate per quel lavoro ad alta quota trasportarono a spalle putrelle di acciaio e sacchi di cemento su e giù per il ghiacciaio in sci. Non dormii quella notte per l’altitudine, e si era svegli all’alba per assistere all’operazione in cui la tecnica più raffinata e di avanguardia era affidata ancora ai muscoli e al fiato degli uomini.
L’Aiguille era già collegata a Chamonix da un cavo guida leggero, a cui era appesa una cassetta di legno con un bordo alto quindici centimetri. Lamberti mi disse di salirci per seguire dall’alto l’operazione. Stavo ritto, i piedi puntati sul bordo inferiore sospeso nel vuoto, là in fondo le case di Chamonix. Le guide si calavano per la parete dell’Aiguille tirandosi dietro il cavo guida che trainava la portante. Mi arrivavano nell’aria gelida i loro richiami, le loro imprecazioni. Come premio Lamberti mi fece scendere sulla funivia di servizio, la cassetta di legno, fino a Chamonix.
Prima della guerra a Courmayeur funzionava come mezzo di risalita uno slittone tirato da una fune. Mi sono rifatto nel dopoguerra, seguendo il dottor Savoretti mentre seminava di sky lift la val Veny. Savoretti aveva aperto il commercio con l’Unione Sovietica e sposato una russa amica di una figlia di Kossighin. Lo incontrai a Mosca, nel suo grande ufficio dove la consegna era di non parlare del comunismo e dei comunisti importanti. Sembrava di stare in una stazione lunare che funzionava alla perfezione ignorando il caos e la povertà circostanti.
Ma il suo regno era Courmayeur dove aveva prima affiancato e poi superato l’altro signore del luogo, il conte Titta Gilberti, costruttore e padrone delle funivie del Bianco. Entrambi percorrevano i loro regni accompagnati da un maestro di sci emerito, con funzioni di ministro della realcasa, maggiordomo pronto a guidarli e a rifocillarli. Savoretti non era un alpinista famoso, un accademico come Gervasutti e Boccalatte, ma era cresciuto nel mito dell’alpinismo piemontese che aveva celebrato i suoi riti e i suoi fasti durante il fascismo e nei primi anni della Repubblica.
Il periodo dominato da Gervasutti, ‟il fortissimo”, il friulano trasferitosi a Torino e diventato l’uomo guida, il modello inarrivabile di quella borghesia apolitica, a volte antifascista, che aveva fatto dell’alpinismo il suo rifugio e del massiccio del Bianco la sua vera patria. In quegli anni la conquista delle pareti inviolate era impresa da semidei, più forti della natura, della paura, della fatica. I giornali dedicavano pagine intere alla conquista delle Grandes Jorasses di Renato Chabod e di Gervasutti, o alle prime di Bonatti. Un mondo elitario, di costumi severi, un po’sadico e un po’necrofilo. Lo spettacolo sadico era offerto quasi ogni mattino di inverno sulle alte piste di Toula o dell’Arp o della traversata del Bianco lungo la Mer de Glace. Non mancava mai lo spettacolo della fidanzata o dell’amico trascinati sulle piste precipiti, o fra seracchi e voragini ghiacciate, incrodati come muli, decisi a non muovere più un passo, a non osare più un metro, insensibili alle minacce o agli inviti dell’aguzzino accompagnatore che giustamente veniva punito dovendo poi riportare in qualche modo a valle quei sacchi di patate incautamente portati sui più alti e perigliosi cammini.
La traversata invernale del Bianco lungo la Mer de Glace era luogo di veri macelli. Ricordo il calvario degli amici trascinati nell’impresa, il figlio giovanissimo di una collega romana che cominciò a cadere appena fuori la stazione della funivia al colle del Gigante e continuò per i quindici chilometri della discesa, seguito da un maestro gigantesco che lo sollevava di peso, lo rimetteva sulla pista e aspettava rassegnato la prossima caduta. Eravamo feroci e anche strambi nelle punizioni dei deboli, come quella del famoso sociologo che si presentò sul ghiacciaio con degli scietti di legno senza lamine, partì ilare e scomparve quasi subito in un crepaccio. Corremmo con una corda da trenta metri per tirarlo fuori e quando finalmente sentimmo che l’aveva afferrata lo issammo, ma non era lui era un altro caduto nello stesso punto, e la guida che tirava la fune non voleva crederci, lo guardava male come un truffatore. Il sociologo, quando venne su con i suoi scietti, non disse neppure grazie, ripartì deciso saltando altri crepacci e rimbalzando sulle gobbe ghiacciate quasi a prendersi gioco del nostro sadismo.
