Guido Viale: Terrorismo. Elogio della diserzione
01 Settembre 2005
Non c'è terrorismo senza terroristi: con volti, storie, passioni, amicizie e frequentazioni, nomi veri e nomi di battaglia. Senza addentrarci nelle definizioni giuridiche o chiamare in causa il terrorismo degli Stati, se forme e radici delle diverse manifestazioni storiche di terrorismo sono molto diverse e incomparabili, lo stesso non vale per le storie e le motivazioni personali dei terroristi, che si assomigliano tutte. Anche se i giovani e giovanissimi non ne sanno niente, dato che ‟certe cose” non si insegnano a scuola, in Italia le persone anagraficamente più mature hanno avuto un'ampia esperienza di terrorismo e di terroristi, che potrebbe tornare utile per orientarsi nell'attuale congiuntura internazionale. La strage di Piazza Fontana (1969) (sulle cui responsabilità sono state ormai acquisite certezze storiche, anche se una verità giudiziaria non è stata raggiunta; e oggi forse è persino inutile, oltre che impossibile, raggiungerla) insieme alle stigmate di ‟violenti” applicate a operai e studenti impegnati nelle lotte degli anni `70, è stata una vera e propria fabbrica di terroristi. Come sono state fabbriche di terroristi le altre stragi di quegli anni, nelle quali si era sostanziata la cosiddetta ‟strategia della tensione”: cioè una ‟guerra non ortodossa”, come l'avevano definita i suoi promotori, scatenata dagli apparati ufficiali o ‟paralleli” dello Stato italiano e da alcuni servizi segreti stranieri, e protrattasi per anni, a suon di bombe contro civili inermi e ignari, fino a che la scena politica italiana non era stata occupata dal terrorismo di sinistra, più o meno infiltrato da quegli stessi apparati.
A riprova della matrice dei terroristi italiani degli anni `70 vale il fatto che altri paesi europei e occidentali non hanno mai conosciuto un terrorismo paragonabile a quello italiano, perché non hanno avuto le stragi che ha conosciuto l'Italia. Solo gli irredentismi irlandese e basco, con comportamenti analoghi da entrambe le parti in causa, sono paragonabili, per dimensioni e durata, alla ‟lotta armata” italiana degli anni `70. D'altronde, le biografie di decine di ex militanti delle formazioni armate italiane tolgono ogni dubbio sull'origine e le motivazioni delle loro scelte.
Da tempo però, non più solo in Italia, ma a livello planetario (siamo d'altronde in epoca di globalizzazione) è all'opera un'altra e più attrezzata fabbrica di terroristi, che ha la sua matrice nel radicalismo islamico. Il buon senso, prima ancora che le ammissioni dei governi, riconosce che è impossibile sventare con operazioni di polizia attentati come quelli di Londra, o Madrid, Bali, Casablanca, Istanbul (anche se quello dell'11 settembre a New York sarebbe stato forse possibile bloccarlo). Il problema si trasferisce quindi su un altro piano: che cosa si può fare per prevenirli? Le opzioni di fondo non sono che due, alternative e inconciliabili: la guerra globale, ‟infinita” e preventiva contro il "terrorismo", senza nemmeno sapere che cosa sia e dove stia; e la promozione della defezione tra le sue file. La prima opzione, sostenuta da disinformazione e menzogne analoghe, per molti versi, a quelle diffuse dagli strateghi della ‟guerra non ortodossa” degli anni `70 in Italia, ha dimostrato il suo totale fallimento. L'Iraq occupato e non vinto ha concentrato sul suo territorio, ha moltiplicato, ha ispirato e ha diffuso in ogni angolo della Terra schiere di terroristi, pronti a soluzioni estreme come stragi indiscriminate e attentati suicidi. E' quella, oggi, la principale fabbrica di terroristi, come lo sono state, prima, l'occupazione militare dei Territori da parte di Israele e la guerra contro il regime filosovietico in Afghanistan: nata da politiche di potenza contrapposte, ma condotta per interposta persona da signori della guerra foraggiati e indottrinati dai wahabiti sauditi e armati fino ai denti dagli Stati uniti, e conclusasi con la vittoria del regime talebano, l'incistamento al suo interno di Bin Laden (un vecchio socio in affari della famiglia Bush e della Cia) e la diaspora dei ‟guerrieri” addestrati dagli Stati uniti: per diffondere il terrore in Algeria, Pakistan, Indonesia, Cecenia, nelle Filippine, oltre a ispirare e guidare tutti gli altri attentati del terrorismo di matrice islamica. Oggi peraltro l'Afghanistan, con l'eccezione della sua capitale, è di nuovo in mano a signori della guerra che da un momento all'altro, se già non lo sono, potrebbero trasformarsi in nuovi talebani; mentre il Pakistan, ufficialmente il principale alleato degli Stati uniti nella loro guerra infinita contro Bin Laden, ne è diventato in realtà nido, scuola e campo di addestramento.
