Giulia Carcasi: Ruggine. Un racconto

26 Luglio 2005

Due uomini d´affari prendono un aperitivo da Rosati, brindano a un contratto, parlano di donne dello spettacolo, s´intendono alla perfezione su gambe vertiginose e scollature profonde.
Una ragazza aspetta al tavolino qualcuno. Un vestito di seta turchese le accarezza il corpo, una matita sottolinea i suoi occhi blu. Ogni tanto guarda l´orologio, sposta il posacenere un centimetro a destra e uno a sinistra, di nuovo l´orologio, poi i suoi occhi azzurri si spengono in un pensiero triste: forse lui non verrà.
So quanto è dura l´attesa.
Vado di corsa, faccio passi svelti, più svelti, per arrivare presto, più presto. Abbiamo già perso tanto tempo io e te...
Un suonatore di strada dà vita a una musica nostalgica, sperando di strappare qualche centesimo ai passanti.
Ti aspetto.
Mi siedo sui gradini di Santa Maria dei Miracoli. Non entro, sono anni che non mi confesso, ho smesso di credere ai santi.
Piazza del Popolo trattiene il suo fascino, come quelle signore invecchiate bene.
E´ un porto di mare qui: gente che va, gente che viene, gente che vorresti trattenere per guardarla meglio, per rubarle una storia. Gente di passaggio che si stringe nella giacca e scivola via.
Solo l´obelisco se ne sta lì fermo. Ha spiato i baci dell´amore, ha sorriso al sorriso della pace, ha visto la guerra, l´ha guardata dritta negli occhi. Chissà di che colore sono gli occhi della guerra... Secondo me ha lo sguardo rosso e bagnato: si spaventa di quello che è capace di fare e piange.
Quell´obelisco ha visto anche me, te e lei.
Ma non dirà niente a nessuno, non farà la spia.
Piazza del Popolo sa ancora di noi.
Ti sento nell´aria, una tramontana che mi si aggrappa alle ossa e mi sconvolge i vestiti. Cerco d´immaginare da quale strada provieni, da dove mi arriverà l´eco delle tue scarpe. Vedo i tuoi mocassini marroni fare un passo indeciso verso di me, rallentare al pensiero di un bacio lontano, una promessa...
E´ strano come i ricordi sono capaci di influenzarti i piedi: oggi quegli stessi piedi che ti avevano portato via, ti riportano qui.
"Ho bisogno di rivederti" mi hai detto al telefono, con quel filo di voce rauca che il fumo ti ha lasciato.
La voce è il tuo distintivo. Di te non conosco il contatto, tu per me non eri corpo. Eri voce...
Sentivo la ruggine nelle tue corde vocali: raschiavi le parole in gola.
Eri il rimprovero delle serate in cui rincasavo tardi: "Dove sei stata Laura?", "Fuori. Non sto bene qui". Il mio egoismo, la tua rabbia da lupo. Ti eri stancato di quella vita: ne volevi un´altra, senza di me, senza di lei, solo tu. Non ti bastava l´amore di due donne; forse ce n´era un´altra ad aspettarti, in qualche angolo di Roma.
La valigia aperta: accartocciavi i vestiti e li spingevi dentro.
Sei andato via senza avvisarla, a lei non dovevi niente, lo sapeva che eri di passaggio. Io no, io credevo ai cambiamenti, credevo che tu potessi mettere radici, per un attimo l´ho fatto credere anche a te che fosse possibile.
Non c´è stato un ultimo abbraccio, non te l´ho chiesto e tu non ci hai pensati.
Ti ho guardato dalla finestra, mentre scappavi col passo deciso degli irresponsabili.
"La vita è adesso! Adesso!" mi hai urlato prima di chiudere la porta alle tue spalle.
Ti sei giustificato con Baglioni quella volta.
Eri convinto che tutte le canzoni, tutte, parlassero di te.
Piangevi dolori diversi dal tuo, ridevi di amori che non avevi posseduto.
Ti piaceva pensare che in quella musica c´eri tu, ti piaceva pensare che in tutto c´eri tu.
"Io ho girato il mondo. E il mondo, se lo annusi bene, sa di me" dicevi con gli occhi esperti, da vagabondo.
La domenica salivamo su, al Pincio, a guardare la gente dall´alto in basso, a ridere di signore impellicciate, di polsi e colli appesantiti dall´oro. A noi invece formicolavano i piedi per il freddo. Ti affacciavi dal parapetto: "Il mondo è mio!" gridavi a chi stava sotto e riscuotevi la risata ricca di quelle signore. Allora mi affacciavo anche io e gridavo dopo di te, per dividere insieme quella bravata. La tua capacità di trascinare prendeva per mano la mia ingenuità.
Un abisso di anni tra noi.
Eri più grande di me o forse ero io che ti vedevo così; forse eri piccolo anche tu e avevi paura, per questo te l´eri data a gambe. Eri diventato ancora più voce, solo voce.
All´inizio chiamavi una volta a giorno, a settimana, a mese, ad anno... poi eri scomparso, senza lasciare tracce.
Cercavo un trucco, un doppiofondo dove trovarti. Niente, nessuno sapeva.
Una volta ho persino bussato a casa di tua madre: "Lascialo libero, quello è nato al vento" ha detto di te e ha richiuso la porta.
Però a volte mi prendeva quella voglia: voglia di scoprire se i tuoi capelli brizzolati si erano fatti bianchi, se le tue mani erano ancora piene di calli e nervi, indurite dal lavoro. Voglia dei tuoi occhi da vagabondo.
Allora tornavo su quella terra, lassù, al Pincio, a gridare come una scema, da sola, a guardare dall´alto verso il basso le signore d´oro. E, ogni volta, speravo di sentire la tua voce di fumo arrivare dopo la mia. Ma tu non arrivavi e io restavo lì a fantasticare sulla tua vita: chissà se avevi illuso qualcun´altra, se avevi messo in mezzo altri figli, altre innocenze da portare in giro. Chissà com´era la tua casa, se avevi una casa, con te non si poteva sapere: ogni tanto pensavo che potevi essere uno di quelli che vivono per strada, con i fogli di giornale sotto al maglione e una panchina amica. Allora studiavo bene i volti di quelli che incontravo, cercavo i tuoi lineamenti al di là di barbe incolte.
Ti cercavo dappertutto, nel sorriso di un nuovo amore, nelle mani lisce di un ragazzino che cercava di insegnarmi la tenerezza. Amavo ragazzi di venti, trent´anni: corpi atletici, pieni di energie; però mi mancavano i tuoi pochi capelli, la stanchezza dei tuoi anni.
Ho incontrato un uomo più grande di me, un medico. Mi ha dato un lavoro ben pagato: gli facevo da segretaria, annotavo gli appuntamenti della settimana. Dopo due anni di letto e sospiri, un ultimatum: "O la tua famiglia o me".
Volevo che lui se ne andasse di casa, non per amore, soltanto per insegnare alla moglie e alla figlia quello che tu hai insegnato a me. Volevo che anche loro sapessero il senso dell´abbandono, quel sentirsi giocattoli rotti, vestiti smessi. Ma quell´uomo non aveva il tuo coraggio e la tua stupidità.
Ho perso lui, il lavoro e la fiducia in me stessa. Ha vinto l´amore per sua figlia. Perché io ti ho perso?
Domande come questa mi fanno impazzire. Pensieri che si accavallano, "perché?" che non trovano risposta, il ricordo delle tue teorie improvvisate... "Roma si sveglia quando la gente va a dormire", ne eri convinto tu.
E così, di sera, sul tardi, quando tornavi dal lavoro, ci dicevi di vestirci bene.
Venivamo a Piazza del Popolo, con le scarpe e il vestito buono, a stupirci di ogni cosa che la città offriva: una fontana che lavorava senza riposo, una statua che dormiva in piedi, un obelisco troppo alto per noi.
C´era anche lei con noi. Mi piaceva quando la baciavi e la prendevi per mano, gesti che ogni giorno perdevano intensità.
Oggi io e te ci rivediamo qui, dopo tanti anni, almeno venti. Che cosa abbiamo ancora da dirci?
Ti racconterò di come mi sono stancata di cercarti, di quel medico che una volta mi ha urlato "Tu non mi ami, tu cerchi soltanto lui in me. Ma io non sono tuo padre!".
No, lui non era mio padre. Mio padre sei tu.
Lancio uno sguardo alla piazza, tiro un respiro a pieni polmoni.
Guardo le sigarette accartocciate per terra, i sintomi del nervoso di chi aspetta.
"Ciao Laura".
La tua voce di ruggine. Una mano si posa sulla mia spalla.
L´obelisco ci guarda chissà se si ricorda di noi.
"Ciao papà".
Hai lo sguardo annacquato dei vecchi, gli occhi pieni di lacrime fisse. E non sai come cominciare, se fare domande o dare risposte.
"Ce l´hai una sigaretta?"
Non sei cambiato per niente: "Sei sempre pronto a scroccare", ti direbbe mamma.
Tiro fuori dal pacchetto una Marlboro Light e te la passo.
Tu ci pensi, la metti tra le labbra, l´accendi, fai il primo tiro, ti siedi sui gradini con me.
"Sono diventato vecchio".
"C´è tempo" ti dico.
Guardiamo oltre.
Oltre l´obelisco, oltre la chiesa, oltre noi.

Ma le stelle quante sono di Giulia Carcasi

C’è una generazione fatta di sms, gavettoni, crêpes alla nutella, professori frustrati; c’è la voglia di essere ascoltati e di giudicare la vita, gli adulti, l’ingiustizia. Ci sono Carlo e Alice: stessa classe e, a volte, stesso banco. Lui è meravigli…