Alessandro Dal Lago: Dopo le bombe a Londra. Centri chiusi

12 Luglio 2005
Gli attentati di Londra, nel cuore di un paese in prima fila in Iraq, segnano, più di quanto non sia avvenuto dopo l'11 marzo 2004 a Madrid , il quadro politico internazionale. Con essi, il ‟fattore Osama bin Laden” si rafforza come stabile componente di ogni discorso politico occidentale, come è avvenuto in Usa dopo l'11 settembre. Importa poco che, stando alle cronache, i cittadini di Londra abbiano reagito compostamente e non ci sia stata la caccia all'islamico. Il fatto è che la sicurezza sarà più di prima il codice supremo della vita politica, anche a discapito delle garanzie individuali. Che il governo italiano abbia lanciato l'allarme rosso, e che si moltiplichino le diagnosi sulla nostra impreparazione, va al di là del problema oggettivo delle minacce terroristiche. Significa un'accelerazione del nostro contributo allo ‟scontro di civiltà”. Immediatamente, infatti - e non poteva essere diversamente - è ripartita la polemica sulla necessità dei Cpt e in generale del controllo dei clandestini. D'altra parte, l'equazione ‟immigrazione uguale importazione del terrorismo” era nell'aria da tempo; e l'accordo tra i ministri degli interni di Italia, Spagna, Francia, Inghilterra e Germania sul pattugliamento congiunto del Mediterraneo e l'espulsione dei clandestini ha preceduto solo di pochi giorni l'attentato di Londra.
Non staremo a ripetere come l'equazione sia priva di significato e come gran parte dei processi costruiti in base ad essa si siano conclusi quasi sempre con un buco nell'acqua: non c'è bisogno di essere esperti di intelligence per comprendere come gruppi terroristici così efficienti come quelli che hanno operato a New York, Madrid e Londra non si affidano certamente alle incertezze dei viaggi sulle carrette del mare.
Il problema è un altro: la crescente paranoia dell'islamico, oltre alla tradizionale avversione per gli immigrati, rischia di tradursi in una potente risorsa elettorale e in una cambiale pagata in bianco a una logica esclusivamente repressiva. Per questo, la decisione sui Cpt dei quattordici presidenti di regione è importante e va sostenuta con ogni sforzo (anche se non tutti i partiti che fanno parte delle loro maggioranze hanno sempre le carte in regola su questo punto). Diciamo con forza che i Cpt violano i diritti umani degli internati, per motivi che ormai anche i sassi conoscono e in base a prove empiriche più che sufficienti (la mancanza di controllo della magistratura, i ben noti abusi ecc.).
Ma diciamo anche che, come tutte le ‟guerre” di questi anni, anche la guerra alla clandestinità è sbagliata e controproducente. Andando a invadere l'Iraq, gli occidentali hanno facilitato il terrorismo, altro che combatterlo. E ora, dichiarando la guerra agli immigrati poveri, si stanno inventando un nemico di comodo, proprio nel momento in cui proclamano untuosamente la loro volontà di aiutare il terzo mondo.
I Cpt non sono solo un simbolo, come forse qualcuno crede. Sono il banco di prova del modo in cui gli stati europei affrontano i diritti umani. Perché è sui bordi del sistema che le garanzie devono valere (a rispettare i diritti formali delle maggioranze sono capaci tutti, in primo luogo i ‟liberali”). Ma vincere la battaglia sui Cpt non significa solo impedire che i migranti siano trattati peggio di delinquenti. Significa anche gettare le premesse perché domani la cultura della guerra al terrorismo (che ora investe gli stranieri) non si estenda a chiunque non si conforma alle logiche sociali e politiche dominanti.

Alessandro Dal Lago

Alessandro Dal Lago (Roma, 1947) ha insegnato e svolto attività di ricerca nelle Università di Genova, Pavia, Milano, Bologna e Philadelphia. Si è occupato di teoria sociale e politica, sociologia …