Quanto alla necrofilia ho passato centinaia di veglie a ripassare tutti i morti da slavina o da valanga. Alcuni, non si sapeva bene perché, prediletti nelle memorie. Si ripercorreva con zelo il loro ultimo cammino, riponendoci le stesse inutili domande sul perché avessero perso l’equilibrio in un posto sicurissimo, o sbagliato come Gervasutti una elementare corda doppia dopo averne fatto mille, o messo il piede su una cornice di ghiaccio pendula pronta a cadere. Fra i necrofili dilettanti ce ne erano di veri. Quel vecchio partigiano che non mancò un recupero di cadavere dalle Marittime alle Pennine. O quel meccanico di Courmayeur che teneva pronta una jeep fornita di pale, barelle, corde, e appena gli giungeva notizia di una sciagura alpina partiva su per dirupi e boschi e burroni usque ac cadaver, di cui ampiamente relazionava ad amici e parenti la positura, le ferite, il pallore del viso, quello sguardo fermo per sempre nell’incontro con la morte.
C’erano estati povere di piaceri necrofili, ma altre ricchissime favorite da cambi repentini di temperature, da tempeste, da fulmini che facevano strage di cordate straniere specie cecoslovacche o polacche. E il meccanico con la sua jeep attrezzata correva da una valle all’altra da una parete all’altra per vedere in faccia la morte. Nel regno del Bianco ci sono altre attività e curiosità canoniche: una è quella di riconoscere e ricordare tutti i nomi delle vette o aiguilles o denti o picchi o ghiacciai o pareti o combe o laghi, più orridi favole leggende. ‟E voi montagne ci guardate ci guardate ma non siete mai cadute”. Che ha voluto dire Elias Canetti? Che fra noi uomini e loro, le montagne, c’è un rapporto univoco: la nostra fantasia contro la loro indifferenza. Le nostre mode contro la loro mole immutabile. Noi che per secoli le abbiamo ignorate e che improvvisamente rivolgiamo ad esse una attenzione quasi morbosa.
Una bellezza da restare senza fiato
Ho intervistato scalatori famosi, quasi tutti presi dalla montagna come da una donna bellissima e omicida. La letteratura alpinistica tende al mistico, le altitudini avvicinano a Dio. Ma possono anche essere ignorate. Chi oltrepassa la stretta della Pierre taillée, sopra Arvier, esce dalla penombra nella luminosa gloria del Bianco, il grande fiore di roccia e di ghiaccio. Una bellezza da rimanere senza fiato. Ma per generazioni il colosso è stato senza nome, come le altre vette della Alpis Graia. Cesare diretto alle Gallie non lo nomina, non lo descrive; non se ne accorge Annibale al passaggio delle Alpi; non gli danno un nome neppure gli arabi, che sanno di geografia e di cartografia. Per tutti è un grande bastione ghiacciato che non porta da nessuna parte. Generazioni di buoni disegnatori disegnano le montagne tutte eguali, a denti di sega: per loro una montagna vale l’altra. Strade e valichi di fondovalle sono indicati con precisione già dai romani, ma ciò che è lassù in alto non conta. A Courmayeur solo una montagnucola ha un nome: il Chetif, dai captivos, gli schiavi che lavoravano nelle miniere.
Ma il gigante resta senza nome. Lo si vede in un quadro di Konrad Witz, una pesca sul lago di Ginevra nel 1444, montagna innominata o di nomi mutevoli: Alpis alba, Saxsus albus, Malet, Maudit, Les glaciers. Un nome vero e fisso non lo si trova neppure nelle carte di Johannes Strump, che pure ha dato un nome all’Eiger e alla Jungfrau. Le montagne guardano indifferenti e gli uomini fantasticano. Di fronte al Bianco, immaginano che lassù dietro le vette ci sia un gigantesco serbatoio di neve da cui scendono le lingue dei ghiacciai. La conquista del Monte Bianco è un’epopea romantica-scientifica-femminista. Dopo il leggendario Balmat, guida e cercatore di cristalli, tocca allo scienziato ginevrino De Saussure, che resta sulla cima con tutti i suoi strumenti scientifici tre ore e mezzo. E poi sarà il turno di una donna, Henriette d’Angeville, che intaglia nel ghiaccio il motto ‟Vouloir c’est pouvoir” (più nota di Marie Paradis), che nel 1908 fu portata di peso in vetta dalle guide per invogliare gli alpinisti che incominciavano ad arrivare a Chamonix da tutta Europa. Il turismo alpino fiorisce: tre volte la settimana nel 1850 arriva da Ginevra una diligenza dopo un viaggio di diciotto ore, compresi i tratti a cavallo a dorso di mulo o in portantina. La famiglia Tairraz costruisce alberghi, presto saranno più di duemila i viaggiatori in transito e la guida Marianna Stark consiglia coloro che ‟non riescono a vincere il terrore degli abissi a desistere dall’impresa”.
Oggi siamo all’esatto contrario, ai vani desideri naturalistici di riportare il Bianco allo stato primitivo cancellando le funivie, le autostrade. è finita l’epopea dei viaggiatori inglesi dell’Ottocento che apparivano ai valdostani come semidei dalla forza incontenibile capaci di percorrere a piedi l’intera valle, uomini e donne e non si fermavano di fronte a nessuna montagna.
Giorgio Bocca
Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …