Guido Viale: A Occidente di Oriana
26 Luglio 2005
Non ho letto l'intera sequela degli scritti di Oriana Fallaci contro l'Islam e in difesa dell'ormai decaduta civiltà occidentale (il troppo stroppia) e concordo con Piero Ottone che, anche prima dell'ultimo saggio (Il nemico che trattiamo da amico, il ‟Corriere della Sera”, 16/7/2005) aveva sostenuto che quegli scritti non sono commentabili - non meritano commenti - perché non contengono argomentazioni, ma solo invettive. Essi però suscitano almeno due interrogativi: il primo riguarda il loro successo, sia tra il grande pubblico che tra un gruppo nutrito e in continua crescita di intellettuali, politici e giornalisti. Il secondo riguarda il ‟non detto” di questi scritti. Vale a dire: che cosa propone Oriana Fallaci? Le questioni sono tra loro connesse: il successo di quegli scritti dipende molto dal fatto che si fermano prima di tirare le conseguenze. Oriana Fallaci dà voce e veste - non certo ‟dignità” - letteraria a umori diffusi in una parte consistente del pubblico italiano, europeo, ‟occidentale”; umori che - in questo ha ragione - prima dei suoi interventi molti si sarebbero vergognati di palesare. Quali? Innanzitutto la paura del diverso e dello ‟straniero”, acuita dalle dimensioni planetarie delle migrazioni messe in moto dalla globalizzazione del mercato del lavoro, dalla miseria e dalle guerre.
In secondo luogo la nostalgia di un'identità perduta; un'identità devastata dalla moltiplicazione dell'offerta di beni di consumo e dalla vacuità dei messaggi veicolati dai media. Poi la ‟rabbia” - è la malattia dei cani idrofobi - con cui Oriana Fallaci ha inteso contrassegnare la tonalità emotiva delle sue invettive, e che trova ampio riscontro nelle frustrazioni quotidiane di una vita sempre più agra imposta tanto a chi è privo di tutto quanto a chi ancora mantiene dei privilegi. Infine ‟l'orgoglio”. Non è chiaro di che cosa sia orgogliosa Oriana Fallaci, che si vergogna della mollezza di quasi tutti i governanti e i governati della civiltà a cui sente di appartenere. Ma l'orgoglio è il segreto del suo successo: meno ci si sente considerati - e da tempo la considerazione e il rispetto riservati ai comuni cittadini stanno approssimandosi allo zero - più si persegue una rivalsa alla ricerca di qualcuno che ‟valga” meno di noi. E' il meccanismo fondamentale del razzismo: quello che per anni ha indotto i ‟bianchi poveri” degli Stati uniti del Sud a fare da punta di lancia della discriminazione razziale. Oriana Fallaci ha individuato questo ‟qualcuno” in un ‟mondo islamico” costruito a suo uso e consumo; e ad esso non lesina il suo disprezzo e aperte manifestazioni di schifo. Così insegna a tutti a essere razzisti ‟con orgoglio”: senza vergognarsi. Quanto al ‟che fare?”, non è un caso che Oriana Fallaci non ne parli mai, nonostante il profluvio di parole di cui periodicamente ci inonda. A quel che fare? ha riservato un polemico accenno di sfuggita Eugenio Scalfari, quasi si trattasse solo di un paradosso: ‟arrestare tutti i musulmani residenti in Italia e buttarli a mare. Oppure, in alternativa, chiuderli in giganteschi ghetti da dove potrebbero uscire soltanto sotto scorta per andare a lavorare. Probabilmente Oriana Fallaci e qualche suo sodale plaudirebbero a una politica di questo genere” (‟la Repubblica”, 17.07.05). Ma è un argomento che merita più attenzione.