La seconda opzione, la defezione, è meno semplice da programmare e più complicata da spiegare (tutte le cose complesse sono difficili). Ma l'unica possibilità di successo è prosciugare lo stagno in cui nuotano i terroristi di matrice islamica. In Italia le formazioni armate non sono state vinte dalle cariche della polizia contro i cortei del ‟movimento”, che, anzi, hanno contribuito non poco al loro reclutamento; né dall'intelligence degli apparati militari e giudiziari, parte dei quali aveva, e forse ha ancora, tutto l'interesse a tenerle in vita o ‟in sonno”, per farle riapparire al momento opportuno. E nemmeno sono stata vinte solo dall'esecrazione, generica e male informata, di un'opinione pubblica impaurita e indotta a ingigantirne la minaccia, proprio mentre la malavita organizzata assumeva, nell'indifferenza generale, il controllo del territorio in ben quattro regioni italiane. Sono state battute e si sono dissolte quando si sono accorte che ‟il movimento”, i compagni e i militanti che contavano di attirare sotto la loro egemonia, non li avrebbero mai seguiti: non erano, o non erano più, come se li immaginavano. Di lì sono cominciate le defezioni; perché era venuto meno il reclutamento; e il loro crollo è stato molto più rapido della loro incubazione. Certo, a vincerle ‟sul campo” sono state polizia e magistratura; ma se non fosse venuto meno il sostegno attivo, o anche solo passivo, degli ambienti in cui reclutavano, quella vittoria non sarebbe mai arrivata.
E oggi? Dove attinge le sue reclute il terrorismo di matrice islamica? Innanzitutto dall'orrore per la brutalità degli occupanti sulla popolazione dell'Iraq, dell'Afghanistan, della Cecenia, da Abu Grahib e Guantanamo, da Falluja a Grozny. Immagini come quelle del carnaio londinese sono vissute quotidianamente, tra l'indifferenza del mondo occidentale e cristiano, dalle popolazioni irachena, afgana, cecena, esposte da anni ai massacri perpetrati dagli occupanti o indotti da un terrorismo di importazione, alimentato dallo stato di guerra. Ma la prima fonte di reclutamento è il disprezzo per la vita, la dignità e la cultura di intere comunità, che si riflette nel razzismo e nelle angherie di cui è costellata la loro vita quotidiana, e che alimenta il terrorismo molto più della miseria del Sud del mondo o del degrado dei ghetti urbani, troppo spesso invocati a sproposito per spiegare azioni i cui autori raramente provengono da contesti di forte emarginazione.
Quel disprezzo trova nel terrorismo la risposta più semplice (tutte le cose semplici sono più facili), soprattutto perché i rappresentanti dei musulmani cosiddetti ‟moderati”, cioè pacifici -quelli che dovrebbero prosciugare lo stagno in cui recluta il terrorismo - sono personaggi pressoché ignoti, ai quali la politica, la televisione e gli altri media non prestano attenzione, sempre impegnati come sono a dare voce a figure ferocemente stupide, parolaie e senza alcun seguito; e non per ignoranza, ma per alimentare paura e diffidenza: una scelta analoga a quella che aveva nutrito con la risonanza dei media il terrorismo italiano. Il fatto è che gli esponenti islamici che lavorano per la convivenza non vivono di dichiarazioni altisonanti, ma di impegni quotidiani; e di un lavoro all'interno delle rispettive comunità continuamente ostacolato sia dalla deriva estremista della parte più insofferente dei loro concittadini, sia dai rispettivi governi filo-occidentali, nemici del conflitto, dell'emancipazione e della libera espressione del pensiero e spesso altrettanto sanguinari dei terroristi che ne minacciano il potere. Per quei leader l'assimilazione alle posizioni dei rispettivi governi filo-occidentali, o a quelle del governo italiano complice dell'occupazione dell'Iraq, costituisce una sicura fonte di delegittimazione. Mentre a stringerli tra l'incudine del terrorismo e il martello dei governi sono le crociate anti-islamiche promosse dai difensori ad oltranza delle radici religiose della civiltà occidentale; pronti a usare i ‟valori cristiani” come una clava.
A riprova della matrice dei terroristi italiani degli anni `70 vale il fatto che altri paesi europei e occidentali non hanno mai conosciuto un terrorismo paragonabile a quello italiano, perché non hanno avuto le stragi che ha conosciuto l'Italia. Solo gli irredentismi irlandese e basco, con comportamenti analoghi da entrambe le parti in causa, sono paragonabili, per dimensioni e durata, alla ‟lotta armata” italiana degli anni `70. D'altronde, le biografie di decine di ex militanti delle formazioni armate italiane tolgono ogni dubbio sull'origine e le motivazioni delle loro scelte.
Da tempo però, non più solo in Italia, ma a livello planetario (siamo d'altronde in epoca di globalizzazione) è all'opera un'altra e più attrezzata fabbrica di terroristi, che ha la sua matrice nel radicalismo islamico. Il buon senso, prima ancora che le ammissioni dei governi, riconosce che è impossibile sventare con operazioni di polizia attentati come quelli di Londra, o Madrid, Bali, Casablanca, Istanbul (anche se quello dell'11 settembre a New York sarebbe stato forse possibile bloccarlo). Il problema si trasferisce quindi su un altro piano: che cosa si può fare per prevenirli? Le opzioni di fondo non sono che due, alternative e inconciliabili: la guerra globale, ‟infinita” e preventiva contro il "terrorismo", senza nemmeno sapere che cosa sia e dove stia; e la promozione della defezione tra le sue file. La prima opzione, sostenuta da disinformazione e menzogne analoghe, per molti versi, a quelle diffuse dagli strateghi della ‟guerra non ortodossa” degli anni `70 in Italia, ha dimostrato il suo totale fallimento. L'Iraq occupato e non vinto ha concentrato sul suo territorio, ha moltiplicato, ha ispirato e ha diffuso in ogni angolo della Terra schiere di terroristi, pronti a soluzioni estreme come stragi indiscriminate e attentati suicidi. E' quella, oggi, la principale fabbrica di terroristi, come lo sono state, prima, l'occupazione militare dei Territori da parte di Israele e la guerra contro il regime filosovietico in Afghanistan: nata da politiche di potenza contrapposte, ma condotta per interposta persona da signori della guerra foraggiati e indottrinati dai wahabiti sauditi e armati fino ai denti dagli Stati uniti, e conclusasi con la vittoria del regime talebano, l'incistamento al suo interno di Bin Laden (un vecchio socio in affari della famiglia Bush e della Cia) e la diaspora dei ‟guerrieri” addestrati dagli Stati uniti: per diffondere il terrore in Algeria, Pakistan, Indonesia, Cecenia, nelle Filippine, oltre a ispirare e guidare tutti gli altri attentati del terrorismo di matrice islamica. Oggi peraltro l'Afghanistan, con l'eccezione della sua capitale, è di nuovo in mano a signori della guerra che da un momento all'altro, se già non lo sono, potrebbero trasformarsi in nuovi talebani; mentre il Pakistan, ufficialmente il principale alleato degli Stati uniti nella loro guerra infinita contro Bin Laden, ne è diventato in realtà nido, scuola e campo di addestramento.