L'ultima esternazione di Oriana Fallaci può essere sintetizzata in questi termini: 1) siamo (chi?) in guerra; 2) la guerra è contro l'Islam: in tutte le sue manifestazioni; 3) non esistono islamici ‟moderati”, cioè pacifici (prima o dopo diventeranno tutti terroristi); 4) ciò dipende dal Corano, che è predicazione di odio (degli stermini ordinati dal dio della Bibbia contro i nemici di Israele non si fa parola; ci sono state sì crociate e roghi di streghe ed eretici, ma è acqua passata. E il pope che benediceva i macellai di Srebrenica?); 5) l'Islam sta invadendo l'Europa (consenzienti i suoi governanti); 6) l'obiettivo di questa invasione è il dominio del mondo (qui si sfiorano, o si superano, i Protocolli dei savi di Sion); 7) bisogna combattere. Ma come? Contro l'Islam nei paesi di origine non c'è problema. Bush ha dato l'esempio e bisogna continuare a sostenerlo: oggi in Afghanistan e in Iraq, domani in Iran, Siria, e così via; anche se i risultati di queste guerre si sono rivelati veri disastri per tutti: l'Iraq è stato trasformato in una concentrazione e in un punto di irradiamento planetario del terrorismo. Ma che fare contro l'Islam che cerca di sfondare le nostre frontiere con i permessi di lavoro o con i boat-people? Qui ‟buttarli a mare” significa: azzeramento dei flussi (così l'economia e la società europee vanno a fondo definitivamente: chi vorrà lavorare al posto degli immigrati?) e fuoco sulle imbarcazioni dei clandestini che cercano di sbarcare sulle nostre coste. E poi, moltiplicazione dei Centri di permanenza temporanea, che Oriana Fallaci vorrebbe trasformati in vere prigioni (ma che cosa gli manca per esserlo?) e deportazioni, individuali, come quelle della Cia verso i paesi che torturano e fanno sparire i loro oppositori; e di massa, come quelle del ministro Pisanu verso i paesi che abbandonano nel deserto gli immigrati respinti: tutte soluzioni la cui inefficacia è pari solo alla loro crudeltà.
E che fare, infine, dei dieci milioni di islamici già presenti sul suolo europeo, molti dei quali cittadini dei rispettivi Stati? Già; che farne? Non si può rimandarli nei paesi di origine: non se li riprenderebbero. Non si può ‟assimilarli”: non ci stanno più; meno che mai oggi, di fronte a una società che non prospetta niente di buono nemmeno ai suoi membri di lunga data. E nemmeno si può convertirli, in nome delle ‟radici cristiane” dell'Europa; anche loro hanno radici, che cristiane non sono. Ricordarglielo non fa che fomentare le ostilità. Bisogna però impedir loro di nuocere, tenendoli sotto controllo, perché ciascuno di loro è un potenziale terrorista. Un metodo - ma non ne vedo altri - potrebbe essere, come ipotizza Eugenio Scalari, quello di rinchiuderli nei loro quartieri, limitando la loro possibilità di circolare liberamente tra ‟noi”. Oppure marchiarli, magari cucendogli addosso una mezzaluna verde. Qualcosa del genere lo abbiamo già sentito, vero, Oriana? Ma alla lunga, possiamo continuare a convivere con un'intera nazione di nemici, annidati nelle nostre città, molti dei quali talmente simili a noi da raggiungere posizioni di rilievo? Non diventerà indispensabile trovare anche per loro una ‟soluzione finale”? Non è un'iperbole né un paradosso. Anche se evitano di nominarlo, gli scritti di Oriana Fallaci e il loro successo ci pongono di fronte a un esito possibile dei processi di globalizzazione. Certamente dobbiamo portare i seguaci di Oriana Fallaci a misurarsi con questi interrogativi. Ma con prospettive del genere dobbiamo fare i conti e definire le alternative possibili. Le risposte di comodo non sono ammesse.
In secondo luogo la nostalgia di un'identità perduta; un'identità devastata dalla moltiplicazione dell'offerta di beni di consumo e dalla vacuità dei messaggi veicolati dai media. Poi la ‟rabbia” - è la malattia dei cani idrofobi - con cui Oriana Fallaci ha inteso contrassegnare la tonalità emotiva delle sue invettive, e che trova ampio riscontro nelle frustrazioni quotidiane di una vita sempre più agra imposta tanto a chi è privo di tutto quanto a chi ancora mantiene dei privilegi. Infine ‟l'orgoglio”. Non è chiaro di che cosa sia orgogliosa Oriana Fallaci, che si vergogna della mollezza di quasi tutti i governanti e i governati della civiltà a cui sente di appartenere. Ma l'orgoglio è il segreto del suo successo: meno ci si sente considerati - e da tempo la considerazione e il rispetto riservati ai comuni cittadini stanno approssimandosi allo zero - più si persegue una rivalsa alla ricerca di qualcuno che ‟valga” meno di noi. E' il meccanismo fondamentale del razzismo: quello che per anni ha indotto i ‟bianchi poveri” degli Stati uniti del Sud a fare da punta di lancia della discriminazione razziale. Oriana Fallaci ha individuato questo ‟qualcuno” in un ‟mondo islamico” costruito a suo uso e consumo; e ad esso non lesina il suo disprezzo e aperte manifestazioni di schifo. Così insegna a tutti a essere razzisti ‟con orgoglio”: senza vergognarsi. Quanto al ‟che fare?”, non è un caso che Oriana Fallaci non ne parli mai, nonostante il profluvio di parole di cui periodicamente ci inonda. A quel che fare? ha riservato un polemico accenno di sfuggita Eugenio Scalfari, quasi si trattasse solo di un paradosso: ‟arrestare tutti i musulmani residenti in Italia e buttarli a mare. Oppure, in alternativa, chiuderli in giganteschi ghetti da dove potrebbero uscire soltanto sotto scorta per andare a lavorare. Probabilmente Oriana Fallaci e qualche suo sodale plaudirebbero a una politica di questo genere” (‟la Repubblica”, 17.07.05). Ma è un argomento che merita più attenzione.