La seconda opzione, la defezione, è meno semplice da programmare e più complicata da spiegare (tutte le cose complesse sono difficili). Ma l'unica possibilità di successo è prosciugare lo stagno in cui nuotano i terroristi di matrice islamica. In Italia le formazioni armate non sono state vinte dalle cariche della polizia contro i cortei del ‟movimento”, che, anzi, hanno contribuito non poco al loro reclutamento; né dall'intelligence degli apparati militari e giudiziari, parte dei quali aveva, e forse ha ancora, tutto l'interesse a tenerle in vita o ‟in sonno”, per farle riapparire al momento opportuno. E nemmeno sono stata vinte solo dall'esecrazione, generica e male informata, di un'opinione pubblica impaurita e indotta a ingigantirne la minaccia, proprio mentre la malavita organizzata assumeva, nell'indifferenza generale, il controllo del territorio in ben quattro regioni italiane. Sono state battute e si sono dissolte quando si sono accorte che ‟il movimento”, i compagni e i militanti che contavano di attirare sotto la loro egemonia, non li avrebbero mai seguiti: non erano, o non erano più, come se li immaginavano. Di lì sono cominciate le defezioni; perché era venuto meno il reclutamento; e il loro crollo è stato molto più rapido della loro incubazione. Certo, a vincerle ‟sul campo” sono state polizia e magistratura; ma se non fosse venuto meno il sostegno attivo, o anche solo passivo, degli ambienti in cui reclutavano, quella vittoria non sarebbe mai arrivata.
E oggi? Dove attinge le sue reclute il terrorismo di matrice islamica? Innanzitutto dall'orrore per la brutalità degli occupanti sulla popolazione dell'Iraq, dell'Afghanistan, della Cecenia, da Abu Grahib e Guantanamo, da Falluja a Grozny. Immagini come quelle del carnaio londinese sono vissute quotidianamente, tra l'indifferenza del mondo occidentale e cristiano, dalle popolazioni irachena, afgana, cecena, esposte da anni ai massacri perpetrati dagli occupanti o indotti da un terrorismo di importazione, alimentato dallo stato di guerra. Ma la prima fonte di reclutamento è il disprezzo per la vita, la dignità e la cultura di intere comunità, che si riflette nel razzismo e nelle angherie di cui è costellata la loro vita quotidiana, e che alimenta il terrorismo molto più della miseria del Sud del mondo o del degrado dei ghetti urbani, troppo spesso invocati a sproposito per spiegare azioni i cui autori raramente provengono da contesti di forte emarginazione.
Quel disprezzo trova nel terrorismo la risposta più semplice (tutte le cose semplici sono più facili), soprattutto perché i rappresentanti dei musulmani cosiddetti ‟moderati”, cioè pacifici -quelli che dovrebbero prosciugare lo stagno in cui recluta il terrorismo - sono personaggi pressoché ignoti, ai quali la politica, la televisione e gli altri media non prestano attenzione, sempre impegnati come sono a dare voce a figure ferocemente stupide, parolaie e senza alcun seguito; e non per ignoranza, ma per alimentare paura e diffidenza: una scelta analoga a quella che aveva nutrito con la risonanza dei media il terrorismo italiano. Il fatto è che gli esponenti islamici che lavorano per la convivenza non vivono di dichiarazioni altisonanti, ma di impegni quotidiani; e di un lavoro all'interno delle rispettive comunità continuamente ostacolato sia dalla deriva estremista della parte più insofferente dei loro concittadini, sia dai rispettivi governi filo-occidentali, nemici del conflitto, dell'emancipazione e della libera espressione del pensiero e spesso altrettanto sanguinari dei terroristi che ne minacciano il potere. Per quei leader l'assimilazione alle posizioni dei rispettivi governi filo-occidentali, o a quelle del governo italiano complice dell'occupazione dell'Iraq, costituisce una sicura fonte di delegittimazione. Mentre a stringerli tra l'incudine del terrorismo e il martello dei governi sono le crociate anti-islamiche promosse dai difensori ad oltranza delle radici religiose della civiltà occidentale; pronti a usare i ‟valori cristiani” come una clava.
Guido Viale
Guido Viale, nato a Tokyo nel 1943, e vive a Milano. Ha lavorato in diverse società di ricerca e progettazione in ambito economico, sociale e ambientale e svolge un’intensa attività …