L'ultima esternazione di Oriana Fallaci può essere sintetizzata in questi termini: 1) siamo (chi?) in guerra; 2) la guerra è contro l'Islam: in tutte le sue manifestazioni; 3) non esistono islamici ‟moderati”, cioè pacifici (prima o dopo diventeranno tutti terroristi); 4) ciò dipende dal Corano, che è predicazione di odio (degli stermini ordinati dal dio della Bibbia contro i nemici di Israele non si fa parola; ci sono state sì crociate e roghi di streghe ed eretici, ma è acqua passata. E il pope che benediceva i macellai di Srebrenica?); 5) l'Islam sta invadendo l'Europa (consenzienti i suoi governanti); 6) l'obiettivo di questa invasione è il dominio del mondo (qui si sfiorano, o si superano, i Protocolli dei savi di Sion); 7) bisogna combattere. Ma come? Contro l'Islam nei paesi di origine non c'è problema. Bush ha dato l'esempio e bisogna continuare a sostenerlo: oggi in Afghanistan e in Iraq, domani in Iran, Siria, e così via; anche se i risultati di queste guerre si sono rivelati veri disastri per tutti: l'Iraq è stato trasformato in una concentrazione e in un punto di irradiamento planetario del terrorismo. Ma che fare contro l'Islam che cerca di sfondare le nostre frontiere con i permessi di lavoro o con i boat-people? Qui ‟buttarli a mare” significa: azzeramento dei flussi (così l'economia e la società europee vanno a fondo definitivamente: chi vorrà lavorare al posto degli immigrati?) e fuoco sulle imbarcazioni dei clandestini che cercano di sbarcare sulle nostre coste. E poi, moltiplicazione dei Centri di permanenza temporanea, che Oriana Fallaci vorrebbe trasformati in vere prigioni (ma che cosa gli manca per esserlo?) e deportazioni, individuali, come quelle della Cia verso i paesi che torturano e fanno sparire i loro oppositori; e di massa, come quelle del ministro Pisanu verso i paesi che abbandonano nel deserto gli immigrati respinti: tutte soluzioni la cui inefficacia è pari solo alla loro crudeltà.
E che fare, infine, dei dieci milioni di islamici già presenti sul suolo europeo, molti dei quali cittadini dei rispettivi Stati? Già; che farne? Non si può rimandarli nei paesi di origine: non se li riprenderebbero. Non si può ‟assimilarli”: non ci stanno più; meno che mai oggi, di fronte a una società che non prospetta niente di buono nemmeno ai suoi membri di lunga data. E nemmeno si può convertirli, in nome delle ‟radici cristiane” dell'Europa; anche loro hanno radici, che cristiane non sono. Ricordarglielo non fa che fomentare le ostilità. Bisogna però impedir loro di nuocere, tenendoli sotto controllo, perché ciascuno di loro è un potenziale terrorista. Un metodo - ma non ne vedo altri - potrebbe essere, come ipotizza Eugenio Scalari, quello di rinchiuderli nei loro quartieri, limitando la loro possibilità di circolare liberamente tra ‟noi”. Oppure marchiarli, magari cucendogli addosso una mezzaluna verde. Qualcosa del genere lo abbiamo già sentito, vero, Oriana? Ma alla lunga, possiamo continuare a convivere con un'intera nazione di nemici, annidati nelle nostre città, molti dei quali talmente simili a noi da raggiungere posizioni di rilievo? Non diventerà indispensabile trovare anche per loro una ‟soluzione finale”? Non è un'iperbole né un paradosso. Anche se evitano di nominarlo, gli scritti di Oriana Fallaci e il loro successo ci pongono di fronte a un esito possibile dei processi di globalizzazione. Certamente dobbiamo portare i seguaci di Oriana Fallaci a misurarsi con questi interrogativi. Ma con prospettive del genere dobbiamo fare i conti e definire le alternative possibili. Le risposte di comodo non sono ammesse.
Guido Viale
Guido Viale, nato a Tokyo nel 1943, e vive a Milano. Ha lavorato in diverse società di ricerca e progettazione in ambito economico, sociale e ambientale e svolge un’intensa attività …